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D al crollo del Muro di Berlino fino a poche settimane fa, un presidente degli Stati Uniti che minacciasse di prendersi il territorio di un Paese NATO sarebbe stato fantascienza. A fine dicembre, neanche il tempo di insediarsi alla Casa Bianca, Donald Trump ha invece gettato le basi brutali della sua politica estera, fondata su un rapporto di forza senza scampo: l’intenzione di assumere il controllo della Groenlandia con le buone o le cattive, mettendo la Danimarca di fronte a un ricatto; assorbire il Canada come il 51° Stato dell’Unione, pena dazi spietati; assumere il controllo ‒ se necessario attraverso un intervento militare ‒ del Canale di Panama. E come desiderata verso i membri dell’Alleanza atlantica increduli, Trump ha chiesto che spendano in difesa fino al 5% del loro PIL. È chiaro che l’alleato oltreoceano per come lo conoscevamo non esiste più, e con esso il mondo raccontato da certi luoghi comuni veltroniani sull’America.
Secondo il giornalista Aris Roussinos, ex reporter della rivista Vice ora ritiratosi in Irlanda del Nord ad allevare pecore, poche immagini rappresentano meglio il cambiamento in atto ‒ il tramonto delle norme di governance occidentale del post-guerra fredda e un ritorno, da destra, alla sovranità nazionale ‒ della commedia Il diario di Bridget Jones di Sharon Maguire. Nel film del 2001, l’uomo perfetto idealizzato dalla protagonista è un avvocato per i diritti umani, forse ispirato a Keir Starmer ‒ attuale premier britannico travolto dalla questione migratoria ‒ che a un certo punto conquista l’interesse amoroso della protagonista per aver bloccato la deportazione di un richiedente asilo da parte del governo. Un prodotto della narrazione New Labour trionfante in quel momento, insomma, ma che, osserva Roussinos con malcelata soddisfazione, è ormai un relitto di un mondo scomparso.
L’industria globale dei diritti umani è stata in gran parte un prodotto dell’era unipolare statunitense, con l’idea che l’egemone globale sarebbe stato anche un perpetuo garante del multilateralismo e dell’ordine basato sulle regole. Ma il Trump 2.0 ci segnala che stiamo entrando in una nuova dimensione, non pienamente compresa dai liberali più ottimisti, convinti che la storia fosse finita, o che la destra populista fosse una parentesi. L’illusione che con la fine dell’Unione Sovietica si potesse affermare un paradigma cosmopolita basato sugli individui è svilita, calpestata, da un paradigma violentemente realista, basato sull’interesse nazionale.
Contrariamente a quanti prevedevano un approccio soltanto isolazionista, sul piano della politica estera Trump propone una Grande America con una visione imperiale che riorganizza l’Occidente: c’è senza dubbio il proposito di abbandonare una certa scuola interventista mainstream, liberale e neoconservatrice, che diceva di priorizzare la promozione della democrazia e dei diritti umani, anche con mezzi coercitivi e costi esorbitanti per la collettività, ma c’è anche l’idea di accorciare i fili che legano l’impero statunitense agli alleati, per avere una maggior presa su questi ultimi e dominare un fronte più compatto nella contesa tra grandi potenze, sotto il profilo politico, infrastrutturale e tecnologico, grazie al coordinamento tra ideologia e imprese private.
È chiaro che l’alleato oltreoceano per come lo conoscevamo non esiste più, e con esso il mondo raccontato da certi luoghi comuni sull’America.
Una delle figure centrali in questo nuovo capitalismo politico, raccontato con passione e minuzia, tra gli altri, dallo storico e saggista Alessandro Aresu, è Peter Thiel, miliardario e cofondatore di PayPal, il quale suggerisce che il ritorno di Donald Trump potrebbe segnare un’apocalisse, intesa come una “rivelazione” dei segreti del passato. Thiel, e il suo “giglio magico” che alcuni chiamano PayPal Mafia, crede fermamente che Internet stia contribuendo al crollo delle istituzioni tradizionali, definite come il Distributed idea suppression complex. Sostiene che presto verrà alla luce la verità a lungo nascosta al popolo, un popolo stanco del vecchio consenso sulle dinamiche della globalizzazione, condivise da democratici e repubblicani fino all’arrivo di Trump, e sarà svelato un grosso complotto che include l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e la pandemia. In questo tentativo di nuova riconciliazione sta anche la convergenza tra il movimento MAGA (Make America Great Again) e il mondo tecnologico della Silicon Valley, un’alleanza che punta a conferire nuova forza al Pentagono e a sopprimere qualsiasi velleità di “multipolarismo”. Se tutto ciò vi sembra grottesco, Trump non è più un’incidente della storia e non è più il momento di ridere.
