S econdo il rapporto Istat del 2023, in Italia circa un quarto della popolazione totale ha più di 65 anni, percentuale che porta il Paese a essere la prima nazione in Europa e la seconda nel mondo dopo il Giappone per numero di anziani. Tale condizione accomuna però diversi altri luoghi del Vecchio Continente, che, secondo le previsioni, nel 2060 sarà abitato dal 13,6% di individui giovani con meno di 15 anni d’età, dal 17,8% di anziani tra i 65 e i 79 anni e dal 12,5% di persone con più di 80 anni d’età. Se riportiamo lo sguardo in Oriente, la Corea del Sud si avvia a diventare un Paese super anziano dove le persone di 65 anni e oltre raggiungeranno il 20% entro il 2025 e il 44% entro il 2050.
Eppure, in questi luoghi abitati da vecchi, si fa guerra all’età che avanza. È proprio della Corea del Sud la moda della skin care che prevede l’applicazione di ben dieci prodotti al fine di avere una pelle levigata e luminosa, ma le sole creme sembrano qualcosa di oramai superato. Oggi per contrastare l’invecchiamento si fa affidamento alla geroscienza – una nuova branca scientifica che promette di allungare la vita sana e ridurre il periodo della vita caratterizzato dalla malattia e dalla disabilità – e alla medicina della longevità, come quella a cui fa riferimento la Fondazione Aeon al fine di estendere la vita umana e migliorarne la qualità. Si legge sul sito della fondazione a guida italiana che agire sulla qualità dell’invecchiamento, riducendo contemporaneamente le morbilità e promuovendo un aumento di un anno dell’aspettativa di vita avrebbe un impatto economico positivo sulla popolazione statunitense pari a 38 triliardi di dollari. Questo perché un individuo sano fa scelte più orientate al consumo, alla gestione attiva del tempo libero e ha maggiore forza per lavorare.
È sufficiente questa affermazione per capire come in una società capitalistica l’esigenza di rimanere in forze non è fine a sé stessa ma è intrinsecamente legata a un sistema economico che si vuole in continua crescita e che vede nel corpo vecchio un limite in quanto impossibilitato a produrre come uno giovane.
In una società capitalistica l’esigenza di rimanere in forze non è fine a sé stessa ma è intrinsecamente legata a un sistema economico che vede nel corpo vecchio un limite in quanto impossibilitato a produrre come uno giovane.
È interessante notare come gli studi sulla longevity e le raccomandazioni sulle condotte di vita – siano esse routine cosmetiche, diete, attività fisiche, limitazione dei cosiddetti vizi – restituiscano al singolo individuo la responsabilità di rimanere in forma nonostante l’età, approccio che esclude di proposito l’implicazione ambientale, economica e sociale. Guardiamo però i dati: in base a stime dell’Agenzia europea dell’ambiente, nel 2020 almeno 238.000 persone sono morte prematuramente nell’UE a causa dell’esposizione all’inquinamento da polveri sottili; secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, circa il 24% di tutte le malattie nel mondo è dovuto all’esposizione a fattori ambientali; una risposta immunitaria meno efficace a fronte di un aumentato livello di infiammazione colpisce le persone che vivono uno stato di solitudine.
Solitudine e vecchiaia viaggiano spesso su binari paralleli, come viene descritto nei racconti di Jane Campbell, tutti abitati da donne oramai anziane animate da un desiderio che non vuole morire. In Fantasmi del lockdown (Edizioni di Atlantide, 2023) la scrittrice – che ha pubblicato la sua prima opera narrativa a ottanta anni – sferza un’acuta critica alla società contemporanea occidentale che affida all’intelligenza artificiale il compito di garantire una compagnia agli anziani rinchiusi in casa. Nel racconto, che si apre alla settimana 193 del “Lungo Lockdown” – periodo che non termina con un Dpcm, ma con la morte –, la protagonista riceve la visita di un fantasma proposto dall’algoritmo in base ai propri ricordi per soddisfare la voglia di affetto e sensualità. Questo è un servizio riservato agli ultra settantenni: “Una volta compiuti i settant’anni, purché tu viva da solo, vai semplicemente sul sito web governativo Fantasma e clicchi l’opzione pelleapelle, scarichi l’applicazione, acconsenti all’accesso alla memoria, scegli il tuo giorno e aspetti”. Per i settuagenari è previsto anche l’esproprio obbligatorio delle proprietà personali destinate a giovani famiglie e per chi non ha figli o compagni con cui vivere è offerto un appartamento in comprensori che garantiscono la distanza sociale. Chi si ribella a questa sorta di confino ha due alternative: “uscire per le strade intorno ai nostri comprensori dove dicono che si annidino i microbi” per poi morire, essere raccolti e “depositati nell’inceneritore che brucia giorno e notte”, oppure usufruire del KitPal con “quantità appropriate di morfina e tranquillante e noi dobbiamo semplicemente inghiottirli, preferibilmente con un bicchiere colmo di gin liscio”.
