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ulla copertina di Il senso della natura di Paolo Pecere c’è una fotografia, fatta dall’autore, del vulcano Semeru sull’isola di Giava. La fotografia è incorniciata come se nella copertina blu del libro edito da Sellerio ci fosse proprio un affaccio rettangolare, una finestra sul Semeru. La cima del vulcano è in secondo piano, sopra c’è l’alba, sotto c’è una striscia di fumo chiaro, sotto un altro cono, il monte Bromo, che ci sembra più vicino e anch’esso sospeso sui fumi. Il senso della natura comincia quindi da un affaccio, una vista dalla finestra che chiama di fuori, che indica una direzione ma per un sentiero ancora da battere. Capita anche a noi, che sia proprio la vista a chiamarci per partire su sentieri magari già pronti, come quando nel weekend scappiamo per la fotografia di un paesaggio o per un certo “richiamo della natura”. Ma tornando al libro, per chi si fa convincere dalla copertina dunque la lettura comincerà anche in questo caso con una partenza fuori dalla città, lungo sette direzioni, Sette sentieri per la Terra, che è il sottotitolo.
Sono sette capitoli tematici, come sette arcani maggiori: la città (o la partenza), l’equilibrio, l’acqua, gli animali, le piante, l’aria, la casa (o il ritorno). L’intento della ricerca: “risvegliare un senso perduto della natura per farne un nuovo senso comune”. Il viaggio dunque, certo, è il motore dell’azione di questo libro, anche se non si tratta di un solo grande viaggio catartico à la Chatwin. I viaggi di Paolo Pecere – che insegna filosofia e scrive anche per il Tascabile – somigliano più alle spedizioni naturalistiche e geografiche del passato, come quelle del grande geografo, esploratore e naturalista Alexander von Humboldt, cui fa più volte riferimento (uno dei quadri con cui lo ricordiamo è proprio la vista di un altro vulcano, il monte Chimborazo). Come Humboldt, mentre viaggia Paolo Pecere fa una ricerca di campo integrale: racconta un luogo, studiandone ciò che si vede, chi lo abita e chi si incontra, le relazioni ecologiche con le altre specie animali, l’attività economica umana e come essa si intrecci con la conformazione dell’ambiente, con le sue viscere minerarie o la sua superficie erbosa; come un luogo sia il nodo di un mondo più ampio, l’intera Terra, e il punto di scontro di tante questioni odierne, ecologiche e umane.
In Nigeria, esamina le “piaghe del capitalismo” sull’ambiente umano e naturale della città di Lagos e della laguna che la circonda. Nell’Amazzonia è ospite della comunità Kitchwa e della familiarità che intrattiene con gli altri animali e la foresta, un “mondo senziente”. Nelle Azzorre si immerge per contemplare le mante e interrogarsi sull’essere senzienti degli altri animali (il libro è dedicato a una gatta), o interrogarsi sulla mente del polpo, ripescando le riflessioni di Peter Godfrey-Smith e Vinciane Despret, sullo sguardo dell’animale che ti osserva, come una balena alle Galapagos. E così via, in Africa, in Asia, o tra gli abitanti della Slab City nel deserto californiano, o a Hong Kong. La curiosità geografica è lo strumento per un’indagine profonda sulle relazioni che legano l’uomo alla Terra, alle sue risorse e alle sue presenze.
Insomma, ricapitolando, il resoconto dei viaggi sta assieme alla riflessione filosofica, scientifica, storica, ecologica. Ma il movimento è anche stilistico: il testo infatti non si presenta come una dissertazione serrata, anzi si va dal racconto all’analisi, alla riflessione e viceversa e al contrario. La digressione e la suggestione sono il metodo. L’incontro con un esemplare silverback di gorilla può suggerire un altro ricordo, una parentesi che si apre sulla storia della filosofia, con cui si torna a nuova coscienza nel bel mezzo della foresta.
