I l queer si dice in molti modi. Anzi, a volte sembra addirittura che si dica in tutti i modi. Dal catechismo alle pratiche belliche, la lente queer si adatta a ogni oggetto e contenitore, combinando l’utile, il dilettevole e il virtuoso: per esempio, pratiche di cosmesi e costume, come applicare lo smalto per unghie, risignificherebbero la mascolinità al di là delle sue versioni tossiche, assicurando tanto l’inaugurazione di nuove fette di mercato quanto lo scardinamento dei ruoli di genere. Questo esempio banale è solo una delle spie che indicano quanto la riflessione queer come analisi e critica della dominazione cis, etero, patriarcale e binaria diventi applicabile a piacere. Questa estensione massimalista del queer, secondo cui anche il marketing fa rivoluzione, ne pregiudica il potenziale emancipatorio e ne rende insignificante la capacità analitica.
In Un materialismo queer è possibile e altri scritti politici (2024), una raccolta di testi nati e apparsi nell’ultimo decennio, il filosofo Federico Zappino contrappone a questa versione “patinata e distratta” un approccio politicizzato e accompagnato da una chiara pretesa di fondazione filosofica dove i nomi di Karl Marx, Monique Wittig, Mario Mieli e Judith Butler – fra gli altri – sono protagonisti. Zappino rifiuta un discorso queer che ha abbandonato le pretese più radicali di trasformazione sociale accomodandosi sul materiale che potrebbe fornire lo spunto per una serie televisiva per famiglie. Come recita il pezzo Ballata per la mia piccola iena degli Afterhours: “L’amore rende soli, ma è ben più doloroso se per nemici e amici non sei più pericoloso”. È certo doloroso amare, desiderare, godere in un mondo dove alcuni desideri sono esclusi, resi soli, dalle norme sociali dominanti, ma è pure peggio se il desiderio offeso non è più un’offesa alla dominazione. Secondo Zappino un materialismo queer, inteso nel senso dell’eredità filosofica e politica di Karl Marx, è possibile. Cioè, esso è ancora da fare e da pensare, meno uno stato delle cose che un compito in due operazioni complementari: “Il mio proposito”, scrive Zappino, “è di rifondare una teoria queer su basi più distintamente materialiste; e se ciò presuppone di innestare il materialismo nel queer – o per meglio dire, di valorizzare le sue potenzialità materialiste –, questo può avvenire solo a patto di svincolare il materialismo dai suoi taciti presupposti eterosessuali”.
Sulla strada di questo compito si trovano due ostacoli essenziali. Il primo consiste in approcci queer che si comprendono slegati dalla dimensione sociale ed economica per operare su un piano esclusivamente culturale. Così facendo, si renderebbero complici più o meno consapevoli proprio del mantenimento dello status quo capitalistico. Il secondo ostacolo conferma e rafforza il primo come in un circolo vizioso. Consiste nella cecità della critica materialista per le lotte e le istanze queer, relegate sul piano culturale e comprese così come indifferenti alla trasformazione socioeconomica. Contro questa doppia tendenza, Zappino argomenta che le lotte queer e femministe per l’abolizione della dominazione e sottomissione di identità di genere e orientamenti sessuali non riguardano la dimensione culturale, ma quella socioeconomica. Esse partecipano perciò a pieno titolo delle lotte e delle critiche materialiste.
La cecità del materialismo anticapitalista mostra le sue debolezze, per Zappino, non solo sul piano politico, ma proprio su quello analitico. Rilevato che la nostra società vive ancora delle discriminazioni e violenze su base di genere e orientamento – come mostra il contributo sulle persone senzatetto, apparso originariamente sul Tascabile – è curioso pensare che questo tipo di violenze accada così, come per caso, sul piano culturale. “È come se le varie forme di violenza, semplicemente, accadessero” – questo assunto è, naturalmente, una sciocchezza. Presuppone l’idea curiosa che la violenza di genere fiorisca sul piano culturale, senza alcun legame con le relazioni socioeconomiche, delegando a una sorta di pregiudizio omo-transfobico naturalizzato le ragioni di questo tipo di violenze. Non solo si tratta di una visione bislacca che sorvola sull’indagine di un rapporto fra discriminazione e relazioni socioeconomiche, ma corrisponde anche a un’attitudine che pregiudica in partenza processi di collettivizzazione che mobilitino l’abolizione della violenza di genere in un programma anticapitalista.
