I l Giappone, agli occhi di quello che definiamo Occidente, è spesso percepito come un Paese statico, una sorta di isola immutabile in cui la stabilità politica e sociale si intrecciano con un senso di armonia collettiva. Questa immagine, profondamente radicata nella cultura pop che il Paese esporta, si è sedimentata nei decenni, alimentata anche da un contesto politico dominato per lungo tempo dal Partito liberaldemocratico (Jimintō). Ma gli eventi recenti mostrano una realtà diversa, fatta di tensioni e fragilità che mettono in discussione l’eterna idea di “pace sociale” nipponica.
Il caso del primo ministro Shigeru Ishiba, leader del Jimintō, è emblematico. Ishiba, salito al potere con la promessa di un rinnovamento interno, ha visto il suo governo vacillare in seguito alle elezioni anticipate da lui stesso indette. Il Jimintō, che si è presentato in coalizione con il Kōmeitō (un partito centrista ispirato al buddismo) alle elezioni di ottobre ha perso la maggioranza assoluta ‒ ottenendo il risultato più basso dal 2009. A godere della tornata elettorale è stato il Partito costituzionale democratico (il Rikken-minshutō). Dopo la sconfitta, Ishiba ha dovuto ammettere la perdita di fiducia degli elettori ma, al contempo, ha sostenuto che avrebbe fatto di tutto per evitare un “vuoto di potere”.
La sfiducia nei confronti del partito che domina la politica dal 1946, è un sentimento che si è coltivato negli anni e conseguenza di una congiuntura di diverse cose: c’è l’inflazione, l’incapacità di gestire il crollo della natalità e le pensioni, le prospettive giovanili. Ma ci sono di mezzo anche motivazioni più endogene al partito, come lo scandalo delle tangenti (con tanto di arresti, come nel caso dell’ex viceministro dell’Istruzione) o la rivelazione dell’influenza della Chiesa dell’Unificazione ‒ una potente setta nata in Corea ma che ha radici ovunque, basti pensare che possiede il quotidiano The Washington Times ‒ su alcuni membri del partito.
Il ballottaggio alla Camera bassa – il primo in trent’anni – ha quindi messo in discussione la staticità della politica dei partiti. L’ultima volta, nel 1994, durante il famigerato decennio della crisi post-bolla immobiliare, vinse il Partito socialista. Il Jimintō ha vinto, secondo alcuni analisti, anche perché le opposizioni non hanno saputo fare un blocco comune con un singolo candidato. Nonostante i sondaggi vedano il popolo sempre più deluso, il leader otaku e patriottico Ishiba resiste, ma il futuro non è roseo per un governo di minoranza che deve, tra le prime cose, affrontare la nuova politica dei dazi di Donald Trump sull’export nipponico.
Il ballottaggio alla Camera bassa – il primo in trent’anni – ha messo in discussione la staticità della politica dei partiti. L’ultima volta, nel 1994, durante il famigerato decennio della crisi post-bolla immobiliare, vinse il Partito socialista.
Come mai, a fronte di uno scenario così instabile, guardiamo al Giappone come a una nazione immutabile, sospesa in un’armonia senza tempo? La risposta potrebbe risiedere nel filtro culturale attraverso cui il Paese viene osservato. Da un lato, c’è la narrazione di una società omogenea e vastamente borghese, capace di superare le crisi economiche senza sussulti visibili. Dall’altro, la cultura pop giapponese – dagli anime ai videogiochi, passando per le icone kawaii come Hello Kitty o Pikachu – amplifica l’immagine di una quotidianità ordinata e pacificata. Se il Giappone fosse disteso sulla poltrona del suo psicanalista, diremmo che il kawaii è stato un mezzo per sublimare i traumi della guerra e dell’occupazione: un’accettazione forzata della subordinazione agli Stati Uniti. La nostalgia della fantasia imperiale ha fatto del Giappone la “potenza morbida” del kawaii, dove dolcezza e infantilismo si fanno strumento di soft-power. A livello pratico, anni fa il Giappone, tramite la politica del “Cool Japan”, ha deciso di “brandizzarsi” agli occhi del mondo con un’identità omogenea, dando l’idea di un Paese dove tradizione e futuro si fondono in opere in cui i mostri del folklore (gli Yokai) diventano icone pop, come nell’ovvio esempio dei Pokémon. Questa estetizzazione è un processo che de-storicizza il Giappone e lo immerge in una teca di avvilente orientalismo.
