

C’ è, in Arizona, un giardino dal nome ammaliante: Endless forms most beautiful (“Infinite forme bellissime”) – che riprende il finale di L’origine delle specie, il grande capolavoro di Charles Darwin, pubblicato per la prima volta nel 1859. Non è un giardino qualsiasi: è un giardino sul cancro. Racconta la sua natura evolutiva, il suo legame indissolubile con ogni forma di vita. Questo giardino è infatti popolato da piante particolari: i cactus crestati, un esempio lampante dell’ubiquità delle formazioni tumorali nel lussureggiante albero della vita. I cactus, come molte altre piante, sono noti per la facilità con cui sviluppano “crestazioni” o “fasciazioni”, cioè formazioni anomale che crescono alla loro sommità: “creste” di una certa bellezza, che tuttavia non sono altro che tumori, ammassi di cellule che si sono riprodotte in modo incontrollato producendo tali formazioni aggiuntive, la cui presenza può incidere sulla salute della pianta stessa.
Il giardino fa parte del progetto ArtSci dell’Arizona cancer evolution center e ha lo scopo di testimoniare la presenza ubiqua del cancro in tutte le forme di vita, fin dalle origini della pluricellularità. Il cancro è onnipresente nel mondo vivente, e sembra essere un ineluttabile effetto collaterale del grande salto di qualità compiuto dalla vita più di un miliardo di anni fa (anche se pare che la vita pluricellulare si sia evoluta indipendentemente diverse volte). D’altro canto, i cactus e le loro fasciazioni sono interessanti anche per un altro motivo. Questi tumori, infatti, non uccidono l’organismo a spese del quale crescono; al contrario, nella maggior parte dei casi la pianta sopravvive, tollerando la formazione tumorale.
Sebbene la scarsa aggressività dei tumori delle piante sia dovuta a caratteristiche legate alla specifica fisiologia di questo gruppo tassonomico, tale peculiarità suggerisce una prospettiva stimolante: consente di immaginare un futuro in cui il cancro, anche negli esseri umani, non sia più una malattia acuta, letale e dai meccanismi un po’ misteriosi, ma una condizione gestibile e cronica. Questo giardino di “infinite forme bellissime” vuole stimolare la riflessione sul cancro non tanto in quanto malattia – esperienza di vita purtroppo molto diffusa – ma principalmente come problema scientifico, sull’origine e i meccanismi del quale ci si può interrogare, e che si può esplorare alla ricerca di nuove soluzioni.
Il tumore: tradimento della cooperazione
Come la citazione darwiniana suggerisce, la chiave di volta di questo particolare approccio alla ricerca sul cancro è proprio l’inclusione della teoria dell’evoluzione, spesso assente negli studi di medicina. Affrontare problemi sanitari attraverso la lente dell’evoluzione può sembrare superfluo, o addirittura controproducente: come potrebbe un approccio lento e teorico risultare utile in una dimensione nella quale la celerità regna sovrana, in cui si lotta costantemente contro il tempo per strappare i pazienti alla malattia e alla morte?
Il cancro non è un’entità esterna, ma una conseguenza naturale del nostro essere organismi pluricellulari, frutto di continui compromessi tra cooperazione e conflitto tra i miliardi di cellule che ci compongono.
Nel caso del cancro, però, adottare un approccio evoluzionistico, cercando di comprendere le ragioni profonde del suo emergere negli organismi viventi, potrebbe non essere così futile, e potrebbe addirittura risultare confortante per chi sta facendo i conti con questa malattia. Questo punto di vista mostra come il cancro non sia un’entità esterna, un nemico da combattere, ma una conseguenza naturale del nostro essere organismi pluricellulari, frutto di continui compromessi tra cooperazione e conflitto tra i miliardi di cellule che ci compongono.
“In parte, intendiamo questo giardino come la rappresentazione di questo nuovo approccio al cancro [la terapia adattiva, di cui diremo più avanti, N.d.A.]: vivere con il cancro come una normale componente della vita, potandolo ogni tanto e gestendolo in modo responsabile”, spiegano Pamela Winfrey, Caspian Robertson, Carlo Maley e Athena Aktipis, ideatori e curatori del progetto, in un articolo sull’origine e lo sviluppo della loro idea. Proprio Athena Aktipis, biologa evoluzionista esperta in teorie della cooperazione e docente all’Arizona State University, è autrice di un saggio, uscito in Italia con il titolo Secondo natura. Come l’evoluzione ci aiuta a ripensare il cancro, nel quale offre una panoramica delle più recenti ricerche su questo spostamento di paradigma.