Il tentativo di risvegliare quel senso della natura si fa non solo ridiscutendo i limiti dell’uomo ma anche attraverso il racconto di un’esperienza del mondo. Pecere procede attraverso le conversazioni con le persone, i suoi interessi personali e noi lo seguiamo. Lo spostamento è anche antropologico e psicologico, in cerca di altre forme di vita come in certi documentari di Werner Herzog, e ancora più oltre certe forme dell’identità, fuori dalla vita ordinaria e urbana. Uno spostamento estatico che esplora le piante allucinogene per far traballare l’individualità. Segue lo straniamento, l’essere spaesati e sorge qualcosa di amaro che anche tra i fiori angoscia (Lucrezio). Insomma forse non è vero che chi viaggia cambia solo il cielo ma non il proprio spirito, almeno quando ci si muove così.
Io però raggiungo online Paolo Pecere che si trova negli Stati Uniti, dove sta facendo ricerca alla Columbia University. Cerchiamo di capire alcune cose del suo libro e di prendere le mosse da lì per parlare del suo modo di fare ricerca, tra l’esperienza del viaggio e lo studio filosofico e geografico, del senso anche politico di questa ricerca, e delle possibilità che per noi si aprono.
Come è cresciuto il libro: è un collage di pezzi che avevi già scritto nel tempo mentre viaggiavi, oppure hai scritto tutto da zero, riflettendo a posteriori su quei viaggi e ricostruendoli, tempo dopo, con il ricordo?
Il metodo è stato misto. Avevo un ampio dossier nella mia memoria, un dossier di fotografie e letture fatte in quei viaggi di circa vent’anni. Ma non pensavo di scriverne. Quando qualche anno fa ho cominciato invece a pensare a questo progetto – a partire da alcune lezioni nei licei sulla storia del pensiero ecologico – allora ho cominciato a unire i punti. Poi, nei due anni in cui ho lavorato al libro, ho fatto anche alcuni viaggi mirati, scrivendo dei reportage per fissare alcune impressioni e avere una base narrativa, perché mi sono reso conto che questa dimensione del viaggio era un elemento fondamentale da accostare alla parte di studio e che mi ha condotto verso esperienze e consapevolezze che altrimenti non avrei raggiunto. Il capitolo sulle piante è un esempio di questo metodo: l’introduzione all’immaginario delle piante è basata sul mio primo rapporto con le foreste in Italia, viaggi precedenti di molto; segue una parte sulla botanica contemporanea e sull’intelligenza delle piante, parte che ho raccontato attraverso un viaggio nelle foreste americane californiane; infine c’è una parte sulle piante psicoattive per le quali ho fatto un viaggio di proposito, già pensando a questo libro.
Il viaggio: come diventa uno strumento conoscitivo?
Sicuramente per me il viaggio è un’esperienza di conoscenza in due sensi diversi. Uno è legato alla cultura più recente del viaggio, in cui c’è una componente di evasione dalla nostra vita ordinaria e spesso per me questa componente è stata istruttiva: seguivo una sorta di istinto e gradualmente poi cominciavo a capire perché ero stato attratto da certi luoghi – il che indica delle mancanze della vita che facciamo ordinariamente. Poi c’è un altro senso, di indagine scientifico-filosofica. Negli anni in cui stavo cominciando a pensare a questi temi, ho approfondito
Darwin e Humboldt. Entrambi non sono narratori di viaggio molto presenti soggettivamente, c’è però in loro una dimensione estetica del racconto e soprattutto diverse dimensioni di conoscenza: Humboldt in particolare nei suoi libri fa annotazioni antropologiche così come naturalistiche. In generale, il punto per Humboldt è che ogni luogo della Terra si comprende attraverso un’interazione globale di fattori, il tipo di piante che incontri, il tipo di animali che incontri, le popolazioni che incontri, quindi l’ambiente in senso ampio condiziona profondamente tutto ciò che si vede. In questo mi ci sono ritrovato. Dunque uscire dal modello di viaggio da cartolina, della cultura turistica, e lavorare sui nessi più ampi: che società c’è intorno, che economia c’è intorno, che ecologia c’è intorno a un paesaggio, e quanto questo si trasforma nel tempo. Quindi, certo, è fondamentale andare nei luoghi, ma questo processo di conoscenza necessariamente è sempre preceduto e seguito da studio.
