U n corridoio stretto attraversato da una luce smorta. Una grande porta a vetri da cui si intravede la sagoma spettrale di una donna in piedi con il corpo irrigidito dalla paura e il cuore che si ferma. Come in un incubo o nella materializzazione indistinta in dormiveglia di uno di quei racconti dell’orrore che si leggono in infanzia, a un certo punto, quello stesso corpo evapora e si fa materia fragilissima: i corpi si scompongono, scomparendo, ma si sentono comunque dei rumori, delle urla, parole sovrapposte l’una sull’altra, una frazione di tempo interminabile.
Tutto si immobilizza in Familia di Francesco Costabile e quell’ennesimo orrore cui assistono – o meglio di cui avvertono i “rumori” – due bambini che non osano avvicinarsi a quella porta, ecco, quell’orrore diventa il passaggio di una soglia da non superare, quando è ancora l’infanzia a fare da scudo rispetto alle cose del mondo.
Uno dei bambini che alla fine avevano varcato quel limite era Luigi Celeste. Luigi Celeste ha scontato nove anni di detenzione per aver sparato a suo padre in una notte di quasi quindici anni fa, all’indomani dell’ennesima aggressione ai danni di sua madre e suo fratello. Il secondo film di Francesco Costabile – presentato in concorso alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti – parte da qui, dalle vite spezzate di Luigi e della sua famiglia, dalla sua radicalizzazione in un gruppo di estrema destra e dal confronto con una figura paterna recidiva. È un film che non solo documenta lucidamente una porzione di realtà ma riesce anche a trasfigurarne la violenza e i tumulti in una dimensione sospesa; che è quella del sogno-incubo che vivevano da piccoli Luigi e suo fratello e che avrebbe, poi, preso la forma della catena di dolore e sopraffazione spezzata da Luigi con l’omicidio. Costabile cambia la collocazione del racconto, da Napoli a Roma, fa parlare un dialetto diverso da quello di Celeste ai suoi personaggi, si insinua nei passaggi più taciuti della vita di una persona che ha subito e perpetrato a sua volta violenza, portandoci a riflettere sul comune denominatore della stessa e sulle modalità di ridefinizione del tema da parte della sfera visuale.
Se il cinema è uno spazio importante di produzione e circolazione di messaggi, immagini, e raffigurazioni, mai come nel caso delle storie di abusi – nel caso di Familia si tratta di violenza di genere – e maltrattamenti l’audiovisivo è fondamentale per testimoniare e capovolgere idee cruciali sulle identità e su paradigmi etico-comportamentali. E c’è un certo tipo di cinema contemporaneo che impone a chi guarda di confrontarsi non solo con le immagini ma anche (e soprattutto) con i significati che veicolano, tanto più quando l’ambiguità di certe storie è tale da impedirne un’elaborazione radicata e lucida. Gli esempi sono molti e le tematiche che affiorano svariate, ma spesso riconducibili a spaccati sociali in cui la vittima è una donna o un soggetto subalterno, o non classificabile all’interno di un sistema binario.
Il secondo film di Francesco Costabile parte da qui, dalle vite spezzate di Luigi e della sua famiglia, dalla sua radicalizzazione in un gruppo di estrema destra e dal confronto con una figura paterna recidiva.
Riportare sul grande schermo le complessità di questo sistema provando a metterne in crisi il racconto “ufficiale” è ciò a cui ambisce, ad esempio, l’opera di Radu Jude, quando con Sesso sfrenato e follie porno (2021) raccontava le sottigliezze del rapporto tra privato e professionale. Nel film di Jude l’ironia sfrenata della narrazione lasciava trapelare il bisogno di posizionarsi politicamente in un contesto tirannico e oppressivo dove poco spazio è concesso ad autonomia e libertà decisionale. Con la medesima ambizione di denuncia, ma con un rigore stilistico a cui molto deve la forma del cinema di Costabile, ha operato Cristian Mungiu con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) in cui il tramonto del regime di Ceaucescu è lo sfondo – paradossalmente – ideale per raccontare cosa significava praticare un’interruzione volontaria di gravidanza per una giovane donna. C’è poi tutta la tradizione del cinema argentino: tra le cinematografie sudamericane ed europee più valide quando si tratta del rapporto tra la politica e le immagini. È il caso, senza scomodare una tradizione già ormai nota, di un “piccolo” film passato alla Semaine de la Critique dello scorso Festival di Cannes, Simon de la montana di Federico Luis (giovane cineasta e allievo di un gigante del cinema argentino, Matias Pinero) dove l’autore è stato spinto dalla necessità di trovare uno sguardo altro e cangiante, e comunque realistico, sulle narrazioni canoniche della disabilità.
Potremmo andare all’infinito ma fermandoci un attimo sembra che a ricorrere ci siano due caratteristiche: questioni rilevanti da un punto di vista socioculturale e il diverso linguaggio e i nuovi codici con cui si sceglie di trasmetterle al pubblico. Familia s’inserisce perfettamente nella suddetta tendenza cinematografia perché Costabile concede all’elaborazione della violenza domestica uno spazio narrativo ampio, che tiene conto della complessità del tema per restituirne tutto lo spettro. Chi è stato vittima di violenza domestica è consapevole di quanto sia intricato riportare agli altri il ventaglio di emozioni conflittuali provate in determinati momenti: quando si deve far finta di non vedere, o tapparsi le orecchie durante i “rumori” come nel caso di Luigi e suo fratello; quando per evitare di spezzare il finto equilibrio venuto a crearsi nel tempo si comincia a mentire anche ai più o cari o a chi potrebbe intervenire per aiutare; quando si teme perfino di pranzare o cenare con i propri cari, per timore che a un certo punto possa rompersi tutto. Non per caso sono proprio questi spaccati che Costabile è attento a adattare, rispettandone tutto il portato di verità – anche la verità più scandalosa e angosciante.