Un approccio evoluzionistico può aiutare a comprendere le dinamiche e le ragioni evolutive che rendono possibile lo sviluppo di un tumore. A cambiare è innanzitutto la definizione di cosa il cancro sia: una sospensione della cooperazione tra cellule, un tradimento di alcuni membri della comunità nei confronti del proprio gruppo, e un ritorno a comportamenti che potremmo interpretare come ancestrali. Possiamo immaginare che proprio questi comportamenti fossero la norma in un mondo “egoista”, antecedente al momento in cui la cooperazione prevalse come strategia vincente per la vita e la pluricellularità si affermò.
A rendere possibile questo “tradimento cellulare”, come lo definisce Aktipis, è una duplicità insita nella natura stessa degli organismi pluricellulari: le cellule che costituiscono l’organismo sono al tempo stesso parte di un’unica entità, riconoscibile come individuo, e unità a sé stanti, che hanno “scelto” di rinunciare a un benessere individuale immediato per ricevere maggiori benefici attraverso l’appartenenza al gruppo e l’adesione alle sue regole. Nel caso del tumore, questa dinamica si ribalta: la cellula tumorale tradisce il patto sociale della cooperazione e sfrutta i benefici dello stare in comunità senza contribuire al suo mantenimento. In questo modo risulta dannosa per l’insieme – l’organismo di cui fa parte – ma massimizza, almeno nel breve termine, il proprio successo adattativo.
Competizione e cooperazione a diversi livelli
Quella di guardare al cancro attraverso una lente evolutiva non è un’idea nuova: già negli anni Cinquanta del Novecento la biologia del cancro si era orientata verso questo approccio, che è però stato accantonato fino all’inizio del nuovo millennio. E quando il dibattito specifico sulla biologia del cancro è ripreso, si è incagliato nelle stesse domande e nelle stesse posizioni già delineatesi su più larga scala nella biologia evoluzionistica: una contrapposizione tra la visione neodarwiniana dell’evoluzione, incentrata su variazione genetica (e, più recentemente, epigenetica) e selezione naturale, e la prospettiva della cosiddetta “sintesi estesa”, che include nella spiegazione evoluzionistica processi di variazione e selezione non genetici, come la plasticità fenotipica, e meccanismi di “spinta” dell’evoluzione diversi dalla competizione.
La sintesi estesa integra nella teoria evolutiva un approccio relazionale ed ecologico, che pone attenzione alle costanti e profonde interazioni sia tra gli organismi, che tra questi e i loro ambienti.
La visione gene-centrica dell’evoluzione è senz’altro valida, ma, affermano i suoi critici, parziale, dal momento che non riconosce l’importanza di fattori evolutivi come la cooperazione – fenomeno che è invece ubiquo nel mondo della vita – e la sostanziale interdipendenza tra i viventi a tutti i livelli, dal microscopico al macroevolutivo. La sintesi estesa, invece, integra nella teoria evolutiva un approccio relazionale ed ecologico, che pone attenzione alle costanti e profonde interazioni sia tra gli organismi, sia tra questi e i loro ambienti. Nel libro di Aktipis e, più in generale, nell’approccio teorico allo studio del cancro di cui la studiosa si fa portavoce, un elemento di questa visione estesa assume particolare centralità: il concetto di cooperazione. Come abbiamo visto, in quest’ottica il cancro è visto essenzialmente come una rottura dell’accordo di cooperazione che rende possibile l’esistenza di organismi pluricellulari dall’estrema complessità strutturale.