Può quindi sorprendere scoprire che in Giappone il tumulto sociale che sconvolse Europa e Stati Uniti nel 1968 arrivò anni prima; un periodo in cui i manga raccontavano la rabbia sociale, spesso di sinistra e di militanza studentesca e, in casi estremi, addirittura terroristica. Nel 1960 buona parte della società civile protestava contro la ratifica del Trattato di sicurezza nippo-americano (Anpo), un trattato che permetteva agli Stati Uniti di avere a disposizione il territorio nipponico per eventuali attività militari contro avversari esterni. Le proteste contro l’Anpo raggiunsero il loro momento più drammatico il 15 giugno, quando un’enorme folla si radunò di fronte alla Dieta di Tokyo. Studenti di estrema sinistra e poliziotti si scontrarono duramente, con tragiche conseguenze: la morte di una giovane studentessa e di un attivista dello Zengakuren, il movimento studentesco radicale. Quelle ore di caos rappresentano solo l’apice di una mobilitazione che si propagò rapidamente in tutto il Paese. Quella stessa tensione sociale trovò un simbolo ancor più inquietante e iconico pochi mesi dopo, quando Inejirō Asanuma, figura di spicco del Partito socialista e sostenitore di una visione filomaoista per il futuro del Giappone, fu assassinato. Durante un comizio, trasmesso in diretta televisiva, uno studente universitario di estrema destra lo colpì con una spada da samurai, uccidendolo davanti a milioni di spettatori.
Osservando oggi il Giappone, dipinto spesso come un luogo di equilibrio e stabilità, risulta difficile immaginare il tumulto che lo attraversava negli anni Sessanta. Ma quell’epoca turbolenta è fondamentale per comprendere le contraddizioni di un Paese che, nel dopoguerra, era un laboratorio di tensioni: economiche, politiche e culturali. Dietro il mito della calma apparente c’era una società in ebollizione, divisa fra tradizione e modernità, tra l’influenza americana e la tentazione di modelli alternativi.
È in questo contesto, ben diverso dalla idilliaca immagine che oggi molti in Occidente hanno del Giappone, che fiorisce una militanza politica anche all’interno dei manga. Il fumetto giapponese – da sempre un medium popolare e accessibile – diventa veicolo di idee radicali, che si rispecchiano in storie dai toni realistici e drammatici. Un esempio evidente è il gekiga, termine che significa letteralmente “immagini drammatiche”: si tratta di una corrente nata alla fine degli anni Cinquanta, improntata su temi sociali, psicologici e filosofici. Autori come Yoshihiro Tatsumi e Yoshiharu Tsuge dipingevano personaggi sconfitti e marginali, portando alla luce le tensioni del dopoguerra (in Italia case editrici come Coconino Press o Canicola hanno pubblicato i fondamentali, come La mia vita in barca o L’uomo senza talento).
Può sorprendere scoprire che in Giappone il tumulto sociale che sconvolse Europa e Stati Uniti nel 1968 arrivò anni prima; un periodo in cui i manga raccontavano la rabbia sociale, spesso di sinistra e di militanza studentesca e, in casi estremi, addirittura terroristica.
Sanpei Shirato, artista del gekiga attivo negli anni Sessanta, ambienta le sue opere nel Giappone feudale. Serie come Ninja Bugeichō Kagemaru Den (pubblicata in Italia con il titolo Kagemaru Den – La leggenda di un ninja) o The Legend of Kamui (ancora inedita da noi) raccontavano le sofferenze dei contadini, ultimi nella gerarchia sociale, offrendo una rilettura in chiave storica delle tensioni del Giappone contemporaneo. I fumetti di Shirato circolavano tra i collettivi universitari di sinistra come veri e propri manifesti politici durante le proteste contro l’Anpo. Questa forte impronta militante era ereditata dal padre, un pittore socialista attivo nei movimenti artistici del proletariato degli anni Venti e Trenta in Giappone.