È certo doloroso amare in un mondo dove alcuni desideri sono esclusi, resi soli, dalle norme sociali dominanti, ma è pure peggio se il desiderio offeso non è più un’offesa alla dominazione.
Zappino identifica questi due ostacoli su un piano sintomatologico: ciò di cui soffrono rispettivamente i discorsi queer e materialista nella loro discrasia. Egli avanza però di un passo ulteriore, eziologico, che riguarda le cause di questi due fenomeni. La prima causa della discrasia fra queer e materialismo sarebbe l’assenza dell’analisi e della critica del “modo di produzione eterosessuale”. Alla discussione di questo problema è dedicata la parte più corposa dello sforzo teorico di Zappino. La seconda causa, certamente presente ma relegata in secondo piano, consiste nel fatto che “il conflitto di classe è fratturato dal conflitto di genere o sessuale”.
Nel concetto di “modo di produzione eterosessuale” – nozione già chiave in Comunismo queer: Note per una sovversione dell’eterosessualità del 2019 – Zappino combina elementi del pensiero di Karl Marx con le idee di Mario Mieli e Monique Wittig. Il termine “eterosessuale” non indica qui un orientamento sessuale. Cosa vuol dire? C’è una battuta molto significativa in Angels in America. Il personaggio di Roy Cohn afferma di non essere un omosessuale – perché gli omosessuali sono individui senza potere, che lui invece possiede – bensì un “eterosessuale che si scopa i ragazzi.” L’orientamento sessuale e i modi di vita codificati e praticati in una società non sono, insomma, la stessa cosa: posso benissimo riconoscere in me un desiderio omosessuale, ma come integrarlo o nasconderlo in un mondo collettivo è un’altra faccenda, una cosa diversa, pur intrattenendo con il desiderio una relazione essenziale. Zappino sviluppa questa prospettiva, introducendo un’ulteriore dimensione concettuale spiegando di impiegare la nozione di “eterosessualità” per riferirsi a tre cose: 1) a un modo di produzione, ossia alla razionalità che presiede alla produzione degli uomini e delle donne, da cui chiaramente discende che gli uomini e le donne non esistono “essenzialmente” ma sono a loro volta il prodotto di un costante e performativo 2) rapporto sociale, fondato sulla trasfigurazione di questa produzione diseguale e gerarchica dei generi nella “differenza sessuale”, la quale assurge a sua volta a 3) metro di giudizio da cui dipende implicitamente o esplicitamente la valutazione, non meno che la possibilità, la conformità, l’inclusione condizionale, o l’esclusione radicale, di ogni forma di soggettivazione e di relazione.
Cosa indica, allora, il concetto di “modo di produzione eterosessuale”? Innanzitutto, sottolinea che l’agire umano, sia individuale sia collettivo, è organizzato socialmente, cioè è presieduto da una o diverse razionalità sociali che variano nella storia e nella geografia delle comunità umane. Anche la sessualità umana è organizzata socialmente. Le differenze e i rapporti fra generi e orientamenti non sono dunque un prodotto fisiologico, né caratteristiche essenziali della natura umana. Afferiscono piuttosto a modi organizzati ed espressi socialmente di coordinare e gestire l’attività individuale e collettiva, che includono ma non si esauriscono nelle caratteristiche fisiologiche degli individui. Anche l’agricoltura, per esempio, è un modo di organizzare l’attività che include proprietà fisiologiche, tanto delle piante quanto delle persone, ma che chiaramente non si esaurisce in esse e i cui tratti possono variare nello spazio e nel tempo. Le razionalità, i modi in cui viene organizzato l’agire implicano inoltre dei criteri di razionalità o organizzazione, cioè che determinate attività individuali o collettive vengono giudicate o valutate, escluse o incluse, promosse o sanzionate, a seconda dei criteri di razionalità riconosciuti come validi in determinate comunità umane. L’eterosessualità è un modo di organizzare l’attività umana e stabilizzarne l’organizzazione nel tempo e nello spazio.
