C hi ha mai avuto l’occasione di sfogliare un qualsiasi piano urbanistico si sarà imbattuto nelle tavole che descrivono lo stato d’uso dei suoli – abitativo, produttivo, commerciale, agricolo, naturale – e le previsioni di ciò che sarà urbanizzato, se e quando il piano verrà attuato. Accanto a ogni area trasformabile, il piano precisa la destinazione d’uso usando sigle che rimandano ad altre sezioni (piano delle regole, norme di attuazione…) da dove si ricavano le dimensioni del volume o delle superfici edificabili, i parametri tecnico-urbanistici, la percentuale di area che l’edificio potrà coprire, il numero di piani e altri parametri edilizi e urbanistici. Oltre al mosaico colorato del “già urbanizzato o urbanizzabile” quel che rimane è senza nome e colore, “area bianca” senza identità, come a sottolineare che ciò che conta è ciò che è o sarà volume edilizio o infrastruttura, non i suoli liberi, agricoli o naturali. Oggi non è più così, o almeno non sempre, ma l’enfasi del costruito e costruibile continua a dominare la scena.
Quindi, per capirci: la tavola di piano si occupa degli usi dei suoli e non dei suoli. Questi ultimi non sono descritti da nessuna parte o, al limite, solo accennati in un mezzo paragrafo dentro la relazione urbanistica. Ma vi è un altro, curioso, particolare della tavola di piano: è materialmente un foglio di carta, cioè una superficie. E qui entra in gioco, pur incidentalmente, un potente slittamento semantico. Senza volerlo quel foglio di carta contribuisce a dare al suolo la consistenza di una superficie e così a tutte le forme del paesaggio che sono schiacciate a forza nella semplificazione bidimensionale. Il lettore non ha modo di sfuggire a questo piattume, finendo per accettare che, se la forma della rappresentazione urbanistica è piatta, anche il suolo è un piatto supporto funzionale ai volumi edilizi che – quelli sì – sono ben descritti e identificati. La riduzione cartografica, usuale e necessaria nel codice delle cose umane, potrebbe risultare ingannevole o “distraente”. Pur senza una espressa intenzionalità, la rappresentazione urbanistica finisce per fornire una visione terrapiattista, dove quel che conta è quella tavola piatta concentrata sul far da base alle richieste dei proprietari e alla loro aspettativa di rendita.
Una tavola di piano che impone nomi e funzioni ai suoli cancellando senza pudore la complessità ecologica degli stessi e senza rappresentare la loro natura, fatta di spessore vitale. La mia è una chiara provocazione per dire che il cortocircuito del piano urbanistico continua a essere quello di proporre a sé stesso, e a noi, un territorio ridotto a un pavimento sul quale gli attori principali che vanno in scena sono i volumi di cemento da posizionare con cura sui rispettivi usi del suolo, come le casette sulle caselle di Monopoli. Chissà che effetto farebbe all’urbanista, al sindaco, al tecnico, al cittadino trovarsi davanti una mappa planivolumetrica per mostrare gli strati di suolo “entro terra”, cioè quelli sotto gli edifici, le strade, le piazze. Il suolo, anche quello morto e sepolto sotto il cemento, tornerebbe almeno a essere visibile e a esistere, nonostante il peso e il buio che gli tocca sopportare.
Oltre al mosaico colorato del ‘già urbanizzato o urbanizzabile’ quel che rimane è senza nome e colore, come a sottolineare che ciò che conta è ciò che è o sarà volume edilizio o infrastruttura.
[…] Quando asfaltiamo un suolo, scombussoliamo il bilancio idrologico del pianeta, non solo quello locale. Ecco come: prendiamo un suolo permeabile in una giornata di pioggia fine e intermittente. Di 100 millimetri di acqua, la metà circa penetra nel suolo. Un quarto vi rimane (quindi il 25% della pioggia), prima impregnando le foglie sminuzzate della lettiera, poi percolando piano piano nelle cavità. L’altro 25% entra, ma continua la sua corsa verticale per via della forza di gravità che lo porta nelle falde sotterranee al di sotto del suolo. Il restante 40% evapotraspira e il 10% rimane sulla superficie. Questo equilibrio è fragile e va in blackout appena il suolo viene spogliato della copertura vegetale per finalità agricole, ma soprattutto quando viene cementificato.
