A ll’inizio degli anni Cinquanta, lo scrittore beat William S. Burroughs scappò a Tangeri dopo aver accidentalmente ucciso la moglie giocando a Gugliemo Tell. Al posto della mela, sul capo di Joan Vollmer un bicchiere di cristallo da cocktail; la mira perfetta con la pistola, di cui Burroughs tanto si vantava, compromessa dall’alcol, dalle anfetamine (che piacevano tanto a lei) e dall’eroina (che piaceva tanto a lui). In quegli anni marocchini, oltre a scrivere Il Pasto Nudo, girovagò per il Paese in compagnia di altre scapestrate figure come Brion Gysin – con lui coniò la teoria del cut-up –, Brian Jones dei Rolling Stones, e molti altri. Hotel di lusso, caffè letterari post coloniali, baracche di fango, ampie boccate di kif (concentrato di cannabis) dal sebsi (pipa), il moaning roar of the wind di Ghoul (il “ruggito lamentoso del vento – The Process, Brion Gysin), jinn (spirito) del deserto, e un incontro fortuito. Sembra il tempo di una fumata di hashish, ma questa storia si sviluppa nell’arco di quindici anni. Gysin arrivò per la prima volta in Marocco nel Cinquantadue; Burroughs nel Cinquantaquattro; Brian Jones solo nel Sessantasette. Ma che ci importa davvero di ricostruire l’esatta cronologia dei fatti? Stiamo parlando di un gruppo di onironauti che possedeva accumulatori di energia orgonica (vedi Wilhelm Reich), che tentava di comunicare con la telecinesi, che costruì una Dreamachine stroboscopica per replicare l’esperienza psichedelica attraverso i soli stimoli sensoriali, e che si innamorò inevitabilmente di un certo complesso di musicisti, che Burroughs definì “l’unico gruppo rock al mondo che ha quattromila anni”. Mohamed Hamri si faceva chiamare il pittore del Marocco, nacque nel villaggio di Joujouka, nella rocciosa regione del Rif, nel 1932; suo padre era un ceramista, la madre proveniva dalla dinastia Attar, suo zio non era che Bachir Attar, ovvero il leader dei Master Musicians Of Jajouka, titolo trasmesso per via ereditaria.
La musica Joujouka (o Jajouka, approfondiremo questa variazione sillabica più avanti) fa parte di una tradizione millenaria di maestri sufi – il sufismo è la dimensione mistica dell’Islam – nata e sviluppatasi proprio in quel minuscolo paese nel nord del Marocco. La leggenda racconta che più di quattromila anni fa il pastore Attar, portando al pascolo il suo gregge, si assopì in una grotta per risvegliarsi qualche ora dopo al suono della lira (flauto) del jinn mezzo capra e mezzo uomo Bou Jeloud. Lo spirito gli rivelò il segreto del suo strumento, imponendogli di non rivelarlo, e in cambio chiese una moglie tra le abitanti di Joujouka. Al caprone venne portata Aisha Kandisha: la signorina però era piuttosto vispa e voluttuosa, tanto che con le sue danze scatenate e la sua inesauribile voglia di far festa, lo esasperò al punto che Bou Jeloud esausto, abbandonò lei e il villaggio. Su Kandisha in Marocco esiste un folklore molto vasto: anche lei è una jinn, una donna bellissima con gli zoccoli di cavallo che decapita o sgozza gli uomini; una delle versioni più interessanti della leggenda è quella che racconta Kandisha come una ragazza molto bella che, durante la colonizzazione portoghese del Marocco, usava il suo fascino per sedurre i soldati invasori e ucciderli. Anche dopo la sua morte, continua a vagare come jiin spaventando gli uomini che viaggiano solitari.
La musica Joujouka fu donata al villaggio dal santo sufi Sidi Ahmed Schiech per guarire le menti disturbate.
Tornando a Joujouka, qui la narrazione, come in ogni storia tramandata per via orale, si fa caotica: teoricamente, la musica Joujouka fu donata al villaggio dal santo sufi Sidi Ahmed Schiech per guarire le menti disturbate; i maestri all’inizio la suonarono per calmare Bou Jeloud che, prima di abbandonarli, si era alquanto adirato per tutta la situazione, anche perché Attar intanto il segreto del flauto l’aveva rivelato a tutti i suoi compari. In ogni caso, nonostante i misunderstanding, il periodo di permanenza dello spirito caprone portò rigoglio e fertilità al villaggio tanto che, dopo che se ne andò, decisero di impersonarlo una volta all’anno per favorire il raccolto.