L’orientamento sessuale e i modi di vita codificati e praticati in una società non sono la stessa cosa.
A questo punto, Zappino introduce l’idea che l’attività umana organizzata è produzione e include una dimensione economica. Questa comporta a sua volta tutti quei processi che assicurano il mantenersi in attività e il perdurare dell’attività stessa – la produzione e distribuzione di cibo, l’erogazione di servizi medico-sanitari ma anche, in una prospettiva temporalmente più ampia, la procreazione. Zappino osserva che per lungo tempo il pensiero materialista ha ignorato che l’eterosessualità è un aspetto decisivo della produzione intesa in questi termini. Questo è avvenuto e avviene istituendo la differenza sessuale come rapporto gerarchico fra generi. A un genere sono stati imposti, storicamente, compiti legati – e non retribuiti – al mantenimento ben oliato dell’attività umana stessa: la gestione domestica, l’educazione della prole, le attività di cura, eccetera. Posta la questione in questi termini, è chiaramente problematico concepire l’eterosessualità come un carattere puramente fisiologico, facendo leva per esempio nulla naturalità della riproduzione sessuata. Già solo la procreazione umana, pur avvenendo per riproduzione sessuata, non si riduce a essa, ma è banalmente già mediata dalla tecnologia e implica almeno pratiche educative e di socializzazione. In questo senso, l’eterosessualità è anche un modo di organizzazione socioeconomico.
Questi due aspetti – la razionalità sociale e la produzione – sono legati fra loro e si presuppongono a vicenda. A questo si aggiunge che nel sistema di produzione capitalistico c’è stato un nesso fondamentale fra la dominazione cis, etero, binaria e patriarcale, lo sfruttamento di determinate attività non retribuite, legate alla sottomissione di genere, e la sanzione violenta di tutti quei corpi, desideri e forme di vita che appaiono disfunzionali al sistema di produzione stesso. Il concetto di “modo di produzione eterosessuale” ci permette proprio di individuare questa alleanza scellerata ed è perciò un notevole strumento analitico. Ugualmente importante è anche la sua funzione di strumento critico. Esso ci permette per esempio di problematizzare l’idea che la differenza di genere sia una sorta di valore da preservare, mascherando la perpetuazione delle diseguaglianze gerarchiche cui dà luogo.
Tuttavia, c’è un aspetto dell’approccio di Zappino che non è del tutto convincente. L’analisi delle cause del rapporto conflittuale fra materialismo anticapitalista e lotte queer viene sviluppata in una sorta di furia fondazionalistica, cioè nella ricerca di un fondamento originario che spieghi e, per così dire, squadri da ogni lato, una volta per tutte, i rapporti fra due fenomeni storici come capitalismo ed eterosessualità. Questa mossa non è convincente su entrambi i piani che il concetto di modo di produzione eterosessuale riguarda: tanto quello analitico quanto quello critico o, per dirla più esplicitamente, politico. Secondo Zappino, il modo di produzione capitalistico è fondato sul modo di produzione eterosessuale. Scrive infatti che “il motivo per cui un approccio materialista dovrebbe rimodularsi alla luce di una teoria del modo di produzione eterosessuale risiede nel fatto che questo è storicamente e logicamente anteriore al modo di produzione capitalistico.”
