“S
olo storie vere, una donna alla volta” era il manifesto estetico-identitario di abbiamo le prove, il blog/progetto editoriale di non fiction letteraria creato da Violetta Bellocchio e conclusosi nel 2013, che si basava su una regola: un’esperienza alla volta, una voce alla volta, una verità alla volta.
A distanza di 11 anni, Electra (2024) appare come un’auto-sconfessione: Violetta Bellocchio sembra prendere la stessa regola e ribaltarla; in questa sua ultima opera («un vero e proprio debutto»), la narrazione si sdoppia e si complica, portando in scena non una, ma due donne – entrambe fatte della carne dell’autrice stessa. È una scelta che sfida l’unità e la linearità, rivelando un territorio frastagliato e sfaccettato dell’identità, dove l’io narrante si specchia e si sdoppia. Electra è un lavoro che mostra come, per raccontarsi, bisogna diventare un’altra.
Nel Prologo che ha funzione di prolessi ci si ritrova, spaesati, a novembre 2022: Violetta Bellocchio/Barbara Genova è su un aereo diretto in Portogallo dove si tiene una residenza artistica cui l’autrice è chiamata a partecipare. Basta qualche secondo di troppo sulla pista di atterraggio per avvertire il vuoto e cambiare di nuovo le regole del gioco: «Peccato che sul volo per Lisbona non ci è salita Barbara Genova. Non soltanto lei, almeno. Il carico era doppio; […] il corpo umano sotto il cappotto Emporio Armani pesava due volte il peso di un corpo umano di quella taglia».
Da qui, si fa un salto indietro: la Parte prima è una sequenza quasi estenuante di fatti nudi e crudi intercorsi tra il 2018 e il 2020, l’ultimo anno e mezzo di esistenza pubblica di Violetta Bellocchio ed è la sede dell’antefatto della narrazione. Una sera compresa tra il 25 aprile e il 1° maggio del 2018, in una via centrale di Milano uno sconosciuto piomba addosso a Bellocchio e la aggredisce sessualmente.
Ciò che sorprende e segna una netta deviazione rispetto alle rappresentazioni forse più familiari di violenze fisiche e sessuali è il registro adottato per restituire l’esperienza. Bellocchio non indulge in alcun sentimentalismo o in manifestazioni esplicite di pathos: il racconto assume un tono che rifugge ogni tentazione di complicità emotiva. La violenza non è oggetto né di riflessione morale né di catarsi letteraria, ma resta un puro accadimento, un fatto bruciante nella sua inesorabile concretezza:
Dalla testa l’impatto ha sbalzato le cuffie che sono rimaste attaccate al telefono: sono cadute restandomi al collo, ferme nel vuoto, come mi è rimasto il telefono chiuso nella mano destra. Forza più velocità più massa fisica uguale impatto, boom/ boom/boom/clap, il suono che sentivo in un secondo è passato da musica a niente. Quindi io mi ricordo il silenzio. Non c’erano suoni. Non c’erano voci. Nessuno ha parlato. Il telefono mi è rimasto chiuso nella mano destra. Non mi è caduto. Lo tenevo stretto.
La scelta stilistica si avvita in una torsione etica, e finisce per essere un modo di dare spessore al racconto dell’aggressione senza piegarsi alla tentazione di sfruttarlo come strumento di commozione preconfezionata. È il rifiuto di aderire ai codici tradizionali nel trattamento della materia scabrosa rappresentata dalla violenza sessuale che guida, scelta dopo scelta, scena dopo scena, tutta la narrazione intorno al fatto («“Il mio aggressore” – il mio chi?; lui non è il mio niente»).
Ciò che sorprende e segna una netta deviazione rispetto alle rappresentazioni forse più familiari di violenze fisiche e sessuali è il registro adottato per restituire l’esperienza. Bellocchio non indulge in alcun sentimentalismo o in manifestazioni esplicite di pathos.
Da questo episodio prende avvio un infernale girone burocratico, una sequenza di passaggi obbligati che si moltiplicano in una serie di ambienti ostili, quasi delle eterotopie foucaultiane. Prima la Questura, poi il Centro soccorso violenza sessuale e domestica dell’ospedale Mangiagalli, poi il resoconto alle persone vicine: ogni luogo in cui Bellocchio è chiamata a testimoniare diventa un territorio in cui l’esperienza soggettiva e sociale del trauma viene disarticolata per sottostare alle procedure adeguate. Eppure Bellocchio prova a restare ancorata alle sfumature dell’evento, a non cedere alla cancellazione di ciò che è accaduto:
«ragione scandita in parole molte volte e mai una volta reperibile nella dichiarazione resa su carta, io ho detto:
ho pensato che una donna che ha bevuto non avrebbe segnalato la cosa
ho pensato che una persona senza documenti non avrebbe segnalato la cosa
ho pensato che una donna o un uomo che anche solo teme di non padroneggiare la lingua italiana in ogni istante non segnalerebbe niente senza la presenza di un traduttore sul posto».
Nel labirinto burocratico, il processo di elaborazione del trauma si scontra con una realtà in cui il dubbio istituzionale amplifica la violenza originaria: «Faccio il nome della poliziotta, riferisco quante domande mi ha fatto sul conto di altre persone, e alla psicologa chiedo: ma queste cose legalmente me le poteva chiedere? La psicologa e il medico si scambiano un’occhiatina, e dicono, a me: no».
L’assalto dello sconosciuto ha le sembianze dell’evento scatenante di un lungo processo che culminerà nella sparizione; e tuttavia, la reductio ad violentiam non può spiegare tutto l’intricato ragionamento che porta alla decisione di sparire dalla vita mondana che viene, difatti, attuata qualche tempo dopo.
