L a filosofa bell hooks affermava che teoria e pratica, intesa come processo di autoguarigione e liberazione collettiva, devono nutrirsi a vicenda. Questa riflessione trova una risonanza particolare nelle pagine di Femminismo terrone. Per un’alleanza dei margini di Claudia Fauzia e Valentina Amenta (Edizioni Tlon, 2024). Nel libro, le autrici intrecciando il loro attivismo all’interno dell’associazione La Malafimmina con il progetto di dottorato di Amenta, giungendo a una prospettiva femminista decoloniale sul Meridione che sfida e sovverte il dualismo tra teoria e azione.
Amenta e Fauzia partono dalle proprie esperienze personali per decostruire l’universalità presunta del movimento femminista italiano, proponendo una visione che tiene conto delle discriminazioni sistematiche verso le persone del Mezzogiorno. Le autrici si sono spesso sentite dire che “dev’essere dura essere una donna, e per di più queer, in Sicilia”. Il loro libro cerca proprio di ribaltare tali rappresentazioni vittimistiche delle comunità marginalizzate che vivono o sono originarie del Sud. In contrasto alla storica esclusione geografica e simbolica del Meridione nelle lotte femministe nazionali, Amenta e Fauzia rivendicano il Sud come soggetto politico attivo e luogo di produzione epistemologica, da cui ripensare il concetto di intersezionalità. Al centro della loro proposta teorica c’è il femminismo terrone, un approccio che intreccia le teorie queer e gli studi di genere con una visione decoloniale e transazionale della questione meridionale, riconoscendo il Meridione come crocevia di storie di oppressione e resistenza.
La scelta di accostare il termine terrone a femminismo è già di per sé un manifesto politico. Implica un processo di riappropriazione e risignificazione dell’insulto indirizzato alle persone meridionali, depotenziandone la carica negativa. Inoltre, ripercorrendo le origini del termine, è possibile identificare i caratteri fondativi della prospettiva teorica e politica. Terroni erano i lavoratori meridionali, prevalentemente contadini, che si trasferirono al Nord per lavorare nelle fabbriche come operai non specializzati nel secondo dopoguerra. Terroni sono ancora oggi i meridionali che migrano, ma anche quelli che decidono di rimanere nella propria regione. La proposta teorica di Amenta e Fauzia si rifà a questo spicchio di storia italiana per mettere a fuoco due tematiche fondamentali: la “diaspora meridionale” e la questione di classe. Parlare di femminismo terrone implica entrare nel merito di questioni di potere, ma anche diseguaglianze economiche e materiali. Vuol dire non pensare al Sud come un territorio omogeneo, ma riconoscere le differenze di classe che lo caratterizzano.
Per Fauzia e Amenta, il Meridione è piuttosto un punto di partenza critico verso il sistema moderno capitalista ed eurocentrico. In questo, si richiama il pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano, che già nel 1996 invitava a superare la visione del Sud come “non-ancora Nord”, in perenne ritardo verso la modernità. Cassano, come le autrici, propone di ribaltare questa dicotomia, rivendicando un ruolo centrale del Sud nella messa in discussione dell’impalco discorsivo della modernità eurocentrica.
Contro la storica esclusione geografica e simbolica del Meridione nelle lotte femministe nazionali, Amenta e Fauzia rivendicano il Sud come soggetto politico attivo e luogo di produzione epistemologica.
Amenta e Fauzia identificano le radici dell’“invenzione del Sud” nello sguardo orientalizzante delle élite nord-europee nei confronti dell’area mediterranea che subentra alla fine del Settecento con il Grand Tour. I viaggiatori del tempo descrivono il Sud come un “paradiso abitato da diavoli”, un luogo di arretratezza culturale rispetto al Nord Europa illuminista. Con l’unificazione d’Italia, il neonato governo cerca di discostarsi da questa narrazione, attribuendo le caratteristiche negative al Meridione – l’Altro interno, barbaro e primitivo. Come illustrano Giuliani e Lombardi-Diop (2013), si assiste a un processo di addomesticamento coloniale del Sud allo scopo di ammettere lo Stato-nazione italiano nella cornice discorsiva dell’Occidente progredito e moderno. Così, spiegano le autrici di Femminismo terrone, nasce la questione meridionale: “Il Meridione è un Altro da rendere simile al Sé egemonico della nazione, quello bianco e settentrionale”.
Amenta e Fauzia prendono in prestito gli strumenti offerti dalle teorie postcoloniali e decoloniali per adeguarli al contesto specifico delle dinamiche interne italiane. Quando Edward Said nel 1978 parlava di “orientalismo”, si riferiva alle rappresentazioni stereotipate dell’Oriente prodotte dall’Occidente, rappresentazioni che non solo alimentano una visione alterizzata del resto del mondo, ma servono anche a giustificare il dominio materiale e culturale dell’Occidente. Questo concetto è stato successivamente ripreso da diversi studiosi per analizzare i rapporti di potere interni all’Italia, e in particolare la dicotomia tra Nord e Sud. Cazzato (2009), ad esempio, evidenzia come la stessa logica orientalista utilizzata per l’Africa sia stata applicata anche al Meridione, mentre Faeta (2003) esamina la costruzione di un “archivio orientalista” del Meridione attraverso le arti visive, come la fotografia e il cinema. Allo stesso modo, Amenta e Fauzia introducono il concetto di North gaze, ispirato al male gaze di Laura Mulvey (1975). Se Mulvey parlava dello sguardo maschile nel cinema come strumento di oggettificazione delle donne, Amenta e Fauzia adattano questo concetto in chiave postcoloniale per descrivere lo sguardo esotizzante e inferiorizzante del Nord nei confronti del Sud, costruendolo come l’Altro primitivo, barbarico e arretrato.