È come se ci fosse sempre qualcosa sempre sul punto di esplodere in Familia. Come se la sensazione di timore perenne dei fratelli Celeste (Francesco Gheghi e Marco Cicalese) fosse che a un certo punto il padre – una volta riavvicinatosi al nucleo familiare – ritornasse a essere quel “pater familias” che molti anni prima la madre (Barbara Ronchi) aveva deciso di allontanare dopo una vita di umiliazioni e vessazioni. I due (ormai) adulti sono sicuri che il padre ricomincerà a sottometterla non solo da un punto di vista fisico, ma soprattutto psicologico, morale. Che si sarà costretti a ritornare in quella spirale di violenza buia e incontrastabile, definita chiaramente dal corridoio e dalla porta a vetri da cui s’intravedeva ogni volta la sagoma della madre piegata dalle botte.
I codici del cinema horror servono a Costabile proprio per rendere più chiare e manifeste le dinamiche intrinseche della violenza di genere e domestica.
Gli stilemi con cui il regista mette in scena questa sensazione non potevano che essere quelli del cinema horror: Costabile adotta e rielabora un ibrido estetico-stilistico tra l’orrore più classico alla Robert Wise, in cui perfino le pareti cominciano a sospirare, e quello più contemporaneo senza volto e senza corpo vicino a Unsane di Steven Soderbergh, o L’uomo invisibile di Leigh Whannel. In una scena del film Barbara Ronchi è vestita del medesimo bianco funereo del fantasma femminile di Gli invasati (1963) di Wise, e porta il suo stesso sguardo scavato negli occhi persi, e in altre sequenze sembra che ci sia sempre qualcosa a rincorrerla; si volta, si guarda le spalle, cammina a passo spedito finché a un certo punto, dal finestrino di un autobus, non incrocia il volto di suo marito. L’orrore è “intangibile” ma la paura la si costruisce con l’immagine: con un campo totale Costabile circonda il corpo dell’uomo che emerge dalla folla di persone come una vera e propria presenza demoniaca, lo sguardo rivolto solo verso di lei, fisso, immobile. A quel punto la paura non è più solo per la propria vita ma anche per quella dei figli, che quell’orrore non avrebbero mai più dovuto incontrarlo. Ed ecco che ritorna Soderbergh nel racconto della presenza indefinibile e non collocabile che ossessionava la protagonista di Unsane: questa presenza esiste sia in Soderbergh che in Familia, come contrazione o messa a metafora della violenza di genere tout court e delle pratiche di invisibilizzazione cui è sottoposta.
I codici del cinema horror servono a Costabile proprio per rendere più chiare e manifeste le dinamiche intrinseche della violenza di genere e domestica, dall’impossibilità di ricondurre tutto a un quadro semplice alla cecità istituzionale rispetto a fatti di cronaca che continuano a popolare media e televisione. Nelle sue contorsioni e re-immaginazioni il cinema, così come la scrittura per Luigi Celeste che dalla sua storia ha tratto un libro, restano l’unico strumento possibile con cui razionalizzare o riportare adeguatamente agli altri l’esperienza della violenza e del dolore, che Costabile ha messo in primo piano senza filtri e in maniera cristallina. L’esperienza del dolore sulla pelle della madre e dei fratelli Celeste, con tutte le conseguenze che ha provocato sul corpo e sulla persona nel corso del tempo. Guardando il padre che umiliava sua madre e lei che annegava nella propria depressione, annullando ogni desiderio di sé stessa e degli altri, il corpo di Luigi Celeste ha appreso qualcosa. Ha cicatrizzato e registrato. Il corpo immobilizzato dai rumori delle botte e il corpo a sua volta tumefatto dalle botte dei fascisti con cui si era radicalizzato. Il corpo fragile e consumato e difficilissimo da amare perché non era mai esistito amore nella sua vita. Il corpo che alla fine decide di agire pugnalando suo padre e la sua stessa vita.
Rispetto al cinema italiano degli ultimi anni Familia di Francesco Costabile è qualcosa di straordinario. Se gran parte dell’audiovisivo non considera le storie di violenza per l’ambiguità che le sottende, o se quando le adotta lo fa con prospettive superficiali e riduttive, Familia ci ricorda che il cinema dovrebbe essere un’esperienza di visione senza compromessi: il film non contempla la rappresentazione di un unico punto di vista, ma restituisce la duplicità e contraddittorietà delle vite interrotte che racconta. Costabile ci dice che la violenza non conosce uno schema esistenziale – e poi narrativo – unico ma segue più diramazioni. Che le vittime di violenza e abusi non riconoscono così facilmente l’abusante e diventano consapevoli solo dopo anni, forse anche decadi, come accade alla madre dei fratelli Celeste annichilita moralmente e fisicamente. E più volte animata dal desiderio di ricongiungersi con il suo carnefice. Ma è anche ciò che accade a Luigi stesso, che quella violenza vissuta in casa la replica una volta cresciuto nei collettivi fascisti. Esasperando la propria rabbia e il proprio dolore verso il passato e alle sue ferite ancora vive e brucianti.