Pratiche che fanno dell’esistenza dei vecchi l’idea di nuda vita, cioè, nelle parole di Giorgio Agamben, quella “vita che non è né propriamente animale né veramente umana, ma in cui si attua ogni volta la decisione fra l’umano e il non umano”. Di queste vite si legge anche nel racconto di fantascienza di Richard Matheson intitolato L’esame (Einaudi, 1973). In questo caso il protagonista è Tom, un ottantenne statunitense convocato dal governo per sostenere il suo quarto esame al fine di attestare lo stato di buona salute fisica e mentale che, se non raggiunto, determina un’iniezione mortale. Nel racconto di Matheson si fa palese come le persone anziane classificate “improduttive” siano considerate sacrificabili sia dalla società sia dalle famiglie: Termini medici, pensò, grafici sulla scarsità dei raccolti, sull’abbassamento del tenore di vita, statistiche sulla denutrizione e sulla salute pubblica – erano ricorsi a tutti quei begli argomenti per far passare la legge. Ebbene, erano menzogne – trasparenti menzogne, prive di fondamento. La legge era passata perché la gente non voleva pesi morti in famiglia, perché tutti volevano vivere la loro vita.
Come spiega Susan Sontag nel suo saggio “Invecchiare: due pesi e due misure” (contenuto in Sulle donne, Einaudi, 2024), una valutazione del ciclo della vita a vantaggio dei giovani è un servizio reso agli interessi di una società i cui valori sono la produttività industriale in continua crescita e in cui l’avanzamento dell’età rappresenta un malessere morale, una patologia sociale. A differenza delle società non industrializzate, dove il numero degli anni vissuti non riscuote molta importanza, in quelle economicamente sviluppate il tempo che passa è un’ossessione, tanto da innescare un vero e proprio paradosso: laddove l’esistenza dura sempre più a lungo, la non giovinezza è assimilabile a qualcosa di nefasto.
Gli studi sulla longevity e le raccomandazioni sulle condotte di vita restituiscono al singolo individuo la responsabilità di rimanere in forma nonostante l’età, approccio che esclude di proposito l’implicazione ambientale, economica e sociale.
Campbell e Matheson descrivono molto bene l’espulsione dalla vita destinata ai vecchi, un passaggio su cui si interroga anche Loredana Lipperini nel suo Non è un paese per vecchie (Feltrinelli, 2010), dove si legge: “in anni ossessivi come i nostri si passa dalla giovinezza alla morte quasi di colpo, e la vecchiaia diventa una piccolissima zona prima della sparizione. Ma in quella piccolissima zona, che può durare anni, si scompare anzitempo”. Solitamente, l’entrata in questa eterna fase finale avviene prima per le donne rispetto agli uomini: sebbene la moda “empowering” presenti l’anzianità come una seconda giovinezza, lo sguardo femminile è costantemente bersagliate da “immagini che confermano come [in realtà] sia irraggiungibile quella seconda età dell’oro anche a costo di piallare, drenare, livellare, idratare, nutrire. Tagliare, quando serve”, una contraddizione che fa sì che siano le donne a vivere l’invecchiamento – considerato come tutto quel periodo che precede l’effettiva vecchiaia – con disgusto, se non con vergogna.
Il precoce accesso all’anzianità è spesso direttamente proporzionale all’inizio dell’età adulta, stadio che in alcuni casi avviene già durante l’infanzia. Alle bambine, infatti, si insegna ad attribuire un’importanza eccessiva all’aspetto fisico, si trasmette l’abitudine a guardarsi allo specchio molto più spesso rispetto agli uomini e a considerarsi oggetti fisicamente attraenti tanto da diventare soggetti sessualizzati fin da giovanissime. L’interesse patologico attribuito all’estetica si traduce poi in orrore per l’invecchiamento del corpo femminile, che si vorrebbe invece cristallizzato in una fase florida. È la stessa Sontag a sottolineare come in una società che limita la libertà delle donne di immaginare sé stesse, l’invecchiamento più che un’eventualità biologica è un giudizio sociale, e, in quanto tale, può anche non essere innescato da nessun evento reale, come la menopausa, periodo carico di tabù spesso associato a una sensazione di grave perdita.