Asserire che il modo di produzione eterosessuale è storicamente (che per Zappino mi sembra significare cronologicamente) anteriore al modo di produzione capitalistico è il punto più chiaro da cui partire. Certamente la cis-eteronormatività patriarcale organizza le attività umane da ben prima del capitalismo. Però è importante farsi una domanda: le razionalità sociali, nella storia, i modi di organizzare l’attività umana, rimangono uguali in tutte le loro caratteristiche o si trasformano? Probabilmente la seconda. Ma se è vero che si trasformano, allora possiamo tenere insieme tre idee senza contraddizione. La prima è che la cis-eteronormatività patriarcale è apparsa prima del sistema di trasformazione capitalistico. La seconda è che c’è stata e c’è ancora, in parte, un’alleanza strettissima fra la prima e il secondo. La terza, però, è che questa alleanza ha trasformato in modo profondo la cis-eteronormatività patriarcale – così profondo, che la subalternità di genere generata da essa ha subito dei cambiamenti decisivi.
L’eterosessualità è un modo di organizzare l’attività umana e stabilizzarne l’organizzazione nel tempo e nello spazio.
Questi cambiamenti decisivi sono visibili proprio nella società. È un errore prospettico credere che la coppia e la famiglia borghesi siano sempre state la cifra dell’eterosessualità, o che la subalternità di genere abbia sempre operato negli stessi modi e secondo gli stessi principî, e questo già solo considerando la storia della produzione capitalistica. Ci sono delle differenze enormi fra la donna domestica e la donna lavoratrice emancipata o anche imprenditrice – differenze che hanno ripercussioni non solo sul tenore di vita degli individui, ma anche sui rapporti di genere. Quindi, è vero che il modo di produzione eterosessuale appare prima del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, è vero anche che questo secondo ha trasformato in modo così profondo i tratti del primo da permetterci di dire, o almeno di esplorare l’ipotesi, che il modo di produzione eterosessuale fosse profondamente diverso prima del capitalismo. Questo non annulla l’anteriorità cronologica, ma ne mette in discussione il significato: come strumento per capire come funzionano i dispositivi di violenza di genere oggi è più significativa l’anteriorità cronologica o, piuttosto, la trasformazione storica avvenuta con l’organizzazione capitalistica della produzione?
La tesi dell’anteriorità logica è più spinosa, perché ricade sul piano dell’azione politica. Essa riguarda una delle buone intenzioni chiave del testo: rivendicare, per le lotte queer, una dimensione che non sia culturale ma materiale o socioeconomica. Cosa significa anteriorità logica? Significa che per pensare il modo di produzione capitalistico è necessario presupporre il modo di produzione eterosessuale e che, senza il modo di produzione eterosessuale, non ci sarebbe capitalismo. Questo implicherebbe una revisione non solo dell’analisi dei rapporti di fondazione fra capitalismo ed eterosessualità, ma anche dell’agenda politica tanto delle lotte queer che di quelle anticapitalistiche.
Zappino argomenta che affinché ciascun individuo sia intelligibile, riconosciuto come un attore sociale le cui azioni sono ricevibili e comprensibili e possono coordinarsi con altre azioni nel nostro mondo condiviso, è necessario che sia già codificato nei termini dell’eterosessualità. Quest’idea si appoggia in parte su un punto cronologico: prima di diventare sfruttabili, i corpi umani diventano codificati secondo il genere e la sessualizzazione. Vero, ma non dirimente, per le stesse ragioni di poco sopra: che qualcosa accada prima non implica che questo qualcosa sia più significativo, o addirittura più fondamentale, di ciò che accade dopo. Ma il punto non si esaurisce qui. Zappino osserva che, per un verso, le norme sociali vengono trasmesse, riprodotte, insegnando agli individui come comportarsi, come effettivamente essere individui. E, per l’altro, che la riproduzione di una società – attività umana organizzata – presuppone che il suo modo di produzione economica venga riprodotto, stabilizzato, assicurato, sanzionato nel senso della riproduzione sociale. In effetti, nell’eterosessualità intesa come modo di produzione convergono questi due elementi: gli individui umani vengono codificati e apprendono come codificarsi, codificazione che allo stesso tempo stabilizza e riproduce una determinata organizzazione socioeconomica.