Altro mangaka legato ai movimenti di sinistra è Keiji Nakazawa, autore di uno dei manga drammatici più acclamati da critica e lettori: il semiautobiografico Hadashi No Gen (Gen di Hiroshima). Pubblicato per la prima volta nel 1972, Gen segue le vicende di un bambino sopravvissuto al bombardamento atomico di Hiroshima. Antiretorica, l’opera denuncia l’imperialismo giapponese e statunitense, mostrando come la militarizzazione del Paese e la sottomissione all’autorità imperiale abbiano contribuito alle devastazioni belliche. Se il movimento delle xilografie del Giappone post-bellico aveva già fatto emergere storie di vita quotidiana dei ceti subalterni, Nakazawa raccoglie quello slancio politico e culturale, portandolo nel linguaggio popolare del fumetto. Attraverso immagini crude, lontane da ogni edulcorazione, Hadashi no Gen rivendica la dignità umana e sfida i miti fondanti di un Paese che fatica a fare i conti con il proprio passato. Non a caso, anche in tempi recenti, l’opera ha provocato polemiche. Nel 2012, durante il governo del nazionalista Shinzō Abe, una scuola elementare ne ha limitato l’accesso, accusandola di mostrare atrocità “mai avvenute”. Un episodio che riflette quanto la memoria critica – e l’eredità del pensiero socialista di Nakazawa – resti in Giappone un terreno fragile.
Se c’è un manga che ha addirittura rappresentato la Weltanschauung delle istanze più radicalizzate della sinistra giapponese è stato Ashita No Joe (da noi conosciuto come Rocky Joe). Pubblicato dal 1968 su Weekly Shonen Magazine, scritto da Asao Takamori (autore anche de L’Uomo Tigre) e disegnato da Tetsuya Chiba, è la storia di Joe Yabuki, un giovane ribelle che trova nel pugilato una via di riscatto sociale. Ambientato nel degrado delle periferie giapponesi e delle dure sfide del ring, il manga esplora temi come povertà, ambizione e sacrificio, tracciando un ritratto intenso e realistico dell’umanità urbana del Giappone di quegli anni. In Italia Rocky Joe è considerato uno dei migliori manga sportivi di sempre, ma pochi sono a conoscenza del fatto che fosse un manifesto politico della fazione dell’Armata Rossa, gruppo terrorista paramilitare formato da comunisti che volevano rovesciare il governo (e l’imperatore).
Dietro il mito della calma apparente c’era una società in ebollizione, divisa tra tradizione e modernità, tra l’influenza americana e la tentazione di modelli alternativi.
Il 31 marzo 1970, l’Armata Rossa mise in atto uno dei dirottamenti aerei più famosi nella storia del Giappone. Un Boeing della Japan Airlines, partito da Tokyo e diretto a Fukuoka, fu sequestrato con l’intenzione di condurre l’aereo fino a Cuba, passando per la Corea del Nord. L’obiettivo era ambizioso: dare avvio a una rivoluzione globale. Ma l’operazione si rivelò un fallimento. Al momento del dirottamento, uno dei membri del gruppo, brandendo una katana, gridò: “Noi siamo Ashita no Joe!” – “Noi siamo il Joe del domani”. Non riesco a immaginare un equivalente italiano, ma è un po’ come se un brigatista avesse urlato “Noi siamo Tex Willer” prima di una sparatoria con le forze dell’ordine.
Alcuni autori disegnavano sia prodotti per bambini sia fumetti politici. Per fare un esempio, Abiko Motō, uno dei due disegnatori di un’icona nazionale come Doraemon (si trovano gadget a lui dedicati letteralmente in ogni angolo di Tokyo), è stato anche l’autore di un’agiografia a fumetti di Mao Zedong. Oppure si pensi a Shōtarō Ishinomori, creatore di un’altra icona della cultura popolare, il supereroe insettoide Kamen Rider, che aveva disegnato su commissione dei sindacati un manga contro l’Anpo.
I mangaka che pubblicavano su quotidiani politici non erano un’anomalia. Anche quello che è universalmente conosciuto come l’artista manga più importante della storia dell’arcipelago, il “dio dei manga” Osamu Tezuka, lo fece. Per un anno collaborò con lo Shimbun Akahata, il giornale del Partito comunista giapponese, con una comic strip intitolata Tiger Land, una storia pacifista che promuoveva la convivenza tra uomini e animali. Nel 1967, in un articolo in cui il suo Astro Boy veniva rappresentato come simbolo anticapitalista, Tezuka dichiarò che il partito sarebbe stato il futuro del Giappone. Tuttavia, l’anno successivo, Tezuka cancellò il suo tesseramento, avvicinandosi a posizioni che riteneva più democratiche e meno ideologizzate. Il futuro del partito, invece, non fu mai segnato da successi elettorali.