L’adesione simbolica ai valori della giovinezza è quello che viene messo in scena anche nell’ultima pellicola di Coralie Fargeat, The Substance, dove l’avversione verso il corpo che invecchia è spinta fino al parossismo dell’odio verso sé stesse. Nel film è messo, infatti, in scena lo sdoppiamento della protagonista che, con il compimento del cinquantesimo anno d’età, raggiunge quello che la società e il mondo del lavoro – in questo caso l’industria televisiva – considerano essere il limite massimo prima di un inevitabile e progressivo degrado psico-fisico. Conscia del fatto che il mondo della televisione non può perdonare la perdita della floridezza, Elisabeth decide di assumere un misterioso farmaco che le fa “partorire” una nuova sé giovane: Sue. Quello a cui si assiste è uno vero e proprio scontro tra la versione fresca e quella matura della stessa persona, combattimento che, allontanandosi da qualsiasi forma di realismo, esprime lo strazio emotivo di una star di Hollywood trasformatasi in un’umiliata donna di mezza età. L’imbarazzo nel vedere il proprio fisico cambiare diventa disprezzo per le potenzialità espresse dal corpo giovane e, di conseguenza, l’anziana oscena inizia a detestare la sé ragazza dando vita a una sfida tra Elisabeth e Sue che si contendono le energie, le potenzialità e le risorse della stessa sé.
L’angoscia per la giovinezza che sfiorisce porta con sé anche la difficoltà nel dichiarare l’età, talvolta vissuta come una proprietà privata, un segreto da non svelare. Per Sontag, la negazione da parte delle donne dei propri anni rappresenta l’adesione simbolica a quei miti che creano la loro reale oppressione, che le rendono prigioniere di un immaginario che disdegna i valori della maturità e celebra le gioie della giovinezza. Eppure, sono proprio gli anni della donna a suscitare più curiosità rispetto a quelli degli uomini, poiché esistono due pesi e due misure per valutare l’invecchiamento, fatto indotto anche dai ruoli di genere: se l’uomo che mente sull’età è considerato poco “virile”, la donna che fa la stessa cosa si comporta in modo “femminile”. Questo sistema di disuguaglianze si estende a vari aspetti della vita: non si limita a pretendere dalle donne di rimanere ragazze finché possibile, ma intacca anche la sfera del desiderio. Quella maschile è spesso una pulsione che si immagina sfiorire a un’età più avanzata rispetto a quella femminile; inoltre, come provocatoriamente scrive Jane Campbell in Susan e Miffy (Edizioni di Atlantide, 2023), “la voglia di un vecchio è disgustosa ma la voglia di una vecchia è peggio. Lo sanno tutti”.
Laddove l’esistenza dura sempre più a lungo, la non giovinezza è assimilabile a qualcosa di nefasto.
Accanto all’incapacità di accettare l’idea che i corpi diventino vecchi assistiamo a un controsenso che svela a pieno l’hybris della società capitalistica: la crioconservazione. In tempi in cui la scienza s’impegna a capire come mantenere un individuo sano in modo da essere produttore e consumatore per un periodo maggiore, in tempi in cui l’apparire giovani e forti è diventato un valore, quello della morte non dovrebbe rappresentare un tabù, ma un evento che mette fine a una vita presentata come non più degna di essere vissuta. Invece, la possibilità di mettere un essere umano in completa pausa biologica dopo la sua morte legale è qualcosa di oramai reale e ha come scopo il mantenimento delle persone fino a quando la tecnologia medica non sarà in grado di curare la causa del loro decesso per poi rianimarle e consegnare loro la possibilità di vivere una vita più lunga di quanto attualmente possibile. Di consegnare loro la possibilità di vivere la vecchiaia. Se da una parte si cerca il modo per allontanare l’anzianità nelle sue manifestazioni fisiche e comportamentali, dall’altra si spera di poter vedere vecchie anche quelle persone che, a oggi, non lo possono diventare.