Tuttavia, l’Unione Europa è quanto di più inadeguato ci sia a fronteggiare quest’altra faccia, più apocalittica, dell’America first, che integra il protezionismo con una strategia spietata di penetrazione e controllo degli alleati. La classe dirigente di Bruxelles è considerata dalla Casa Bianca come il ventre molle della NATO: impantanata in un’agenda ambientalista pensata durante il Covid e subito risultata inapplicabile e oggi in dismissione, impotente di fronte alla deindustrializzazione della Germania, e con vincoli di bilancio che fanno apparire un miraggio i colossali investimenti in intelligenza artificiale statunitense. Trump punta così a sfruttare l’arretratezza tecnologica, economica e militare europea per mettere le mani sulle infrastrutture e le tecnologie chiave del continente in modo che non finiscano in mano comunista. Se ci sarà una possibilità di spesa comune tollerata dai parametri di Maastricht, probabilmente sarà per comprare made in USA. Tutto questo, va da sé, porterà a una limitazione della diversità culturale e del dibattito europeo, con sempre più persone costrette a definirsi come “occidentali” o “anti-”.
Non è chiaro come i governi nazionali dell’Unione Europea potrebbero uscire dall’angolo: aumentare la spesa militare e gli investimenti pubblici per il clima e la digitalizzazione, raggiungendo al contempo surplus fiscali primari nel medio termine per rispettare le nuove regole fiscali europee? Sembra la ricetta perfetta per l’implosione. Inoltre, l’UE non ha la capacità di vedersi (figuriamoci di agire) come un attore unitario con una serie di interessi coerenti. Non puoi minacciare una guerra commerciale con lo stesso Paese di cui hai bisogno per la protezione militare. Viene da chiedersi poi come un sistema multilivello del genere, basato su un’infrastruttura giuridica volta a contenere le disarmonie interne, possa effettivamente emanciparsi da un approccio iperburocratico, senza un centro unitario e una politica comune che investano in nuove politiche industriali. La seconda amministrazione Trump è ben consapevole di queste debolezze, e vi prospera. Non a caso, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, qualche giorno fa ha dichiarato che non è “pessimista” dire che l’Europa sta affrontando una vera e propria “crisi esistenziale”.
Questo trumpismo 2.0 mette insieme una base di voto conservatrice sul piano culturale, desiderosa di ritirarsi dalle guerre inutili, e l’obiettivo di rafforzare il controllo sul blocco euroatlantico.
Se i fatti stanno dando ragione, in parte, alle critiche populiste per i limiti del progetto comunitario ‒ critiche che in Italia hanno alimentato il boom del governo giallo-verde cinque anni fa, e dato effimera visibilità alla sua galassia intellettuale ‒ gli euroscettici di successo non hanno troppi motivi per sorridere. Secondo Gilles Gressani, politologo e animatore della rivista Le Grande Continent, il ritorno di Trump alla Casa Bianca potrebbe trasformare i sovranisti europei in “utili idioti” della vassallizzazione statunitense. Figure come Alice Weidel in Germania, della destra di AfD (Alternative für Deutschland), o Marine Le Pen (Rassemblement National) in Francia sembrano prive di una visione geopolitica autonoma, e si allineeranno alle posizioni di Trump anche laddove dovrebbero avere una visione più sfumata. Il caso italiano non fa eccezione: nonostante l’accesso privilegiato a Trump grazie a Elon Musk, la strategia sembra quella di allinearsi del tutto agli Stati Uniti in cambio di sostegno politico. Casi che fanno credere che potrebbe essere proprio la destra nazionalista a fare da cavallo di Troia per affossare la sovranità dell’Europa occidentale e trasformare il continente da ex potenza coloniale in colonia statunitense.