Mentre in Europa gli studenti universitari e liceali degli anni Sessanta e Settanta brandivano gli scritti di Lenin e altri teorici della rivoluzione socialista, in Giappone i giovani arrabbiati si immergevano in storie di contadini oppressi da crudeli samurai, ninja e pugili ribelli. Ma perché questa generazione di scrittori e disegnatori militanti non ha lasciato eredi nel fumetto? La risposta è complessa, ma alcune spiegazioni emergono con chiarezza. Con l’affievolirsi delle contestazioni, il movimento del 1968 in Giappone non ha avuto lo stesso impatto trasformativo che ha caratterizzato le società occidentali. I baby boomers giapponesi, invece di rimanere simboli di cambiamento, si sono gradualmente adattati al ruolo conformista dei salaryman. Un altro fattore decisivo riguarda l’evoluzione dell’industria del manga. Negli anni Sessanta l’idea di censura in Giappone evocava ancora la polizia morale del periodo militarista, concluso da appena due decenni.
Il fumetto giapponese – da sempre un medium popolare e accessibile – diventa veicolo di idee radicali, che si rispecchiano in storie dai toni realistici e drammatici.
In quel contesto, il manga divenne una forma di ribellione giovanile. Anche su una rivista per ragazzi come Shonen Jump, un giovanissimo Gō Nagai poteva pubblicare storie audaci come La scuola senza pudore, un’opera erotico-comica ambientata in una scuola elementare. Tuttavia, come sottolinea il critico Jean-Marie Bouissou nel suo saggio Il manga, “nell’abbracciare la ribellione e i gusti degli adolescenti a scapito della buona creanza, il manga si attirò le ire di genitori e insegnanti”. Negli anni successivi, il crescente clima censorio, giustificato dal presunto rischio per i giovani lettori, contribuì all’appiattimento delle storie. A questo si aggiunse il progressivo controllo esercitato dagli editori sugli autori, che nelle generazioni successive si ritrovarono spesso limitati nella loro libertà creativa. Questo clima, unito all’assenza di una reale eredità culturale del Sessantotto giapponese, ha spezzato la continuità di quella stagione di scrittura militante.
Spesso, nella ricerca accademica, si cita il nome dell’artista e scultore Takashi Murakami, che in mostre come Little Boy: The Arts of Japan’s Exploding Subculture, ha messo in scena l’estetica superflat, dove cultura alta e bassa si incrociano. Una delle tesi avanzate da Murakami è che il Giappone postbellico abbia operato una sorta di rimozione collettiva della propria memoria storica. Eventi traumatici come l’invasione militare giapponese in Asia, le ambiguità legate al ruolo dell’imperatore e i bombardamenti atomici subiti dagli Stati Uniti sono stati gradualmente espunti dal discorso pubblico, soprattutto a partire dagli anni Settanta, con il declino della sinistra radicale. Questa amnesia selettiva avrebbe dato vita a una narrazione alterata della modernità giapponese, costruita su ideali di pace, stabilità sociale e crescita economica. Una sorta di “capsula temporale” che sospende il Giappone in una dimensione astorica, come dicevamo all’inizio dell’articolo.
Le case editrici hanno deciso di seguire gli interessi del pubblico generalista e negli anni Novanta abbiamo esempi di un tipo di manga nazionalista, che glorifica le forze armate e presenta eroi ben inseriti nella gerarchia istituzionale, invece che figure di protesta o di ribellione; nella proliferazione di storie incentrate su poliziotti, militari o atleti dediti al sacrificio e allo spirito di gruppo, laddove nei decenni precedenti si dava spazio a personaggi marginali, outsider, ribelli attivi contro l’autorità. Certamente negli anni Novanta appaiono personaggi ribelli come il protagonista di Great Teacher Onizuka, ideato da Tōru Fujisawa, ma sono rappresentati in modo più leggero e spesso inseriti in contesti che, pur sfidando le convenzioni sociali, non arrivano a mettere in discussione le strutture di potere o i valori fondamentali della società giapponese.
