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a terrazza inizia col più italiano dei momenti, e a tutt’oggi, a distanza di quarantaquattro anni dal film di Ettore Scola, il più contemporaneo. Una donna che batte le mani e dà il via al buffet: l’inquadratura segue il gruppo di invitati che, simile a una mandria che si accalca alla pastoia, si avvia verso il tavolo del catering.
Ogni volta che rivedo quella sequenza di avvio alle danze me ne viene in mente un’altra: il sacerdote che, in Eyes Wide Shut, picchia due volte il bastone per terra per dare il via all’orgia. La ragione è naturalmente che sono due scene gemelle: la padrona di casa della Terrazza è un sacerdote quanto e più della setta di Kubrick; entrambi gli spazi sono dominati dalle parole-chiave; entrambi celebrano un rito fondativo, il mangiare e lo scopare; entrambi nascondono funzioni violente, rispetto alle quali funzionano come mediatori sostitutivi (anche se, lato suo, Scola fa di tutto per nasconderlo – “Ci vorrebbe proprio un’altra bella guerra”, dice Mastroianni riempiendosi il piatto, ed è la battuta più importante del film).
Sarà Paolo Sorrentino, in quella riscrittura della Terrazza che è La grande bellezza, a rendere nuovo onore al rito del buffet, portandolo in un esterno (una pineta cardinalizia) e rovesciando l’inquadratura: la scena è vista dal cameriere dietro il tavolo che vede avvicinarsi l’orda. “Aiuto”, dice al collega, un po’ per scherzo e un po’ no: quella schiera che si allarga sul prato e si avvicina fa davvero pensare a una falange che corre al massacro. E, in un certo senso, lo è.
La terrazza inaugura, fra tutti i generi nati negli anni Ottanta, quello sopravvissuto meglio fino ad oggi: il conflitto da salotto.
La terrazza esce nel 1980 e inaugura un genere che, fra tutti i generi nati in quel decennio, è senza dubbio quello sopravvissuto meglio fino ad oggi: il conflitto da salotto. Gli anni Settanta sono finiti; la violenza politica e il pensiero selvaggio che le stava dietro sono stati sconfitti – la censura del conflitto diventa la precondizione necessaria di ogni discorso, e La terrazza ne è il manifesto inaugurale. La violenza, rimossa in fretta e furia dal teatro collettivo, va spostata in ambiti più innocui e meno espliciti: a cena, appunto. Nasce qui l’inesauribile tendenza che arriva fino a Carnage di Reza-Polanski e a Perfetti sconosciuti di Genovese: la salottizzazione del conflitto. Il che, ovviamente, fa ridere: che cos’è stata la grande commedia all’italiana, da Fantozzi ai Mostri, se non la messa-in-comico della violenza sociale?
Della Terrazza si è detto molto: questa specie di nazionale del cinema italiano (Mastroianni, Tognazzi, Gassman, Trintignant, Reggiani, Satta Flores, Sandrelli, Gravina, Colli, Vukotic) tutti insieme per una grande celebrazione – ma di cosa? Si dice “la fine della grande commedia all’italiana”, ma si legge la fine delle guerre ideologiche, la stabilizzazione degli equilibri, l’inizio dell’epoca “mass-medievale” come una pax augustea che però lascia tutti insoddisfatti. La terrazza romana (mai un sostantivo è stato così inscindibile da un aggettivo: il film di Scola si porta sempre dietro la sua romanità come un arto fantasma): la rappresentazione iconica di una classe intellettuale cinica e disillusa, che dopo un esaltante decennio da incendiari, si gode una precoce pensione da pompieri, e trova il suo finale, senile piacere nel disprezzarsi: “I privilegiati depressi” – dice Gassman nel finale – “fanno ancora più schifo dei privilegiati contenti”, ed è difficile dargli torto.
Cos’è stata la grande commedia all’italiana, da Fantozzi ai Mostri, se non la messa-in-comico della violenza sociale?
L’autodafé, lo sappiamo, funziona sempre; e così il piacere (anche questo molto romano) di celebrare funerali. Sarà per questo che quel film rimane forse tuttora l’opera più rappresentativa di un decennio e di una certa Italia – se non colta, se non intellettuale, almeno presunta tale; quei giovani pensionati che già nel 1980 dicono che la questione dei giovani è, appunto, “un problema vecchio”: i giovani sono, appunto, un problema degli anni Settanta, che gli Ottanta hanno risolto nel migliore dei modi: incarcerandone alcuni e invecchiando gli altri. Dopo la sbornia di fanatico giovanilismo degli ultimi vent’anni, viene il momento dei “grandi”.