Potremmo allora forse immaginare un sapere scientifico e filosofico e che assieme sia un ritornare situati in mezzo al mondo? Mi ricorda quello che scrive
Leopardi in Lettera a un giovane del XX secolo, dove auspica la nascita di una ultrafilosofia che, per così dire, colga l’intero delle cose. È il tuo modo di fare ricerca?
Certamente nelle cose che leggeva Leopardi, nella cultura del Settecento, questo tema emerge spesso. La stessa geografia comincia a costituirsi in quel periodo e ha un’importante componente filosofica. Un autore di cui sono esperto,
Kant, non il solito Kant dell’
a priori, faceva un sacco di cose e tra l’altro ha insegnato geografia e antropologia per tutta la vita. Dalle sue lezioni è stato ricavato un manuale dove definisce la geografia come una scienza del globo, del tutto, in cui tutto deve essere considerato congiuntamente, dalle relazioni di viaggio alle relazioni naturalistiche. Kant non si era mosso di casa, come si sa, però questo metodo può essere esercitato – secondo me anche più fruttuosamente – aggiungendo quello che ho provato a fare io: una dimensione soggettiva in cui coinvolgere chi legge. E per me questo è anche fare filosofia, riflettendo su uno
slum a Lagos, sull’esperienza di stare in alcuni luoghi montuosi della Colombia, o su quella di incontrare gli allevatori di renne in Mongolia. Credo che si possa fare una filosofia geografica anche a partire da queste cose.
Il libro ha nel titolo la parola “natura”, nel sottotitolo la parola “Terra”. Allora penso: non sarebbe forse meglio insistere proprio ragionando nei termini della “Terra”, delle “porzioni della Terra”, lasciando invece per un momento da parte la questione di definire e ridefinire il concetto di natura?
Molti pensatori che si occupano di ecologia oggi tendono a criticare se non addirittura a rifiutare la dicotomia natura-cultura e a non usare il concetto di natura. Io l’ho usato anzitutto perché il mio libro non vuole semplicemente portare il mio punto di vista ma accompagnare chi legge in un percorso storico e rendersi conto delle questioni, avendo una prospettiva lunga. “Natura” c’è nel nostro passato: c’è la storia naturale, la filosofia della natura, c’è un’idea di natura che ha animato l’ecologismo, l’ambientalismo. Un altro motivo per cui ho mantenuto il concetto è che mi sembra che sia ancora utile per sottolineare che esistono dei fattori che possiamo chiamare
naturali (certo, è una contingenza linguistica, una cosa della nostra lingua) comunque indipendenti dalle società umane. D’altra parte, “Terra” è un termine che da questo punto di vista ha meno rischi. Però sia natura che Terra sono parole che hanno dietro di sé un portato mitico e come Madre Natura c’è anche Gaia, come nei libri di
James Lovelock. A me interessa la Terra dal punto di vista geografico, cioè come totalità interconnessa, di territorio, di fattori che determinano quello che succede in ogni luogo, in quanto influenzato da quello che succede in tutti gli altri luoghi. Da questo punto di vista, non poteva quindi mancare il riferimento alla Terra.
Parliamo di umani, tu ne parli attraverso i molti incontri che hai fatto. Al di là del fatto che queste storie fanno parte del tuo racconto, per te si tratta di ricercare un elenco di possibili vite? Magari di possibili vite alternative alla nostra?
Sicuramente, questa è una delle cose che mi ha sempre motivato a viaggiare. L’ambiente è quasi sempre popolato. Anche quando l’ambiente è pochissimo popolato, per sottrazione o per il fatto che stai lì a guardarlo e ci sono altre persone con te, c’è una dimensione di investimento dello sguardo umano. Humboldt l’aveva raffigurato benissimo in un dipinto che si era fatto fare: quello che succede quando si viaggia è che arriva un visitatore dall’esterno e si relaziona con un paesaggio attraverso la mediazione di una persona che abita lì. Ciò ha tutta una serie di implicazioni politiche, economiche che non si possono trascurare e che sono produttive. Perché non si tratta di dire soltanto: “guardate, qui che c’è un posto dove ci sono ancora i pastori di renne, i nomadi, gli animisti”, come pure faccio. Ma si tratta soprattutto di innescare delle domande: forse in questo modo di vivere c’è qualcosa che possiamo recuperare? E si tratta, d’altra parte, anche di rendersi conto che noi, eredi delle società che hanno colonizzato mezzo mondo, portiamo oltre alla distruzione e al colonialismo anche delle cose di cui non possiamo fare a meno, delle idee di cui non possiamo fare a meno.
