N el cortometraggio Vacche ribelli del fotografo e documentarista Paolo Rossi viene raccontata la storia, quasi leggendaria, di una mandria di mucche in fuga. Negli anni Dieci del 2000, in Liguria, gli animali erano stati sequestrati al loro proprietario ed erano stati affidati al sindaco di Mele, un paesino di poco più di duemilacinquecento anime. La mandria contava ottanta esemplari che in inverno si misero a vagare in cerca di cibo, saccheggiando gli orti delle cascine dislocate nell’area, finché arrivò il momento del recupero: le vacche vennero fatte entrare in un recinto per poi essere caricate in un furgone e trasportate altrove, ma una di loro ruppe una staccionata portando con sé una decina di compagne. Fuggirono nei boschi e le autorità ne ordinarono l’abbattimento per questioni di sicurezza pubblica. Ma le vacche si erano rapidamente adattate alla loro vita libera: si muovevano di notte e sarebbero state invisibili se non fosse stato per le riprese delle videotrappole. Erano ben più evidenti, invece, alcuni danni causati agli abitanti della zona, come le staccionate divelte per via della ricerca di cibo. Nonostante la taglia che pendeva sulla loro testa, le fuggiasche proseguirono per diversi anni la vita selvatica: abbattere una mucca non è cosa da poco, figurarsi una mandria intera. Questa era la situazione nel 2017, anno di uscita del documentario sulle vacche ribelli di Mele.
Esistono numerosi casi analoghi di animali che insorgono contro il destino riservato loro dagli esseri umani. Leoni che scappano da un circo, polpi da laboratorio che spruzzano acqua verso ricercatori non graditi, maiali che divorano il proprio allevatore, fenicotteri che conquistano l’indipendenza volando via da uno zoo e cinghiali che passeggiano per le strade delle nostre città alla conquista del territorio urbano. Questi sono solo alcuni degli episodi citati da Roberto Inchingolo, naturalista e comunicatore della scienza, nel suo La vendetta delle orche. E altre storie di resistenza animale (Codice Edizioni, 2024). Sono racconti che stupiscono ed emozionano, soprattutto perché riescono a farci entrare in empatia con le vicende dei loro protagonisti “ribelli”. Le migliaia di esemplari di un allevamento intensivo, la definizione astratta di una specie da proteggere per preservare la biodiversità, le cavie invisibili della sperimentazione animale sono sostituite dalla concreta individualità di quegli animali in fuga che non sono più una distesa informe, un sostantivo o un concetto. Quel che emerge da queste storie è la volontà dei singoli animali di agire, di sopravvivere e di vivere meglio, e questo dovrebbe colpirci: “da lì è possibile che scaturisca un cambio di attitudine, una presa di coscienza diversa”, spiega Inchingolo. “Iniziamo forse a scorgere uno spazio per rivedere completamente la relazione con gli altri animali”.
Perché fuggono gli animali protagonisti di queste storie? Cosa cercano? Da cosa desiderano sottrarsi? Cos’è la libertà per un animale? Libertà significa poter scegliere: scegliere cosa mangiare, scegliere dove vivere, quando dormire, con quali conspecifici condividere le giornate e con quali esemplari di altre specie tentare delle interazioni. È poter evadere dalla noia e dalle costrizioni di un’esistenza confinata, esplorare, e — perché no? — rischiare. Nei casi più drammatici essere liberi significa non essere condannati a una quotidianità miserabile, diversa e tragicamente peggiore rispetto ai propri bisogni, alle motivazioni e ai desideri. Se queste parole ci suonano familiari è perché anche noi siamo animali, questo è il motivo per cui le storie di resistenza animale ci piacciono, perché spesso il fuggiasco ci affascina e ci ritroviamo a tifare per lui. “È chiaro che questi esempi sono infinitesimi rispetto al volume di sofferenza che infliggiamo agli animali”, riconosce Inchingolo, “ma è la stessa sofferenza dalla quale tentano di fuggire a permetterci di capire che non stiamo parlando di una risorsa priva di una volontà e di desiderio di libertà. Non stiamo parlando di mera carne, ma di qualcos’altro”.
Perché fuggono gli animali protagonisti di queste storie? Cosa cercano? Da cosa desiderano sottrarsi?