Ma, allora, sorge spontanea la domanda sul perché l’evoluzione renda possibile l’esistenza del cancro, fenomeno che, essendo onnipresente in natura, non può essere semplicemente sfuggito alla selezione; al contrario, a un certo punto della storia della vita, potrebbe aver apportato qualche vantaggio alla vita stessa. Ebbene, la risposta fornita da Aktipis è che il cancro sia l’effetto collaterale (o, talvolta, il prodotto inevitabile) del continuo compromesso tra competizione e cooperazione che si esplica a ogni livello della vita: tra le cellule, tra organismi e tra popolazioni. In un organismo cooperativo, questo compromesso è difficile da mantenere: non solo durante le fasi iniziali dello sviluppo, ma per tutta la vita l’organismo ha bisogno che le “sue” cellule agiscano e si riproducano per portare avanti la vitalità dell’insieme. È essenziale, però, che questa attività venga limitata affinché non insorgano conflitti tra gli interessi contrapposti dei singoli e della comunità. Insomma, come in qualsiasi società paritaria, anche a livello cellulare vale – o dovrebbe valere – il principio secondo cui “la libertà di un individuo finisce dove inizia la libertà dell’altro”.
Nel corso dell’evoluzione, gli organismi pluricellulari hanno sviluppato una varietà di strategie di contenimento e controllo del comportamento egoista che potrebbe emergere a livello cellulare. Alcuni geni, ad esempio, sono noti per la loro funzione di soppressione tumorale, ed entrano in gioco quando la cellula intraprende comportamenti anomali inducendo i propri meccanismi di autodistruzione. Inoltre, esiste una sorta di controllo incrociato in cui ogni cellula monitora le proprie vicine, rilevando forme di espressione genica sospette e avvisando il sistema immunitario. E infine c’è il sistema immunitario, appunto, che ha il compito di individuare e distruggere le anomalie potenzialmente dannose.
Una questione di priorità
Nonostante tutti questi meccanismi, il cancro potrebbe presentarsi in ogni momento della nostra esistenza. Le cellule esprimono costantemente comportamenti che potrebbero essere definiti pretumorali (ad esempio, una rapida proliferazione) e che, in una certa misura, vengono tollerati dall’organismo e possono essere controllati. Nelle diverse specie viventi, il grado di tolleranza al cancro è una questione di compromessi, scelte e priorità. Ad esempio, in tutti gli organismi (umani compresi) sembra esservi una diretta correlazione tra l’invecchiamento e la probabilità di sviluppare tumori. Una spiegazione plausibile di questo fenomeno è il rilassamento della selezione purificante (quella che monitora ed elimina le mutazioni genetiche), così che, con l’avanzare dell’età, un maggior numero di mutazioni si accumula nel genoma. Ciò accresce la probabilità che alcune di queste mutazioni diano alle cellule che ne sono portatrici un vantaggio adattativo (ad esempio, un aumento del tasso di proliferazione), il che aumenta le possibilità che il comportamento “egoistico” dia il via a una crescita tumorale.
Guardare al cancro in una prospettiva ecologica ed evolutiva significa mettersi, idealmente, allo stesso livello delle cellule tumorali, provare a comprendere il loro punto di vista e le loro necessità.
Tra le diverse specie, inoltre, il livello di suscettibilità al cancro aumenta o diminuisce in funzione della longevità e della velocità di riproduzione: specie che si riproducono poco e hanno una vita lunga sembrano aver sviluppato più e migliori meccanismi per prevenire l’occorrenza di tumori nel proprio organismo; al contrario, organismi con un alto tasso riproduttivo e dalla vita breve sembrano propendere per la scommessa rischiosa di non investire molto in meccanismi di controllo e oncosoppressione – energeticamente dispendiosi – esponendosi di più alla possibilità che il cancro si presenti.
Una forma di controllo a lungo termine: la terapia adattiva
Guardare al cancro in una prospettiva ecologica ed evolutiva significa mettersi, idealmente, allo stesso livello delle cellule tumorali, provare a “pensare” come loro, tentare di conoscere il loro ambiente, comprendere il loro punto di vista e le loro necessità. Il tumore ha un contesto ecologico: vive in un ambiente e ha bisogno di determinate risorse; inoltre, sottostà a dei processi evolutivi: ha una tendenza alla conservazione e mira al successo riproduttivo, per tramandare la propria eredità genetica alle generazioni successive (bisogna tenere a mente che questo linguaggio che sembra supporre un’individualità e un’intenzionalità delle cellule tumorali è, come sempre quando si parla di evoluzione, puramente metaforico). Ma provare a pensare come un tumore può essere un modo per trovare strategie più efficaci nel contrastarlo.