In una tipica configurazione urbana a medio-alta densità edilizia, come il caso di molte nostre città, l’acqua cambia completamente strada. Solo il 10-15% della pioggia si infiltra nel poco terreno rimasto libero e con permeabilità profonda. Di questo 15%, solo un terzo rimane nel suolo a patto che non sia compattato, inquinato, degradato. Quindi alla fine il 5% massimo dell’acqua piovana rimane nello spessore dei suoli urbani, una quota largamente insufficiente per la vita delle piante, e questo è un problema. Ma i guai veri arrivano dalla quota d’acqua che non si infiltra. In parte evapora (30%), ma in massima parte, intorno al 55-60%, rimane in superficie (deflusso superficiale) e inizia ad andare dove vuole. Se le prese di accesso alle fognature sono ben pulite e/o i canali di raccolta sgombri da rifiuti e ostruzioni varie, la grande massa d’acqua di superficie andrà alla svelta in torrenti e fiumi che, altrettanto alla svelta, si ingrosseranno. Con l’impermeabilizzazione il tempo di corrivazione, ovvero il tempo che intercorre tra il momento in cui una goccia di pioggia cade a terra e il momento in cui quella goccia transita in una particolare sezione fluviale (detta di chiusura), si riduce drasticamente assieme al tempo per mettere in sicurezza persone e cose. E questa è già una prima conseguenza negativa della impermeabilizzazione. Ve ne sono altre.
Osservando meglio, la quota di acqua che rimane in superficie aumenta fino a sei-otto volte (e più) passando da una situazione non urbanizzata a una urbanizzata. Poiché la forza d’urto dell’acqua, quella che tira giù case, capannoni e auto, dipende dal prodotto di massa per accelerazione, se la massa d’acqua aumenta e per di più si arricchisce di detriti, anche la sua forza d’urto aumenta moltissimo. E quando una massa d’acqua così grande e appesantita si schianta contro case e beni il risultato sarà di gran lunga più distruttivo. Ciò in parte spiega i maggiori danni che le alluvioni provocano nei territori sempre meno permeabili. Più si urbanizza, più l’acqua circolante in superficie aumenta assieme all’energia e alla forza che la portano in giro. Di conseguenza aumentano vittime, danni e spesa pubblica per ricostruire. Si potrebbero fare alcuni approfondimenti, ma anche rimanendo a questo livello di semplificazione il messaggio è chiaro: oltre a distruggere il suolo, urbanizzare significa sempre aumentare rischi e spese per tutti noi.
Più si urbanizza, più l’acqua circolante in superficie aumenta assieme all’energia e alla forza che la portano in giro.
Avremmo già dovuto saperlo, ma ce ne siamo drammaticamente ricordati tra l’autunno del 2022 e la primavera del 2023, quando mezza Italia è andata sott’acqua per ben tre volte nel giro di pochi mesi. È cominciato il 15 settembre 2022: una tempesta colpisce il cuore delle Marche. Straripano i torrenti Misa e Nevola che inondando valli, campi, strade. Migliaia di metri cubi di terra finiscono a mare: dodici morti e una donna dispersa, che sarà ritrovata solo il 13 settembre 2023 alle isole Tremiti. Il 26 novembre 2022 è il turno di un’altra tempesta che si scarica su Ischia, l’isola bella nel golfo di Napoli. Interi versanti franano: dodici morti, danni e altri metri cubi di terra fertile che scivola a mare. Infine, il 2 e il 15 maggio 2023, due tempeste in rapida successione cambiano la pelle alla Romagna di pianura e di appennino. Altre migliaia di metri cubi colano dai fianchi dei monti e finiscono in pianura, nel frattempo intasata dalla pioggia. Case, imprese e fattorie distrutte: diciassette morti.
In tutti e tre i casi l’incuria del territorio e la cementificazione dei suoli hanno reso di molto più gravi le conseguenze di quelle alluvioni, già di per sé più acute del solito, a causa del clima imbizzarrito. In soli otto mesi, quarantuno morti per procurata fragilità del territorio, così andrebbe chiamato quel reato che non è reato e non è previsto da nessun codice, consistente nel permettere trasformazioni urbanistiche che rendono i territori ancora più precari di quanto già sono. La Romagna nelle zone faentine è tutta area alluvionabile, eppure hanno costruito fino al giorno prima dell’alluvione. Nelle Marche il 38% dell’urbanizzato si trova in aree a elevata pericolosità idraulica, eppure si è continuato a costruire anche nelle aree che poi sono state allagate. In Campania 94,67 ettari sono stati edificati in aree a pericolosità di frana nel solo periodo 2021-2022. Tutti dati pubblicati da ISPRA, ma di fatto ignorati da chi governa il territorio, se non a frana avvenuta. Chi governa dovrebbe invece studiare i rapporti scientifici prima dei disastri, in tempi di pace climatica e meteorologica, ma non lo fa, e finisce per scivolare su errori madornali e sottovalutazioni, incapace di riconoscere le cause e anticipare i problemi.