L’uso delle teorie decoloniali e postcoloniali nel contesto italiano rischia spesso di incorrere in una sorta di riappropriazione, che ignora il ruolo del Sud Italia come parte integrante del sistema di dominazione europea, sia materiale che simbolica. Tuttavia, Fauzia e Amenta evitano con attenzione questa trappola. Le autrici tracciano con precisione le origini dei termini e si mostrano consapevoli dell’ambivalenza della posizione del Mezzogiorno, periferia dell’Occidente colonizzatore. Piuttosto che uniformare le dinamiche di oppressione, il loro progetto mira ad ampliare l’intersezionalità dei movimenti femministi e ricondurre il progetto meridionalista all’interno di un quadro di alleanza tra i margini. L’adesione alla lotta decoloniale va intesa come riconoscimento del valore della pluralità delle identità, senza cadere in una chiusura identitaria dei movimenti politici.
A dimostrazione della “pluriversalità”, le autrici propongono una rilettura della storia delle resistenze, dando vita a una “contro-memoria terrona” che valorizza il contributo delle comunità marginalizzate nelle lotte meridionaliste e femministe. Un esempio emblematico è la figura di Maria Occhipinti, attivista anarco-marxista centrale nei moti antimilitaristi e antimonarchici del 1944-1945 a Ragusa, che Amenta analizza nel suo saggio del 2023. A questa si affianca Rosa Balistreri, la cui musica in siciliano si trasforma in un grido di protesta contro il disinteresse delle istituzioni verso la Sicilia, dando voce a chi è stato per troppo tempo silenziato:
Terra ca nun senti ca nun voi capiri
ca nun dici nenti vidennumi muriri.
Terra ca nun teni
cu voli partiri e nenti cci duni
pi falli turnari.
[Terra che non senti che non vuoi capire
che non dici niente vedendomi morire.
Terra che non tieni
chi vuole partire e che non dai niente
per farli tornare.]
Dalle voci dissidenti del passato, Fauzia e Amenta approdano alle espressioni contemporanee di resistenza, soffermandosi sulle poesie di Giovanna Cristina Vivinetto. Nella sua scrittura, il processo di affermazione di genere si intreccia con i luoghi e le memorie della sua Sicilia. Amenta (2024) ha già dedicato all’autrice un saggio accademico dove, a partire dalle raccolte di poesie Dolore minimo (2018) e Dove non siamo stati (2020), ha sviluppato la proposta teorica di meridionalismo queer. Questo concetto amplia la prospettiva decoloniale sul Meridione, introducendo la queerness come uno spazio di non-aderenza alle rigide dicotomie della modernità eurocentrica.
L’adesione alla lotta decoloniale va intesa come riconoscimento del valore della pluralità delle identità, senza cadere in una chiusura identitaria dei movimenti politici.
In Femminismo terrone, le autrici ripropongono questo lavoro di ricerca in una forma più accessibile, portandolo al di fuori dei confini dell’università. Le parole di Vivinetto diventano uno strumento per connettere le storie di resistenza dimenticate con le voci “storte” del presente, che non si conformano alla narrativa dominante del Sud, ma la sfidano:
I luoghi esistevano perché c’erano le storie
e le storie avevano il volto dei vicini
di casa – battevano le dita dietro ai vetri
delle porte, erano le voci che si alzavano
dalle pareti, i misteri a contenersi dentro gli occhi.
Si esisteva perché qualcuno raccontava
Sempre – ai bambini seduti sugli usci,
agli anziani sprofondati sulle sdraio – e raccontava
come a dire piano che dove non siamo stati,
nel tempo precedente e seguente – che si attorciglia,
noi eravamo nelle storie degli altri. Eravamo
la voce raccolta intorno a un lume, la meraviglia
di saperci nel tempo – di non essere morti.
Abbiamo capito di non essere mai esistiti quando
queste storie hanno smesso di raccontarle.
L’enfasi posta da Fauzia e Amenta sulle figure di r-esistenza sfida apertamente lo stereotipo della “Donna Meridionale” – in bilico tra matriarca e prigioniera di tradizioni arcaiche. Il loro lavoro richiama il concetto di Third World Woman teorizzato dalla sociologa Chandra Talpade Mohanty (1991), che denuncia la tendenza occidentale a rappresentare le donne del Sud Globale come una categoria monolitica: vittime, ignoranti e tradizionaliste. Nel contesto italiano, la figura della “Donna Meridionale” si inserisce in un archivio discorsivo orientalista interno, che dipinge il Sud come uno spazio arcaico ed esotico, distante dalla modernità. La costruzione di una “contro-memoria terrona” permette quindi di mettere in discussione questa narrativa essenzialistica e limitante, portando alla luce il contributo delle persone marginalizzate nella lotta contro la mafia, il patriarcato e l’antimeridionalismo.
In Femminismo terrone, l’attivismo dal basso delle “froce, terrone e mala fimmine” si intreccia con le riflessioni accademiche per restituire al lettore una visione intersezionale e dinamica del Meridione. Fauzia e Amenta danno voce a chi è rimasto ai margini del movimento femminista mainstream e ribadiscono il potenziale politico delle periferie. Con il loro sguardo, mettono in luce la resistenza femminista terrona per rivendicare la centralità del Sud nella costruzione di un nuovo orizzonte politico e culturale.