Ne La vendetta delle orche il tema della resistenza animale viene affrontato da un punto di vista naturalistico ed evolutivo. Le vicende raccontate “sono atti che spesso hanno un valore adattivo misurabile scientificamente, azioni che in termini evolutivi incrementano la fitness, la propria capacità di sopravvivere e lasciare il patrimonio genetico alle generazioni successive”. Eppure, inevitabilmente, il dibattito sulla resistenza animale assume anche una connotazione politica, sociale ed etica: quando un vitello scappa da un macello, quando un felino evade dal tendone di un circo o dall’exhibit di uno zoo, ma anche quando un’orca uccide il suo addestratore o quando un cane randagio – libero, non abbandonato – scappa da chi vorrebbe accalappiarlo per portalo in un canile, stiamo assistendo alla violazione di un confine.
Sono limiti che si mostrano fisici, come pareti, recinzioni, delimitazioni geografiche, ma che si rivelano anche espressione materiale di un confine morale, di una separazione tra noi e loro, tra il nostro controllo e la loro libertà, tra le nostre aspettative strumentali nei loro confronti e la loro stessa esistenza. La discussione sul confine tra intenzionalità umana e animale investe necessariamente società e politica, anche qualora la nostra lettura degli episodi di resistenza animale si riducesse a un’interpretazione di carattere evolutivo. Lo si comprende bene nello studio dell’interazione umano-animale condotto attraverso le lenti degli Animal Studies e, soprattutto, dei Critical Animal Studies. Quest’ultimo è un ambito di ricerca indirizzato all’abolizione dello sfruttamento, dell’oppressione e della dominazione nei confronti degli animali, facendone emergere i tratti comuni con altre forme di oppressione, come ad esempio il razzismo, il sessismo o l’abilismo. In questo quadro diviene evidente il valore delle storie di resistenza animale, che acquisiscono un carattere di universalità, ponendo animali umani e nonumani sullo stesso piano di lotta contro i sistemi di dominio presenti nelle nostre società.
Al confine tra l’essere umani e l’essere animali e alla sua negoziazione il filosofo e antropologo Raymond Corbey ha dedicato il libro Metafisiche delle scimmie (2008). Corbey si concentra in particolar modo sulla linea che nei decenni scienziati e filosofi hanno tentato di tracciare per separare gli umani di oggi dai propri antenati e dalle scimmie antropomorfe, un limite che nella maggior parte dei casi avrebbe dovuto custodire l’unicità di Homo sapiens per poter affermare la liceità della sua supremazia sul mondo naturale e del suo controllo sugli altri animali. Quello che Corbey descrive nella sua trattazione è un confine estremamente mobile, influenzato da tabù culturali e ideologie, che la stessa conoscenza scientifica ha cercato di definire in termini classificatori, spesso tentando di trovare quell’elemento che ci separasse inequivocabilmente dagli altri: la cultura, il linguaggio, l’uso di strumenti, la struttura del nostro cervello, la definizione stessa di senzienza e intenzionalità.
Quel che emerge dalle storie di resistenza animale è la volontà di agire, di sopravvivere e di vivere meglio.
Solo col tempo scienza e filosofia sono arrivate a riconsiderare questo genere di assunzioni, costringendoci a cambiare prospettiva su quel confine, a vederlo diventare sempre più labile. Come ha ricordato la bioeticista Barbara de Mori, “scienza ed etica hanno lavorato insieme, in parte nel corso del Novecento e sempre più nei nostri giorni, per smantellare tutta una serie di pregiudizi attorno all’idea che noi abbiamo degli attributi esclusivi che ci distinguono dagli altri animali. Dopo Darwin, non parlare di noi come parte di ecosistemi in cui siamo immersi e non percepirci come animali tra gli altri animali, è sempre più difficile. Questo rende il confine, tracciato attraverso le culture, sempre più discutibile e superabile”. De Mori evidenzia anche che “dal punto di vista etico, parlare di un confine superabile significa ricordarci che, per quanto la nostra relazione con gli animali rimarrà sempre strutturalmente contraddistinta da contraddizioni, dobbiamo però portare avanti uno sforzo continuo per interrogarci sui nostri modi di relazionarci agli animali e accompagnare un progresso morale su questo”.