Il protagonista di Great Teacher Onizuka, ad esempio, è un outsider, ma la sua ribellione è canalizzata in una narrazione comica e positiva che lo porta a integrarsi, pur mantenendo un approccio anticonvenzionale. Allo stesso modo, opere come Trigun, di Yasuhiro Nightow, presentano figure marginali che lottano contro il “sistema”, ma lo fanno attraverso storie più avventurose o introspezioni personali. Questa tendenza riflette un’industria culturale che negli anni si è orientata verso il consumo di massa, dove l’irriverenza degli anni Sessanta e Settanta, legata ai movimenti studenteschi e alla contestazione sociale, lascia spazio a storie che privilegiano l’intrattenimento e l’identificazione personale, piuttosto che la critica sociopolitica mirata.
Questo ragionamento però non vuole essere una critica alla sottocultura degli otaku, che di questi prodotti si è cibata quotidianamente per anni: opere come Neon Genesis Evangelion o Berserk, continuano a esplorare temi di ribellione e alienazione, ma l’approccio è quello psicologico e filosofico, piuttosto che apertamente militante o ideologico. Il mondo otaku è solo apparentemente depoliticizzato.
Negli anni Sessanta e Settanta in Giappone i giovani arrabbiati si immergevano in storie di contadini oppressi da crudeli samurai, ninja e pugili ribelli. Ma perché questa generazione di scrittori e disegnatori militanti non ha lasciato eredi nel fumetto?
Ci sono infatti dovute eccezioni, naturalmente ‒ basta pensare alle opere pacifiste dello Studio Ghibli. Isao Takahata, regista di Una tomba per le lucciole, in vita era legato ai movimenti pacifisti e antiestablishment, una delle principali voci del mondo artistico che si opponeva al progetto di militarizzazione del già citato governo nazionalista di Shinzō Abe. Il leader del Jimintō è stato il promotore principale di una restaurazione militare del proprio Paese. La questione è complicata, ma per farla in breve: la costituzione del 1947 ‒ redatta sotto il controllo statunitense ‒, attraverso l’Articolo 9 proibisce esplicitamente al Giappone di mantenere forze armate. Non è effettivamente andata così, perché fin da subito furono costituite delle forze di autodifesa (le Jietai, un esercito di natura difensiva), anche come conseguenza dell’espansione comunista nel Sud-Est asiatico (come nel caso della guerra di Corea).
Nelle idee di Abe e della sua fazione politica le leggi sulla sicurezza del 2015 avrebbero garantito una maggiore libertà di manovra alle Jietai, ma gran parte della popolazione interpretò questa mossa politica come anticostituzionale. Questo evento ci riporta all’inizio del discorso: le proteste degli anni Sessanta contro l’Anpo erano mosse a difesa dell’Articolo 9. C’è poi chi ha rivisto una chiara eredità culturale e politica tra il governo del 1960 e quello del 2015. Il leader del partito di allora, l’ex criminale di guerra Nobusuke Kishi, era lo zio di Shinzō Abe.
Per tornare ad Isao Takahata, il suo retroterra culturale è quello degli hibakusha, i superstiti delle bombe atomiche, che negli anni hanno fondato un’associazione, la Nihon Hidankyo ‒ negli ultimi mesi salita alle cronache per il premio Nobel per la Pace. Il suo nucleo critico, così come dello Studio Ghibli stesso, nei confronti del mondo contemporaneo e dell’idea di guerra si manifesta in vari film, come Pom Poko (in cui dei tanuki per salvare la propria terra si comportano da ecoterroristi), mentre per Hayao Miyazaki, si concretizza in opere esplicitamente antifasciste come Porco rosso. Negli anni Ottanta e Novanta la critica politica e sociale si sviluppa nella sfiducia nei confronti del futuro, come nei genocidi spaziali del primo Gundam di Yoshiyuki Tomino, nei ribelli post-atomici di Akira, di Katsuhiro Ōtomo, o nella distopia fascistoide di Jin-Roh, di Hiroyuki Okiura. Ma come abbiamo detto poco sopra per Trigun, si percepisce in queste storie una transizione da ribellione collettiva a esplorazioni individuali e filosofiche del conflitto con la società: siamo lontani dall’estetica brutale del gekiga, che mescolava realismo e drammaticità, così come dai corpi scheletrici distrutti dalla fame che si vedono ne Il giovane Yoshio di Yoshiharu Tsuge o dai miserabili sconfitti di Yoshihiro Tatsumi.