Ne è un esempio il racconto politico di un’altra tragica alluvione, quella avvenuta in toscana il 3 novembre 2023 tra Prato e Firenze. All’indomani dell’alluvione il governatore della regione chiedeva donazioni ai cittadini mostrando una foto aerea di Campi Bisenzio sott’acqua. In primo piano, nella foto, si vedeva un capannone in costruzione, cioè un cantiere nell’atto di impermeabilizzare il suolo, rendendo più fragile il territorio proprio quando piove. Con un paio di click su Google Maps si poteva vedere la medesima area, ma libera dal cemento, nel 2021. Diramare l’immagine di un cantiere di logistica sott’acqua è come farsi trovare con le dita nel vasetto della marmellata. Una cosa del genere, in una circostanza del genere, si può fare solo se non si possiede alcun codice di lettura che permetta di ragionare ecologicamente. Solo se non si vede il suolo come un corpo che reagisce in modi diversi a seconda di come viene trattato. Così si piange quello che viene danneggiato sul suolo, senza rendersi conto che è stato il suolo stesso a subire il primo torto.
La Romagna nelle zone faentine è tutta area alluvionabile, eppure hanno costruito fino al giorno prima dell’alluvione.
Dopodiché, chi governa quei territori a ogni livello dovrebbe sapere che la piana di Firenze è una sorta di vasca naturale di raccolta dell’acqua dai rii che scendono dalla corona appenninica tutt’attorno. Eppure, negli anni anche più recenti la piana è stata continuamente sommersa di cemento. Nel solo 2022: Prato 4,99 ettari; Pistoia 1,11; Campi Bisenzio 8,86; Sesto Fiorentino 8,69, Calenzano 0,31, Firenze 2,34, Scandicci 4,35 e Bagno a Ripoli 5,07. Firenze è tra le tre città più impermeabilizzate della Toscana: 42,6%. Dati simili per Prato (33,3%) e Sesto Fiorentino (20,8%). Con dati del genere, cosa volete aspettarvi se per tre giorni piove intensamente?
Altra regione, altro caso imbarazzante a dimostrare che non vogliamo proprio imparare dalle sciagure. A Faenza, provincia di Ravenna, c’è una piccola area agricola chiamata Orto della Ghilana. Prima dell’alluvione, il piano urbanistico prevedeva una lottizzazione residenziale a cui, peraltro, un comitato locale si opponeva dal 2020 senza mai esser considerato dal Comune. Nel maggio 2023 arriva l’alluvione e tutta l’area finisce sotto oltre un metro e mezzo d’acqua. Le foto hanno girato l’Italia. All’indomani ci si è chiesto: visto che la zona è stata sommersa, proprietario e comune rinunceranno alla trasformazione? Nient’affatto. Calmatesi le acque, la giunta ha ostinatamente confermato l’edificabilità del lotto, con le sue sei villette. Verrà anche allargata la strada e fatto un nuovo parcheggio abbattendo diciannove alberi adulti e sani attorno all’area. Il caso, piccolo quanto volete, è emblematico e ci dimostra che, una volta passata la tempesta, si va semplicemente avanti con le scelte di prima. Non si coglie neanche l’occasione per avviare un dibattito politico sul ruolo del sindaco che oggi, almeno davanti a casi conclamati di inadeguatezza ambientale dei piani urbanistici, dovrebbe poter cancellare legittimamente l’edificabilità senza incorrere in ricorsi o in obblighi perequativi.
Se neppure un’alluvione catastrofica produce un cambiamento, o almeno un tentativo di cambiamento in urbanistica, ci troviamo dentro un’ingessatura che si spiega solo con una forte inadeguatezza della cultura ecologica di quanti governano il territorio e vi progettano sopra. Come non pensare che questa ostinazione sia in qualche modo imparentata a una forma di negazionismo ecologico o di irresponsabilità verso il futuro? Girare la testa dall’altra parte oggi è ancora più grave, perché il tempo stringe e se si perdono le occasioni, poi non ci si può lamentare della disaffezione e dell’irrequietezza dei cittadini, che invece stanno capendo più dei loro governanti. Se l’area della Ghilana alla fine non dovesse essere trasformata, come sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) dalle notizie degli ultimi giorni, sarà solo grazie alle pressioni dei comitati locali, non dei politici.