Il rito Joujouka si svolge dunque in questo modo. I Maestri soffiano nella rhaita a doppia ancia – stridula e lisergica –, battono colpi intestini sui tebel in pelle di capra, fanno vibrare la lira, cantano in coro di antiche leggende; intanto, un uomo indossa la pelle ancora tiepida di un caprone appena sgozzato – il sangue gli cola sulle tempie e sulle spalle – e balla in mezzo alla folla fustigando chiunque gli capiti a tiro con fascine d’ulivo. È una musica che veicola lo stato di trance; i balli scomposti erotti dal basso ventre, il sangue, la carne, la polvere terrosa sulla pelle sudata, la rhaita che ti porta al limite e poi ti lascia lì, come un orgasmo che non culmina mai. La trance, del resto, non è il momento che precede l’illuminazione – ripetuto all’infinito? Harry Sword ne Alla ricerca dell’oblio sonoro, un saggio sul potere del drone, scrive che la Joujouka è “un costante tormento sonoro”.
Questa musica trionfa dove la Dreamachine che i beat tentarono di costruire fallì: traghettare il corpo e la mente in uno stato di psichedelia, solo attraverso l’uso dei cinque sensi (e di un bel po’ di kif). Ma gli abitanti di Joujouka, a questa musica, oltre che il potere dionisiaco, ve ne accostano anche uno curativo. Come si accennava prima, gli fu donata per guarire le menti disturbate e, in effetti, per millenni il villaggio si prese cura di follie e sofferenze dei propri cari domandando ai Maestri di suonare per loro. E ha perfettamente senso: in questa nostra era occidentale di rinascimento psichedelico, si stanno approfondendo gli studi sulla terapia – appunto – psichedelica, poiché questo tipo di sostanze resetta le connessioni neuronali e neutralizza il senso del sé, permettendo al cervello di accedere a uno stato ancestrale e sinestetico; un’iperpercezione che dovrebbe decostruire i pattern disfunzionali.
È una musica che veicola lo stato di trance; i balli scomposti erotti dal basso ventre, il sangue, la carne, la polvere terrosa sulla pelle sudata, la rhaita che ti porta al limite e poi ti lascia lì.
Diceva Blanca Hamri, moglie statunitense del pittore Mohammed Hamri, che la rhaita “wipes the brain clean”, ripulisce il cervello, fa tabula rasa (dall’intervista dell’ottobre 2021 di Richie Troughton, ripubblicata sul sito www.joujouka.org). Sul sito parlano di una “purificazione psichica” che avviene attraverso molteplici schemi di intrecci harmolodici (termine coniato dal jazzista Ornette Coleman – tra l’altro, invitò i Maestri a partecipare alla registrazione del suo pezzo “Midnight Sunrise” – per descrivere il suo approccio musicale, che combina armonia, melodia e ritmo in un’unica struttura flessibile).
Blanca Hamri è una figura cardine nel movimento nonostante, come molte altre della beat generation (la scrittrice Diane Di Prima, la stessa Joan Vollmer…), sia stata anche lei storicamente oscurata dagli ipertrofici ego lisergici degli uomini beat. All’età di quarant’anni Blanca, stanca di una New York tutta “blonde and beards”, intraprese un lungo viaggio: Messico, Guatemala, Grecia e poi, rassegnata all’evidente inesistenza di un luogo nel mondo che la facesse sentire a casa, nel ‘72 arrivò quasi per caso a Tangeri. Lì, conobbe Mohamed Hamri che, per sedurla, la portò fino a Joujouka ad assistere a un rito. Blanca, dal Marocco, non se ne andò mai più.
Uno degli oggetti di culto per gli appassionati della cultura Joujouka è il libro Tales of Joujouka (1975, Capra Press), che raccoglie otto leggende sufi dell’omonimo paese, accostate a dipinti di M. Hamri: trovarne una copia oggi richiede la risolutezza dell’ossessione. Sulla copertina, il nome di Mohamed Hamri. Eppure, racconta Blanca, il marito – che si è occupato fino alla morte di coordinare le attività pubbliche e i rapporti con l’occidente dei Masters Of Joujouka – non sapeva né leggere né scrivere. Alla donna, la quale, in ogni caso, nell’intervista appare più sardonica che rancorosa, decenni hanno dato credito solo in qualità di traduttrice, quando in realtà – come racconta nella prefazione alla nuova edizione del Jardin Majorelle di Marrakesh e in un’intervista del 2021 – i Tales of Joujouka sono stati scritti di suo pugno.