Nel labirinto burocratico, il processo di elaborazione del trauma si scontra con una realtà in cui il dubbio istituzionale amplifica la violenza originaria.
Nell’interregno della Sconosciuta senza nome – titolo della Parte seconda –, la donna-che-scrive sta tentando di lasciarsi Violetta Bellocchio alle spalle ma non è ancora formalizzata come Barbara Genova: «Era il 2020, tra un lockdown e l’altro, e ha pensato che se c’era un momento in cui sparire era quello».
Annichilita dagli eventi che stanno cambiando fisionomia al mondo, è all’incrocio tra la violenza subita, la tentazione della smaterializzazione negli ambienti discorsivi digitali e la compartecipazione epidermica agli eventi globali che viene gettato il seme della sparizione: «Perché dovrei scrivere un romanzo thriller quando posso realizzare un thriller dal vivo in tempo reale, prendendo in mano la regia dell’operazione?».
Nella Parte terza Bellocchio rinasce come Barbara Genova, «lo pseudonimo di una scrittrice rimasta bloccata in Europa Centrale durante il primo lockdown di una lunga serie». Con questo nome, «senza dire una parola a nessuno», Bellocchio vive e lavora per due anni lontano dai riflettori e dalla lingua madre, lasciandosi alle spalle il clamore del giudizio sociale e vivendo come autrice americana «lontana da casa», producendo «settanta tra poesie, racconti e saggi brevi».
È questo circuito di riviste a rimetterla al mondo, a ricucirla nella privacy lasciando che a scrivere sia una mano e nient’altro. Barbara Genova, infatti, non ha un corpo: a chi le chiede una foto da affiancare alla biografia su riviste e giornali, lei invia immagini della sua schiena, sottraendosi volontariamente alla dimensione della riconoscibilità fisica e della visibilità mediatica: «Nell’accettare che considerevoli porzioni della mia immagine venissero determinate da questo o quel professionista che si credeva più furbo di me, stavo svendendo all’asta la mia capacità di produrre lavoro in maniera professionale. Ogni apparizione pubblica ti stacca un morso di carne dal collo».
Bellocchio rinasce come Barbara Genova e con questo nome, «senza dire una parola a nessuno», vive e lavora per due anni lontano dai riflettori e dalla lingua madre, lasciandosi alle spalle il clamore del giudizio sociale.
In un panorama contemporaneo dove il lavoro intellettuale sembra richiedere sempre una presenza fisica costante, un esercizio continuo di personal branding, una persistente performance di insincera sincerità, il rifiuto di incarnarsi è un ritorno all’essenza del lavoro come azione, e dell’opera come risultato dell’agire, nella sua accezione più pura e rigorosa.
Nella società che esige che la lavoratrice culturale si mostri, si promuova, si esponga, Barbara Genova separa la mente dal corpo, la voce dall’immagine, il lavoro dalla sua autorialità firmata. Il lavoro torna a essere un processo incentrato sul silenzio, sul raccoglimento e sulla creazione: «Sono diventata il lavoro. […] Non ho mai desiderato altro»; così come si annulla il discrimine tra tempo di vita e tempo di lavoro: «Io perdo il tempo quando non sono occupata dal mio lavoro».
Barbara Genova è pensiero puro, è testa, è produzione che si sottrae alle logiche della visibilità, riportando l’atto creativo a un’essenzialità dimenticata.
Il gioco di sdoppiamento non è solo narrativo, ma anche stilistico: la voce narrante oscilla tra la prima persona (quella dell’autrice che si racconta direttamente), la seconda persona singolare (come se l’autrice si guardasse dall’esterno, fosse un’altra distaccata da sé stessa, assumesse persino il punto di vista del lettore) – e, addirittura, la terza persona (quando Bellocchio si trasforma nella “donna bionda”, quasi un precipitato del male gaze sulla propria persona). In questo movimento fluido tra diverse prospettive, la narrazione diventa un caleidoscopio di registri, dove ogni scelta stilistica è la manifestazione del pluralismo dell’identità stessa.
In un panorama contemporaneo dove il lavoro intellettuale sembra richiedere sempre una presenza fisica costante, un esercizio continuo di personal branding, una persistente performance di insincera sincerità, il rifiuto di incarnarsi è un ritorno all’essenza del lavoro come azione.
Potendo muoversi con naturalezza tra italiano e inglese – le due lingue madri frequentate dall’autrice –, l’uso del termine frantic per descrivere la lingua di Bellocchio assume una polisemia interessante. Frantic, come ‘frenetico’, richiama una scrittura veloce e nervosa, scandita da un ritmo spezzato e accelerazioni improvvise. Ma il termine suggerisce anche un’agitazione profonda e incontrollabile – una doppia valenza che riflette bene la lingua impugnata da Bellocchio: lucida e febbrile, rigorosa e tesa.
Si tratta di una lingua antiempatica, poiché rifugge il coinvolgimento emotivo diretto, fatta di scelte secche e precise, simili a un percorso disseminato di pietre d’inciampo: il ritmo si frantuma in interruzioni che impediscono una lettura rassicurante e il testo mantiene il lettore a distanza, costringendolo al confronto senza scorciatoie emotive. La lingua di Bellocchio diventa così un terreno accidentato, dove avanzare significa affrontare scosse e arresti improvvisi, in una sfida continua con la parola e il senso di scrivere per ritrovare il nucleo duro di sé stessi: «Barbara Genova è la prima cosa che faccio per scelta da quando sono viva». Ovvero: per vivere, bisogna diventare un’altra.