Secondo l’ex spin doctor di Vladimir Putin, Vladislav Surkov, tornato di moda nei dibattiti geopolitici, la guerra in Ucraina avrebbe segnato l’inizio di una nuova era imperiale estendendo l’influsso di Putin su scala mondiale, come un virus. Mettendo in scena una sfilata di imperialismi (variando da versioni ridotte a grandiose, provinciali o globali, imitazioni o parodie talvolta grottesche, ma spesso anche serie), le grandi potenze che circondano la Russia sembrerebbero ormai proiettarsi in uno spazio “senza confini”, dando vita a un crescente desiderio di emulazione delle gesta del Cremlino, attraverso una neutralizzazione di sovranità all’interno di ciascuna sfera d’influenza. Mentre la Cina sviluppa pazientemente le sue “vie della seta” attraverso i continenti, i Paesi baltici tentano di cavalcare un’Europa fragile e di spingerla verso l’escalation; Trump, nel frattempo, propone l’espansione degli Stati Uniti, collegando questa aspirazione a una concezione imperiale simile al Lebensraum tedesco. Con tutta probabilità, i negoziati sull’Ucraina, per smembrarla e ridisegnare la mappa dell’Europa, avverranno tra la Russia e gli Stati Uniti ‒ senza il coinvolgimento di altri Paesi occidentali.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’attivismo liberale ha fatto enormi sforzi per mettere le singole repubbliche nella mappa mentale dell’Occidente. Con l’invasione russa dell’Ucraina, attraverso il mito della liberazione dell’Europa dal nazismo, ha gonfiato a dismisura, talvolta con forzature propagandistiche, gli sforzi di milioni di ucraini, bielorussi e altre “piccole nazioni” per affermarsi e sfuggire dalla Cortina di ferro. Ma la NATO, uscita trionfante nel 1991, e a lungo caratterizzata da una forte fiducia tra i membri, dall’equilibrio tra integrazione e sovranità, sta vedendo stravolta la sua natura. La fase in cui siamo ci indica un’alleanza più coercitiva e asimmetrica, con Washington in posizione molto più dominante che in passato. Proprio come il vecchio Patto di Varsavia, che tanti pensavano esclusiva dei popoli dell’Est. E forse non dovremmo neppure escludere una possibile deriva autoritaria, dal momento che l’Unione Europea è vista da Trump come un ostacolo al proprio progetto imperiale, e proprio per questo da indebolire ancora di più.
A differenza di Stati Uniti, Russia e Cina, che hanno sempre anteposto i propri interessi sovrani, la politica europea è dominata da ingenui altamente istruiti che considerano il diritto internazionale come una realtà oggettiva e autonoma.
Decenni fa, la Democrazia cristiana italiana era un partito in cui, sotto la costante riconferma della fedeltà atlantica, si sviluppava un vivace confronto tra diverse prospettive. Alcuni sostenevano un americanismo rigido, diffidente verso la distensione con l’Unione Sovietica e in sintonia con ambienti burocratico-diplomatici. Altri, invece, proponevano un atlantismo più articolato, arricchito da una marcata identità europea, una maggiore autonomia nazionale nel Terzo mondo e una spinta verso la conclusione della guerra fredda. Oggi non esiste in nessun Paese europeo un dibattito simile, neppure nel centrosinistra. Se Trump decidesse di mettere in pratica ciò che afferma, l’Europa attuale non avrebbe alcuna forza autonoma ‒ soprattutto forza delle idee ‒ per esercitare un contropotere. I sovranisti si renderebbero garanti della crescente egemonia statunitense.
Affinché l’autonomia europea possa essere anche solo pensata (nel momento in cui forse già non è più un’opzione, ma un’urgenza), bisognerebbe innanzitutto avere lo spazio culturale per considerare gli Stati Uniti di Trump un Paese ostile nella pratica, senza per questo finire espulsi dal dibattito. Questo spazio oggi è drammaticamente assente.