Questa convergenza è effettivamente visibile nella famiglia, istituzione del mandante eterosessuale. Essa coordina la generazione di nuova forza lavoro – individui umani – e la loro socializzazione. È un tassello chiave dell’attività umana organizzata nel nostro mondo, tassello che dice mamma e papà e insegna a ciascun individuo a essere sessualizzato. Allo stesso tempo la famiglia è l’istituzione sociale preposta a generare nuova forza lavoro. Perciò, in un certo senso, è dove impariamo a essere individui tanto sessualizzati quanto lavoratori, e sessualizzati al fine dell’essere lavoratori – hai già il fidanzatino? cosa vuoi fare da grande?. Questo è certamente vero per il mondo in cui viviamo. Ma una verità empirica non fa una verità logica.
L’alleanza fra capitale ed eterosessualità, realizzata esemplarmente nella famiglia, è accaduta e accade. Ma un avvenimento contingente non fa una relazione concettuale necessaria, tantomeno una fondazione robusta.
L’alleanza fra capitale ed eterosessualità, realizzata esemplarmente nella famiglia, è storica, è accaduta e accade. Ma un avvenimento contingente non fa una relazione concettuale necessaria, tantomeno una fondazione robusta. Zappino questo lo sa e ci vuole mostrare, quindi, non solo che il modo di produzione eterosessuale stabilizza il capitalismo, ma anche che vi sopravvivrebbe. Dunque, se l’eterosessualità stabilizza il capitalismo ed anche è in grado di sopravvivervi, allora abbiamo buone ragioni di credere che l’eterosessualità è più fondamentale, più originaria, la base del capitalismo. Mi sembra che qui ci sia un passo falso, che finisce per scambiare un’articolazione chiave per un rapporto di fondazione.
Ragionando sui possibili: nulla vieta, cessato il modo di produzione capitalistico, che il modo di produzione eterosessuale perduri. E su questo Zappino ha in parte ragione, sia perché non si vede come collettivizzare i mezzi di produzione possa magicamente cambiare i modi in cui abbiamo imparato a sessualizzarci, sia perché, considerando l’eterosessualità nei suoi aspetti violenti, è francamente ingenuo credere che la vita umana scorrerà assolutamente priva di violenze e sopraffazione una volta che il modo di produzione capitalistico verrà soppiantato. Ma quest’ordine di ragionamenti non implica che l’eterosessualità è più fondamentale, è la base del capitalismo – ovvero che, come mi sembra sostenere Zappino, tolta l’eterosessualità si toglie anche il capitalismo. Può benissimo indicare appunto che eterosessualità e capitalismo si sono storicamente, contingentemente articolati l’una sull’altro. In effetti, nulla vieta che il capitalismo sopravvivrà benissimo allo scomparire della produzione e socializzazione eterosessuale delle lavoratrici: lo sviluppo tecnologico e culturale può slegare, e già in parte slega, la produzione di nuovi individui umani dalla famiglia eterosessuale, e inversamente possiamo benissimo avere famiglie non cis, eterosessuali e patriarcali che continuano a socializzare individui insegnando loro che dovranno lavorare per vivere.
Per questi motivi, si fa davvero fatica a vedere che “la sovversione del modo di produzione capitalistico […] necessita innanzitutto della sovversione del modo di produzione eterosessuale, ossia di ciò che al capitalismo offre le risorse soggettive, cognitive e relazionali per affermarsi storicamente e per riprodursi” (corsivo mio). Criticare questa impostazione non vuol dire: lunga vita all’eterosessualità e lunga vita alla famiglia. “Famiglie, io vi odio!” e “il mondo degli eterosessuali è una vita malata e noiosa” sono due proposizioni essenziali della sapienza gaia. Vuol dire che la proposta di sprofondare il rapporto fra capitale ed eterosessualità su una necessità concettuale e su una fondazione robusta non è imprescindibile ed è anzi problematica.