Stretti nella propria vita urbana, magari diretti al lavoro e stressati, si vieni colpiti – io quantomeno – da una citazione che è nel tuo libro. Il dio Dioniso che parla al re Penteo e gli dice “tu non sai cos’è la tua vita né cosa stai facendo”. Dioniso mi ha fatto venire in mente il tuo libro precedente Il dio che danza. Mi sembra che entrambi i libri si muovano anche alla ricerca di un’uscita dalla gabbia dell’identità, come a dire: c’è vita là fuori, ci sono persone che vivono diversamente, ci sono degli incontri possibili come con una balena che ti guarda dritto per un attimo. La ricerca di una sorta di espansione estatica.
Sì, c’è proprio una continuità tra i due libri – tra l’altro l’ultima frase di
Il dio che danza è la prima di
Il senso della natura, come se continuasse il viaggio. In effetti, in entrambi i casi per me si è trattato di parlare di esperienze in cui quello che ci sembra normale e inevitabile, addirittura strutturato nella nostra identità – si vive così secondo certe norme e spesso in città –, è messo in discussione e c’è un’apertura benefica. Questo avveniva con la danza e con i riti di possessione che racconto in
Il dio che danza, ed è raffigurato simbolicamente da quell’episodio fondamentale delle
Baccanti, in cui Dioniso arriva e pretende accoglienza per l’energia vitale che rappresenta nella città. Esperienze simili le ho fatte immergendomi sott’acqua, camminando in alta montagna o per cinque ore in un bosco. Ma possiamo trovare degli spazi anche nelle nostre città, per rompere le norme che ci opprimono e che sono introiettate, esattamente come con la danza. Prendere le distanze è possibile e questo può avere effetti trasformativi che è più difficile raggiungere stando soltanto a teorizzare.
Anche andare al mare (che forse non è quello che immaginiamo subito quando desideriamo andare into the wild) è un momento di contatto vivo con una serie di elementi naturali, il mare, il sale, la sabbia, il calore, eccetera, e questo può esercitare una forza su di noi. Tu mostri che ciò che chiamiamo animismo è una forma elaborata e codificata di esperienza che non è solo di certe culture lontane. Anche chi fa per esempio questa esperienza col mare, tutto sommato accessibile, sperimenta una qualche forma di animismo?
Sì, questo è proprio un caso di quello che ho tentato di ricavare dal mio lavoro di interazione e di scambio. La categoria dell’animismo è stata rilanciata da Philippe Descola per designare un modo di pensiero, proprio di alcune società, che anima in una maniera tendenzialmente antropomorfa tutti gli esseri viventi. In passato, un secolo fa grosso modo, il termine era inteso implicitamente in senso dispregiativo perché era proprio di società ritenute inferiori, mentre oggi si tende a rovesciarlo in una valutazione nostalgica di una visione incantata e perduta del mondo. Quello che io ho proposto è invece che c’è qualcosa che abbiamo in comune tutti in quanto esseri umani, rispetto a cui le culture cosiddette animiste sono un modo di elaborare e codificare una visione del mondo. Ma dal punto di vista esperienziale c’è qualcosa in comune: la nostra passività rispetto ai fenomeni meteorologici, naturali, le relazioni sensoriali che vanno ben oltre il semplice vedere un’immagine sulla retina ma che coinvolgono tutto il corpo. Tutto questo, secondo me, costituisce una base su un piano cognitivo ed emotivo di quello che poi chiamiamo animismo. Del resto sappiamo anche che i bambini di tutte le civiltà tendono un po’ spontaneamente a personificare cose, oggetti, parlare con altri animali, piante.
C’
è quel filone di pensiero che sostiene che proprio attraverso il confronto con le culture native nel Settecento l’Illuminismo ha preso certe strade. Oggi tornare a confrontarsi con altre culture, come hai fatto tu, può avere una direzione politica? Per te ha uno scopo politico?