Quello che invece di questo film si dice meno, è quanto esso sia molto evidentemente la versione borghese di La classe operaia va in paradiso. È sorprendente la capacità che hanno i suoi personaggi – tutti inguaribilmente tristissimi – di delocalizzare le cause della loro infelicità, quando dall’esterno appare evidente che il rovello centrale di quelle depressioni è il lavoro che svolgono, e che per qualche ragione non prendono minimamente in considerazione di cambiare o abbandonare. Il lavoro alienante, ancorché ben pagato; il lavoro che distrugge anche quando non costa nessuna fatica – un dorato mobbing autoimposto che funziona come un castigo kafkiano: lo sceneggiatore che vuole fare il dramma e tutti gli chiedono di fare la commedia; il romanziere ex-premio Viareggio che fa il funzionario in Rai; il giornalista che disprezza il giornalismo; il critico cinematografico che continua a fondare e affondare riviste; il parlamentare comunista trapassato e inutile; l’ex-militante settantasettina ridottasi ad accudire il benestante marito pubblicitario; il produttore rinchiuso nella sua villa che vuole fare solo film comici; infine il povero Galeazzo, l’unico che tutti irridono e maltrattano perché su di lui pende il più originale dei peccati: è disoccupato, ed è l’unico di cui pensi che, se gli lasciassero fare il suo lavoro, sarebbe felice. Tutti detestano il proprio lavoro, o quello che il lavoro è diventato; tutti prendono soldi per fare cose inutili, sentendosi inutili loro stessi. Sembra di sentire Arbasino che guardava i film di Antonioni e scriveva che certo che la Vitti si sente depressa, non fa un cazzo dalla mattina alla sera e per passare il tempo va a passeggiare tra i capannoni a Sesto San Giovanni.
Tutti detestano il proprio lavoro, o quello che il lavoro è diventato; tutti prendono soldi per fare cose inutili, sentendosi inutili loro stessi.
Viene da chiedersi come sarebbero questi personaggi se per otto ore al giorno facessero qualcosa di vitale, di piacevole, di utile; se partecipassero a una qualche forma di quella che Durkheim chiamava “effervescenza sociale”; se, insomma, non fossero – come noi tuttora siamo – vittime di una narrazione neocapitalista che erge come ideale di vita l’essere molto pagati per fare un lavoro che si detesta, ma la cui messa in discussione li riporterebbe sulla strada che gli anni Settanta hanno sbarrato: quella del conflitto.
Ritrasformare il mondo del lavoro in un teatro di lotta? Tornare a discutere la lingua del desiderio? Ma no: meglio accontentarsi dei piaceri gregari emessi dalle rendite di posizione, e casomai lamentarsene a cena, in terrazza, insieme ad altri reduci altrettanto disillusi. Meglio fingere di non aver saputo, di non aver visto. Meglio, per dirla con Calvino, “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”. Dice Mastroianni all’inizio del film: “Come si era felici quando eravamo tutti imbecilli”.
La terrazza ha un protagonista occulto, che non ha battute ma costituisce il pilastro segreto del film: è l’anziano cameriere affetto da tremore che serve il risotto a Mastroianni in una gag che non fa ridere e non punta a farlo; è l’unico momento di umana pietà e solidarietà che vediamo nel film. Il cameriere è la rappresentazione plastica di un mondo dove tutti fanno un lavoro alienante che non vogliono fare, ma devono; un lavoro di cui – come per una tacita condanna biblica – tutti sono costretti a non parlare. La terrazza è il film che testimonia la maledizione che segue la fine della lotta: il prezzo della pace sociale scesa sull’Europa è la scomparsa del conflitto dalla dimensione collettiva. Della violenza non si parlerà più, se non in codice. Salottizzandola.
La terrazza è il film che testimonia la maledizione che segue la fine della lotta: il prezzo della pace sociale scesa sull’Europa è la scomparsa del conflitto dalla dimensione collettiva.
La fantozziana sofferenza del lavoratore che grida vendetta agli occhi del sistema cede il posto al sogno del successo o alla medicalizzazione del disagio. Dal dolore si passa alla frustrazione, dall’angoscia alla noia, dalla rabbia alla depressione clinica. Come scrive Bourdieu nella Distinzione (uscito, non a caso, nel ‘79): “Mentre il vecchio sistema tendeva a produrre delle identità sociali ben definite, l’instabilità strutturale dell’identità sociale e delle aspirazioni in essa legittimamente incluse tende a sospingere i soggetti, con un movimento che non ha assolutamente nulla di personale, dal terreno della crisi e della critica sociali a quello della critica e della crisi personali”. Sfido chiunque a non definirlo un downgrade.
La questione del lavoro, che fino agli anni Settanta costituisce il teatro naturale di ogni lotta, negli Ottanta diventa il grande non detto che arriva fino ad oggi: la Lettera Nascosta di un angoscioso thriller collettivo dove tuttavia l’Assassino non può mai essere nominato – una palude esistenziale da cui non si può pensare una via d’uscita.