Se, come suggerisce la visione ecologica ed evolutiva qui accennata, eradicare il cancro dalle nostre esistenze è impossibile, poiché anch’esso è parte del fenomeno della vita, possiamo forse anche ripensare le strategie per curarlo: tenerlo sotto controllo, renderlo pressoché inoffensivo, domarlo. È questa la sfida della terapia adattiva, una nuova frontiera della cura del cancro che si basa proprio sulla comprensione dei fattori ecologici ed evolutivi che regolano la crescita e la progressione dei tumori.
Uno dei principali problemi a cui le terapie farmacologiche devono far fronte è il fatto che, dopo un certo periodo di esposizione, molti tumori sviluppano una resistenza ai farmaci. Si tratta di un classico fenomeno di “corsa agli armamenti evolutiva”: se un farmaco non ha successo nell’uccidere tutte le cellule tumorali, le poche sopravvissute – sopravvissute proprio in quanto resistenti al farmaco – riprenderanno a riprodursi, e il cancro risorgerà dalle sue ceneri in una forma più resistente. La terapia adattiva prova ad aggirare il problema cambiando strategia: non più un bombardamento con grandi quantità di farmaco citotossico, con l’obiettivo di eliminare tutte le cellule tumorali, ma un’esposizione modulata per indebolire la “comunità” tumorale prima bloccandone la crescita, e poi rallentandole il tasso di evoluzione.
Modulando l’esposizione di una popolazione tumorale a determinati farmaci se ne può influenzare la direzione evolutiva, ad esempio rallentando il tasso di crescita e inibendo la cooperazione tra cellule.
A informare questo approccio, che aggiunge un ulteriore livello alla complessità dei processi e dei meccanismi alla base del cancro, vi sono alcune osservazioni: ad esempio, si è notato che le cellule tumorali presentano un ciclo riproduttivo più lento se si trovano a vivere in un microambiente non particolarmente ostile e hanno a disposizione una fonte di risorse stabile, mentre pare che il tumore cresca più rapidamente e tenda a formare metastasi soprattutto quando le risorse sono scarse e il microambiente non è più ospitale, e dunque le cellule “migrano” verso nuovi lidi (un processo noto come “evoluzione per dispersione”). Una volta compresi questi meccanismi, modulando l’esposizione di una popolazione tumorale a determinati farmaci se ne può influenzare la direzione evolutiva, ad esempio rallentando il tasso di crescita e inibendo la cooperazione tra cellule (che si forma, anch’essa, soprattutto in condizioni di stress ecologico).
L’impiego oculato dei farmaci come pressione selettiva è una tecnica promettente, ma non è l’unica strada percorribile. Un altro tipo d’intervento consiste nel potenziare o riparare i meccanismi di controllo del tradimento cellulare che il tumore ha sospeso o “ingannato”, ad esempio coadiuvando la funzionalità del sistema immunitario. Si può anche controllare l’afflusso di risorse a cui il cancro può attingere, riducendole in modo lento e graduale così che il tumore riduca la propria attività vitale. Si tratta di un approccio comunemente usato in agricoltura per la gestione degli agenti infestanti e per il trattamento delle malattie infettive, ma, in quanto basato su principi ecologici ed evolutivi, è altrettanto valido per il trattamento del cancro.
Lo scopo ultimo della terapia adattiva è tenere sotto controllo il tumore e, idealmente, cronicizzarlo, “aumentando così in modo significativo la vita del paziente e riducendone le sofferenze attraverso la limitazione, piuttosto che l’eradicazione, della crescita e della diffusione del cancro”. Il cancro, insomma, è “un complesso sistema adattativo”, come lo hanno definito in un articolo del 2015 i biologi Gunther Jansen, Robert Gatenby e Athena Aktipis. Per poterlo trattare e, soprattutto, controllare, è necessario riconoscerne la natura dinamica. Ampliare la nostra comprensione di questa malattia accogliendo una visione evoluzionistica ci dà la speranza – conclude Aktipis nel suo libro – di “creare un mondo in cui curare [il cancro] diventi una forma di controllo a lungo termine”.