Sì, questa è una cosa che mi ha sempre affascinato e per me certamente è una linea d’indagine che ha una dimensione politica. L’
Illuminismo è stato un movimento in cui è stato fortissimo l’impatto della colonizzazione e degli incontri geografico-culturali, dal Sud America al Pacifico. Un esempio è
Diderot che, non soltanto cercò di dare voce ai nativi in maniera fittizia nel
Supplemento al viaggio di Bougainville (1773), ma intervenne in maniera importante in
Storia delle due Indie (1770) di
Raynal, dando voce già a un punto di vista fortemente anticoloniale, antischiavistico. Però in Diderot, e ancora prima anche in
Montaigne, si trattava di selvaggi e di incontri fittizi o largamente rielaborati, di dialoghi immaginari. Di recente David Graeber e David Wengrow in
L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (2022) hanno invece immaginato che in questi incontri tra missionari e nativi alcuni personaggi fossero reali e che quindi sia arrivato qualcosa del pensiero nativo, che abbia influenzato il pensiero europeo.
Comunque stiano le cose, oggi abbiamo un epicentro di vera e propria lotta politica ed ecologica che è l’Amazzonia, un territorio enorme che coinvolge molti Paesi, dove c’è una lotta indigena di popolazioni, che non sono soltanto portavoce di certe idee, ma stanno consapevolmente dentro una contesa giuridica e politica, soprattutto in Brasile. Questo ha un impatto globale perché ovviamente le sorti di una foresta come l’Amazzonia hanno un impatto globale. Ci sono poi figure come Davi Copenawa e Ailton Krenak che hanno preso voce nel contesto brasiliano; c’è l’attivista e giornalista Eliane Brum che vive nell’Amazzonia e collabora a progetti come un’associazione giornalistica in cui le notizie sulla Amazzonia vengono date dai nativi in più lingue. Insomma, c’è qualcosa di nuovo che sta avvenendo. Quello che è stato a lungo il termine di confronto per un’autocritica della civiltà europea, “il nativo, l’ingenuo, il selvaggio”, adesso è una persona reale. Perciò non bisogna cadere di nuovo nella trappola del primitivismo: se sono persone reali, come tali non sono ignare della nostra società, della nostra cultura e questo è positivo, contro ogni mitizzazione del purismo culturale e nostalgico. L’incontro storico c’è stato, in maniera drammatica e sanguinosa, allora tanto vale rendersi conto che possiamo interagire. Insomma, non si tratta di dire: adesso mollo tutto e vado a vivere nella foresta con gli orsi (così
Voltaire prendeva in giro
Rousseau), ma posso invece portare delle idee e modificare le mie idee, in dialogo.
Continuando a parlare di politica, dal tuo racconto di certi luoghi, e delle loro implicazioni politiche ed economiche, si vedono in azione meccanismi di produzione e di scambio globali, come se in luoghi ai “confini dell’impero”, si vedesse davvero meglio come funziona l’impero: quindi il capitale. Ritieni che sia il capitalismo il problema?
Io provo a fare i conti con l’impatto dell’industrializzazione, ovviamente di una certa industrializzazione, di una certa economia. Constato che di fatto non esiste un altrove incontaminato da queste dinamiche. Vai in Nigeria e ti rendi conto che è stata fatta una scelta di abbandono dell’agricoltura, di sviluppo sul petrolio che ha avuto degli effetti devastanti sul piano ecologico e sul piano sociale. Vai in Colombia e ti rendi conto di come il narcotraffico ha avuto un impatto enorme sulla storia del Paese e sul paesaggio. Vai in luoghi molto remoti a osservare pastori in Mongolia e ti rendi conto che la sussistenza di queste comunità dipende da sussidi. Altra cosa: sul piano dell’impatto economico, e quindi anche in un certo senso capitalistico, oggi la conservazione degli ecosistemi dipende strettamente dall’attivazione di un’economia del turismo. In Ruanda, come racconto in un capitolo di cui parlo dei gorilla di montagna, dopo la guerra civile e il genocidio c’è stato un grande investimento nel settore del turismo. È un’industria in cui c’è un capitale che perlopiù viene dagli Stati Uniti e che però ha permesso di tutelare queste comunità di gorilla. Non si scappa mai da questo discorso.