Nel 2012, un gruppo di scienziati esperti in neuroscienze e scienze cognitive ha sottoscritto la Dichiarazione di Cambridge sulla Coscienza, in cui si sottolineava che gli umani non sono gli unici a possedere i substrati neurologici che generano la coscienza e che questi si ritrovano anche in mammiferi e uccelli oltre che in altri animali. Il discorso è stato ampliato nell’aprile del 2024 con la Dichiarazione di New York sulla Coscienza Animale, che si concentra sul significato di coscienza fenomenica, o senzienza, domandandosi quali animali possano avere esperienze soggettive. Tra queste ci possono essere quelle sensoriali, o altre esperienze che riconducono alle sensazioni di benessere o malessere come piacere, dolore, speranza e paura. Gli studi scientifici degli ultimi anni non hanno solo rafforzato le prove a nostra disposizione riguardanti l’attribuzione della senzienza in mammiferi e uccelli, ma hanno iniziato a fornire indizi su una realistica possibilità di coscienza in animali che fino a poco tempo fa erano stati esclusi dalle nostre preoccupazioni etiche come rettili, anfibi e pesci, così come molti invertebrati quali molluschi cefalopodi, tra cui polpi e seppie, crostacei decapodi, e insetti come api e moscerini della frutta.
La Dichiarazione di Cambridge e quella di New York sono testi probabilmente lontani da chi è estraneo alla questione animale. Gli esempi di resistenza, le fughe che incuriosiscono e appassionano, le storie di animali che varcano i limiti da noi imposti, possono far sì che il processo di negoziazione del confine, nel nostro caso di intenzionalità, umano-animale sia compreso, accettato e, anzi, promosso da un maggior numero di persone? Secondo de Mori, “senz’altro è molto importante che le persone possano, attraverso esempi di comportamenti animali sempre più diffusi, capire che certi pregiudizi sono parte di un nostro modo di percepire gli altri animali e non corrispondono spesso a quel che invece la scienza stessa, in questo mondo post darwiniano, ci mostra sempre più chiaramente”.
Il dibattito sulla resistenza animale assume inevitabilmente una connotazione politica, sociale ed etica.
Nel corso dei decenni quelle capacità e quegli attributi in cui cercavamo l’unicità dell’essere umano e il sentire dolore – quella sofferenza che Jeremy Bentham, nell’Ottocento considerava la caratteristica che attribuisce a un essere il riconoscimento di uno status morale – sono state osservate in altre specie. Questo è senz’altro un messaggio di cui gli esempi di resistenza animale sono portatori: “è essenziale far comprendere a un pubblico più ampio possibile che siamo parte del mondo che ci circonda”, ricorda de Mori. “Rimane allora la nostra responsabilità di fronte agli altri animali, al modo in cui li trattiamo. Di fronte al pianeta, al modo in cui ne vogliamo preservare le risorse, non solo per la nostra sopravvivenza, ma anche perché ne siamo solo parte”.
La resistenza animale è una testimonianza di senzienza, il seme del dubbio per chi non sa ancora che, come già aveva scritto Charles Darwin nei suoi Taccuini (1836-1844), gli animali sono nostri “fratelli, compagni e schiavi”, e noi tutti siamo legati in un’unica rete. Negoziare il confine, comprendendo quanto questa delimitazione possa essere sottile, fallace e in continuo cambiamento, significa trovare soluzioni, impegnarci in percorsi di coesistenza, capire gli altri animali nella loro diversità senza che questa si trasformi in una barriera, rispettare i loro bisogni e la loro dignità. Eppure l’umanità sembra spesso immobile davanti a questa prospettiva: lo stesso Inchingolo dichiara, parlando di animali non umani ma anche di quelli umani, che “si potrebbe ristrutturare completamente la società rendendola più egualitaria, con la giusta redistribuzione delle risorse, una società in cui i rapporti di potere non siano sbilanciati”, anche nei confronti degli animali. Eppure questo non accade: “ciò che rimane sono i piccoli spazi di manovra, le parentesi, le crepe del nostro piedistallo”.
E le vacche ribelli? Sono riuscite a sfuggire al nostro controllo? Paolo Rossi, l’autore del cortometraggio, racconta che le ultime sono state soppresse intorno al 2019, ricacciate drammaticamente all’interno dei confini da noi tracciati per loro. All’uscita del film, nel 2017, la mandria aveva accusato già numerose perdite, passando dai circa 15 esemplari dell’anno prima a soli 6 individui. Sembra che la pellicola non abbia contribuito a suscitare compassione nei confronti di questi bovini nella gente del posto e nel nostro sistema legale, che ha costretto gli agenti di polizia locale ad abbatterli. Quegli animali non avevano mai attaccato nessun essere umano. L’ultimo a essere avvistato fu un toro giovane, che nella pellicola di Rossi era ancora un vitellino rossastro. Lo stesso fotografo lo ricorda nella neve, su una sterrata, quasi adulto. L’ultima immagine di un ribelle libero.