Stavo lì seduta, sempre circondata da musicisti, bevendo tè e suonando, e loro scoppiavano a ridere. E io chiedevo [a M. Hamri]: “Perché ridono?” “Oh, è Titi, dicono che scoreggia sulle sue piante di kif per renderle più forti”. Beh, quella era la storia. Ho creato un’intera storia partendo da quella battuta.
“’Oh, Fatima è troppo affettuosa con le sue capre?” Quella è diventata una storia. Come dire, non avrei mai potuto scriverla. Cosa avrei saputo io di Fatima e delle sue capre? Capisci? Così ho scritto. Adattato. Questa è l’unica parola. Cos’altro avrei potuto scrivere? Non avrei mai potuto scrivere quelle storie senza di lui. E lui non avrebbe mai potuto scriverle senza di me.
“Oh Brian Jones, Joujouka Very Stoned” cantava un gruppo di Maestri seduto in cerchio negli anni Settanta, canzone che gli dedicarono dopo che, innamorato della loro musica, il chitarrista dei Rolling Stones registrò quaranta minuti di performance, per poi mixarla in uno studio a Londra aggiungendo, come racconta Henry Sword in Alla ricerca dell’oblio sonoro, “eco a nastro e un effetto primitivo di phasing stereofonico: una forma primitiva di dub che aggiungeva un tocco psicoattivo a musica già di per sé profondamente psichedelica. […] di tanto in tanto si sente il chiasso della folla – grida e applausi, colpi di tosse catarrosi da polmoni incrostati d’hascisc – che aggiunge ulteriore grezzo dinamismo”.
Una volta pubblicato da Rolling Stones Records nel ‘71, The Pipes of Pan at Joujouka catalizzò l’attenzione dell’Occidente verso questo gruppo di misticisti strafatti; e fu proprio la richiesta di organizzare un tour fuori dal Marocco che portò alla rancorosa scissione in due fazioni. Tralasciando i conflitti di successione (leader ereditario o leader eletto democraticamente) si diramò quindi il gruppo dei Masters of Jajouka, più commerciabile e aperto verso l’esterno, che seguì la tournèe dell’album Steel Wheels dei Rolling Stones, registrò in studi professionali, e tutt’ora viaggia per il mondo, ospite di festival di grande calibro; mentre i Master Of Joujouka rimasero ancorati alla tradizione, prediligendo la ritualità alla performatività, e occupandosi di organizzare al villaggio il festival annuale.
C’è anche da considerare, però, che il festival, per quanto paia suggestivo e ben organizzato (nell’esoso biglietto, riservato a sole cinquanta persone all’anno, sono compresi il vitto, l’alloggio, un passaggio in autobus dalla stazione e tre giorni di musica quasi ininterrotta) pare abbia preso col tempo un piglio più commerciale o, per lo meno, più veicolato dall’intrattenimento che da necessità rituali più profonde; tanto che per il 2025, considerata la moltitudine di richieste di partecipazione, i Masters of Joujouka hanno deciso di organizzare due edizioni: la prima dal 23 al 25 maggio, la seconda dal 30 maggio al primo giugno; è tutto limpidamente spiegato sul folkloristico sito web, che vanta uno storytelling degno della Scuola Holden.
Una volta pubblicato da Rolling Stones Records nel ‘71, The Pipes of Pan at Joujouka catalizzò l’attenzione dell’Occidente verso questo gruppo di misticisti strafatti.
The Pipes of Pan at Joujouka è una lampante rappresentazione di cosa succede a una sottocultura quando raggiunge un pubblico più ampio: sebbene Brian Jones avesse l’onorevole intento di condividere la bellezza di una tradizione millenaria, uno degli effetti a lungo termine è stato quello di capitalizzarla, forse depotenziandone la carica spirituale. Eppure, è la cultura che ci eleva, ribalta le gerarchie ed è primo motore (im)mobile della libertà. Cosa ne sarebbe ora, della musica Joujouka – o del rock’n’roll degli Stones, o ancora del punk dei Crass, dell’hip-hop dei Sangue Misto, e dei libri di Burroughs e di Welsh – se fosse rimasta un segreto complice; e che cosa ne sarebbe ora di noi?