Per me non è però soltanto un discorso sul capitalismo, perché racconto anche di contesti in cui c’è il capitalismo ma elaborato dai modelli politici in modo diverso, come in Cina. In generale quello che mi sembra emergere è l’esigenza di un’altra industrializzazione, rispetto alla quale non sono sufficienti i correttivi morbidi che oggi vengono proposti, che non cambiano la traiettoria dell’economia capitalista con le sue teorie sottostanti. Come racconto, per esempio, tutto il decentramento green e la decarbonizzazione nell’Unione Europea sono uno spostamento delle cause inquinanti della produzione delle attività minerarie in Paesi perlopiù africani.
Quando nel libro parli dei complicati intrecci su certi luoghi tra attori umani e non, mi veniva in mente quell’idea di Bruno Latour del “parlamento delle cose”, cioè di dare rappresentanza ad attori che umani non sono, attraverso rappresentanti umani. Tu che ne pensi?
Seguo queste discussioni perché oggi sono molto forti in filosofia e in antropologia, per esempio oggi è molto vivo il dibattito sui diritti dei territori e, prima ancora, lo era l’espansione dei diritti animali rispetto alle pratiche di allevamento e ricerca scientifica. Sono cose importantissime senza, come dire, essere subito unilaterali. Alcune cose non le sappiamo bene con chiarezza, perché si tratta sempre di attribuzione per analogia di diritti che abbiamo formulato anzitutto rispetto agli umani. Si pongono due problemi. Primo, fin dove regge questa analogia e come noi decidiamo a un certo punto che ha senso farla valere. Nel caso di animali potenzialmente senzienti, ci sono buone ragioni per evitare che soffrano inutilmente, nel caso dei territori può avere un senso da un punto di vista della tutela ecologica. Il secondo problema è che non diventi una strana ricerca di nicchia in cui aprire una nuova frontiera di diritti umani, quando i diritti umani non sono regolarmente rispettati da nessuna parte.
Posto di fronte alla necessità di una forma diversa di produzione industriale e di scambi tra umani e non, hai fantasticato di qualche utopia o pensi che ci sia la necessità di riattivare qualche processo di pensiero utopico?
Il pensiero utopico è per me un passo importante, preliminare. Mi sono anche posto il problema di non lasciare belle parole, mi sorveglio molto, mi censuro per certi versi: il rischio è di dire cose molto belle, come “torniamo a vivere con gli animali in città”, raccontando delle favole totalmente irrealizzabili. Questo non vuol dire che utopia sia una parola sbagliata, come a volte si dice dalle parti dei conservatori: intanto perché il sistema in cui viviamo è un episodio. È un mito raccontare che l’attuale sistema economico-politico sia permanente, necessario, l’unico e che tutto il resto sia una cosa che va contro il buon senso; è questo il punto di forza della prospettiva storica che ho adottato. L’utopia è senz’altro una terapia del pensiero molto positiva. Mi sembra un esercizio del pensiero utile immaginare che non per forza tutte le società devono convergere verso quel modello e che se ne possono immaginare altri, per cui qualcuno che sta a mezza strada potrebbe deviare prima che sia troppo tardi.
Perché invece non sognare oltre la Terra, costruire città su Marte e diventare multiplanetari come sostiene
Musk?
Da lettore di fantascienza non escludo nulla: se vogliamo immaginare con
Philip Dick che l’atmosfera di Marte diventi respirabile, vedremo. Come immaginario del presente, mi sembra una scappatoia rischiosa. In quell’ambiente marziano piuttosto morto non c’è qualcosa di vitale. Nell’immaginario di certi miliardari quello è uno spazio di assoluta libertà di organizzazione della società, di controllo assoluto: un set cinematografico in cui riproduciamo delle cose terrestri, selezionandole. Invece la Terra, che è un ambiente ospitale e straordinario, spesso ci costringe anche in maniera catastrofica a fare i conti con i limiti delle nostre idee: quel rapporto è produttivo, anche se ci litighiamo.