Innanzitutto, non è una proposta solida perché mi sembra che manchi di considerare l’ipotesi che il rapporto fra eterosessualità e capitalismo è un’articolazione, per quanto stretta, comunque storicamente contingente. Questa ipotesi più parsimoniosa può rivelarsi sbagliata, ma si tratta almeno di esplorarla. Inoltre, rischia di essere una proposta poco fruttuosa, perché sembra installare, al posto della contingenza storica, una rigidità che lascia poco spazio allo spazio di manovra e all’azione politica (peccando, paradossalmente, del determinismo che imputa correttamente a certo marxismo economicista).
Possiamo benissimo avere famiglie non cis, non eterosessuali né patriarcali che continuano a socializzare individui insegnando loro che dovranno lavorare per vivere.
La scarsità dello spazio di manovra è visibile, credo, proprio sul piano delle azioni politiche che Zappino ancora nel suo approccio. Una volta stabilito che l’eterosessualità – tanto quanto il capitalismo – afferisce a una dimensione sistemica e non soltanto locale dell’attività umana organizzata, è ragionevole pensare che può essere sovvertita appunto solo su un piano sistemico. Zappino stesso riconosce infatti che la strategia politica, o meglio micropolitica, delle risignificazioni e degli spostamenti del genere, delle identità e degli orientamenti non incide sul piano sistemico o di produzione. Allora non si capisce però come “sperimentare prassi istituenti che si oppongano alla razionalità eterosessuale sottesa alla produzione del genere e che smantellino i suoi apparati produttivi” , una proposta che suona piuttosto micropolitica, possa permetterci non solo di agire sistemicamente, ma anche di sovvertire la produzione capitalistica.
È sempre una domanda infelice, e un po’ cattiva, chiedere a un filosofo: ma allora cosa ci dici di fare?, e non è la domanda che vorrei porre. Mi chiedo piuttosto: siamo d’accordo che l’attività umana organizzata affinché le persone siano più libere e meno sottomesse non può essere dominata dal modo di produzione eterosessuale, ma non ci lascia ancora meno spazio d’azione agire credendo che bisogna smontare l’eterosessualità per smontare il capitalismo? È vero che “l’umanità si dà solo compiti che è in grado di risolvere”, ma sovvertire l’eterosessualità ci dà un piano d’azione più visibile, in ordine tanto cronologico che nel senso di ciò che possiamo politicamente esigere, rispetto alla sovversione del capitalismo? Con questo non voglio dire che le lotte queer non hanno niente da insegnare alle lotte anticapitalistiche, né approntare un elogio di quel marxismo, che da Marx ha imparato ben poco, che ripete instancabilmente economicismo e determinismo. Zappino scrive: “Ci siamo annoiate tutte a morte a furia di disputare sullo statuto della differenza sessuale, del genere e degli orientamenti sessuali!”, e ci siamo anche annoiate a morte delle culture wars dicotomiche – certamente non dialettiche – su diritti civili e sociali, intersezionalità e capitale e lavoro, sinistra fucsia o rosso-bruna. Allo stesso tempo, però, non credo che ciò che l’anticapitalismo deve imparare dal queer è che prima si smonta l’eterosessualità, poi si smonta il capitale. Ma cosa può imparare allora?
Innanzitutto, c’è una categoria che Zappino discute proprio nel primo contributo del volume e che rimane, purtroppo, secondaria: la categoria del bisogno. Cita proprio Judith Butler, che scrive in Fare e disfare il genere che, per un corpo, le possibilità del genere non sono un lusso, ma indispensabili come il pane. In e per quegli individui che sono umiliati, oppressi, segregati al margine dell’attività umana organizzata, sfruttati proprio in virtù della dominazione cis, eterosessuale, patriarcale e binaria, è evidente che la lotta queer non è una decorazione, è essenziale a vivere una vita decente, una vita che non sia miseria. Ma proprio la lotta contro la vita misera e deprivata, cioè la lotta per una vita che sia prosperosa e possa sviluppare il proprio potenziale, caratterizza tanto Marx quanto i movimenti e i pensieri queer.