Il dovere della memoria ecologica è ogni giorno più urgente e richiede un paziente lavoro di ricucitura tra disastri e cause, tra rottura di equilibri fragili ed effetti.
In Romagna, nel 2021 quasi 502 ettari (pari al 73,3% del consumo annuo di suolo regionale) erano stati cementificati in aree alluvionabili, eppure non è stata pronunciata una sola parola di assunzione di responsabilità, nessuna ammissione che le leggi urbanistiche che hanno consentito quei consumi di suolo, messe alla prova dei fatti, non hanno funzionato. Troppa protervia. L’umiltà di tornare sui propri passi non è un atto di debolezza da parte di chi governa, ma di saggia e lungimirante responsabilità. Nel turbinio di questi tempi moderni affollati di notizie, il rischio è di dimenticare presto sia le alluvioni, sia gli errori fatti su quei suoli, sia l’ostinazione dei decisori. Non possiamo permetterlo: una società smemorata perde in fretta la propria rotta. Il dovere della memoria ecologica è ogni giorno più urgente e richiede un paziente lavoro di ricucitura tra disastri e cause, tra rottura di equilibri fragili ed effetti. Un compito importante di cui qualcuno prima o poi si deve far carico. Al momento non sono i decisori politici a farlo, che ancora non comprendono la fondamentale funzione del suolo-ecosistema. Ma la capiscono sempre più i cittadini. E la riconosce anche la Corte dei conti, che nell’ottobre 2019 ha affermato in modo chiaro che esiste, ad esempio, una relazione certa tra consumo di suolo e dissesto idrogeologico […].
Una deliberazione che pesa come un macigno sebbene sfugga ancora al legislatore nazionale e regionale, agli urbanisti e ai decisori locali che mai l’hanno citata, pronunciata nei discorsi pubblici, inserita nei documenti di piano. Altrettanto ignorata è la spesa pubblica che ogni consumo di suolo accende. Nel 2014 pubblicai una prima stima della spesa pubblica tedesca necessaria a compensare i danni inferti dal consumo di suoli e di vegetazione al ciclo dell’acqua: 6.500 euro all’anno per ogni ettaro che viene urbanizzato. Usando questa approssimazione in Italia, la spesa pubblica annuale per gestire l’acqua, che i suoli sigillati non trattengono più, ammonterebbe a circa quattordici miliardi di euro (la superficie urbanizzata è pari a 2.151.437 ettari, il 7,14% del territorio nazionale). Le più recenti valutazioni di ISPRA hanno dimezzato quella stima portandola a 7,8 miliardi totali, ai quali si dovrebbero però aggiungere altre spese per compensare le perdite di altre funzionalità del suolo. Sono i costi sociali/ambientali dell’urbanizzazione.
La città è un lusso, oggi più di ieri. Ogni volta che si urbanizza, piaccia o no, si incassa qualcosa ma si aggiunge, per sempre, una nuova voce alla già enorme lista dei costi comuni. Non è neppur vero che si incassa ad ogni impermeabilizzazione visto che per strade e tante opere pubbliche non vengono corrisposti oneri di urbanizzazione. Se smettessimo di consumare suolo, smetteremmo di aumentare anche la spesa pubblica. Per l’alluvione 2023 della Romagna la regione ha chiesto quasi dieci miliardi di euro allo Stato, più del costo del reddito di cittadinanza del 2022 nell’intero Paese. La Toscana ne ha chiesti quasi tre di miliardi, che pagheremo tutti. Si continua a rincorrere il danno ambientale a colpi di ristori e ripristini che durano anni, ma non si lavora abbastanza all’Unica Grande Opera (UGO) necessaria a questo Paese: la manutenzione del territorio per prevenire i dissesti idrogeologici. Questo sì che ci eviterebbe di esporci a supercosti emergenziali qua e là per il territorio, oltre a generare occupazione. Questo e altro potrebbe insegnarci la crisi ecologica, se solo cambiassimo il modo di vedere le cose.
Un estratto da Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile di Paolo Pileri (Laterza, 2024).