E qui l’anticapitalismo può imparare dalle lotte queer che l’attività umana organizzata fiorisce solo quando i nostri desideri, corpi, godimenti, piaceri non sono finalizzati o frustrati a un ordine morale, economico e sociale. Il bisogno non si riferisce, cioè, alla pura sopravvivenza, ma alla vita umana che fiorisce e gode. Credo che questa idea sia presente in Marx, che però non ne mobilita esplicitamente tutte le risorse emancipatorie. Tuttavia, essa è stata certamente centrale in quella parentesi del freudo-marxismo che è stata la prima generazione della Scuola di Francoforte (per andare poi perduta negli anni successivi, tanto nell’agire comunicativo quanto nel riconoscimento o nelle forme di vita). Penso alle Tesi sul bisogno di Theodor W. Adorno, ma anche e soprattutto a Il principio speranza di Ernst Bloch, che da marxista e freudiano scrive sull’edonismo antico:
Accanto [al cinismo frugale di Diogene, G.C.] fluiva però, seducente, la dolce vita cui non manca nulla. In tal caso l’originaria età dell’oro non veniva pensata come uguale frugalità, ma piuttosto come abbondanza uguale. […] Il piacere, essa insegna, è la vera sorte umana, a distinguere l’uomo dalla bestia è il godimento per il godimento, indipendentemente dalla soddisfazione dei bisogni. […] A differenza di quelli animali, i desideri umani in ultima istanza tendono all’orgia e in essa sono pienamente conformi a natura. […] Nonostante lo sfrenato egoismo, la libertà del piacere era democratica; perché si pensò nuovamente in grande la felicità […].
La seconda lezione del queer per l’anticapitalismo è anch’essa presente nel volume di Zappino: l’idea che il sesso è una frattura. In Un materialismo queer è possibile, questa idea è accompagnata però soltanto da un purtroppo: purtroppo, l’attività umana organizzata è fratturata dal sesso come diseguaglianza di genere e potere, frattura che divide anche la classe delle lavoratrici. Per Zappino questa frattura è problematica e “da sanare”. In parte non ha torto, nel senso che l’organizzazione capitalistica, sul suo fronte della lotta di classe, funzionalizza le fratture del sesso e del godimento: la promessa di felicità nel mercato digitale del dating, la realizzazione personale nel mercato del lavoro e la frantumazione delle lotte anticapitalistiche sulle linee del genere e dell’orientamento ridotte a differenze identitarie.
Cosa significherebbe invece usare la frattura del sesso nell’altro verso? Suggerire che la vita umana che fiorisce è anche una vita umana che frattura, dissesta il sociale, che rivendica il sistema sociale come dissestabile.
Ma cosa significherebbe invece usare la frattura del sesso nell’altro verso? Operare al contrario, suggerire che la vita umana che fiorisce è anche una vita umana che frattura, dissesta il sociale, che rivendica il sistema sociale come dissestabile. Credo che l’anticapitalismo possa imparare molto dalla frattura del sesso: ad abbandonare sia le furie fondazionalistiche, sia le promesse ingenue di una vita priva di sottomissioni, una volta che abbiamo seguito il piano giusto, la formula della liberazione. Non ci sono formule della liberazione, ma fratture sulle quali possiamo collettivizzarci, nelle quali possiamo almeno far collassare, questa sarebbe la speranza, l’“interregno dell’invivibile” in cui avere il fidanzatino significa lavorare per sopravvivere. Gli individui discriminati dal modo eterosessuale di produzione hanno visto abbastanza violenza normalizzante al proprio desiderio da aver imparato che un mondo buono è un mondo in cui la frattura del sesso si fa desiderio e godimento, e non normalizzazione. Si tratta di realizzare che la proposta anticapitalistica porta con sé proprio questa lotta. Penso che questa idea sia in linea, almeno in parte, con la proposta di Zappino di una “ideologia controegemonica” – senza mettersi però alla ricerca di un’origine eterosessuale del capitalismo, ma sottolineando che è proprio dalle fratture che vengono nuove origini o “futurità”, per dirla con una parola del volume.