L’ immaginario della palude è pieno zeppo di stereotipi, tutti decisamente negativi. Eccone alcuni: la palude è un luogo oscuro e pericoloso, la palude è legata alla morte, la palude è popolata da mostri. Certo, il timore verso quest’ambiente, evidente fin dall’antichità, ha contribuito non poco a plasmarne la dimensione, ma non spiega come mai ancora oggi – specie nella società occidentale – gli sia rimasta attaccata un’accezione così ostile. Cosa c’è dietro allo stigma della palude? Secondo Annie Proulx, premio Pulitzer e autrice di La palude (Aboca, 2023), c’è l’idea di progresso. Proprio le terre umide, nel corso della storia, avrebbero rappresentato un ostacolo alle “magnifiche sorti”, mentre la loro distruzione un trionfo e una vittoria dell’uomo sull’ambiente, della cultura sulla natura. È un’opinione ormai decisamente diffusa tra chi si occupa di studiare la palude: le indagini antropologiche e le ricerche d’archivio sembrano convalidarla. Se provassimo allora ad azzerare il pregiudizio che abbiamo verso questo ambiente e la sua presunta primitività, potremmo ricostruire pezzo per pezzo l’immaginario che lo riguarda. E potremmo farlo fuori dagli stereotipi sulla palude che parecchi dati storici fittizi hanno giustificato per molto tempo, anche non intenzionalmente, sotto l’invisibile logica del progresso.
Il primo di questi stereotipi non può che riguardare l’inizio della civiltà stessa: il superamento dell’ambiente palustre in favore di quello agricolo. Dobbiamo quindi rivolgerci agli iniziali incerti passi della nostra specie tra le paludi, e anche se è impossibile ricostruire in maniera esatta cosa sia avvenuto, possiamo ipotizzare un primo incontro tra l’essere umano e questo particolare habitat. Frequentandolo potrebbe avervi trovato grandi colonie di insetti, moltissime specie animali selvatiche, una vegetazione fitta. Il fetore di cavolo marcio tipico del metantiolo, un gas sprigionato dalla putrefazione della materia organica. Un pavimento informe, umido, viscido e molle, l’acqua e la terra indistinguibili tra loro. Tanta puzza e uno spazio scivoloso: attributi che devono aver confuso Homo Sapiens, ma che non sembrerebbero averlo spaventato a sufficienza da impedirgli di sfruttare le risorse della palude.
Come riportano David Graeber e David Wengrow nel loro L’Alba di tutto (2021), già diecimila anni fa nell’Africa subsahariana, allora molto più umida che adesso, caccia e pesca venivano praticate all’interno di quei luoghi. Il che suggerisce un sistema di vita dipendente dall’acqua delle paludi, smentendo così il primo degli stereotipi su di esse: non è mai esistita una separazione così netta tra economia agricola ed economia palustre. Il mito colonizzante della Mezzaluna Fertile – che sta ancora lì, in ogni buon libro scolastico che si rispetti – e a cui facciamo risalire la culla della civiltà, perderebbe in questo modo la sua forza, così come l’equazione civile/agricolo, primitivo/paludoso, ancora largamente accettata. Durante tutto il Neolitico, raccolti e raccolta di alimenti nelle foreste o nelle paludi continuavano a non escludersi a vicenda.
Gli storici dell’ambiente si sono occupati di far emergere un quadro più preciso delle relazioni con questi habitat. Hanno ad esempio riscontrato come nel mondo antico la palude fosse un luogo senza dubbio legato alla sfera del sacro, anche se con un’ambiguità difficile da definire, specie per i Greci. Essa rappresentava, come ha scritto l’antropologa Doralice Fabiano in Senza paradiso. Miti e credenze dell’Aldilà greco (2019), il confine dello spazio dei vivi e dei morti, dunque una regione di transizione, che non apparteneva né all’uno né all’altro mondo. È ormai consolidato da evidenze archeologiche come la palude fosse anche sede di eventi iniziatici, nelle quali si svolgevano ritualità complesse, in particolare femminili. Sono documentate anche come luoghi in cui avveniva la transizione degli adolescenti verso l’età adulta, dalla natura selvaggia alla polis, e la piena assunzione del ruolo di cittadini. Nella cultura ellenica la palude non veniva percepita come malvagia, quanto come ambivalente e liminare.
Durante tutto il Neolitico, raccolti e raccolta di alimenti nelle foreste o nelle paludi continuavano a non escludersi a vicenda.
Anche negli antichi culti italici la palude era un luogo sacro. Lo testimoniano le numerose divinità connesse ad acque stagnanti, pantani e acquitrini, come la sannita Mefitis – da cui l’aggettivo “mefitico” – o Feronia. E ancora nel mondo romano, all’apice del pensiero razionalistico antico, sopravviveva quella che Tacito definiva una superstitio, riferendosi al complesso di culti e credenze legati alla palude che avrebbe perdurato nelle campagne per secoli e secoli. Persino nel periodo tardo antico, i sacra paganorum non erano del tutto scomparsi: la devozione delle acque fluviali e palustri resisteva in molte regioni.
Fu poi il Cristianesimo a incidere profondamente nel processo di negativizzazione della palude. Nel Cristianesimo l’acqua è simbolo di purificazione, mentre l’umidità, caratteristica intrinseca della palude, è connessa alla sessualità immorale del femminino. Furono recuperati così alcuni tratti della cultura greca, come il legame tra la palude e le donne, ma con un’accezione fortemente peggiorativa, perché la natura selvaggia, nel frattempo, aveva assunto una veste diabolica. San Tommaso D’Aquino, ricalcando la filosofia aristotelica, sosteneva non a caso che “le femmine nascono a causa di un seme guasto o di venti umidi”, la loro inferiorità discende dalla “sovrabbondanza di umidità” che possiedono. Separare le acque dalle terre, invece, appartiene alla perfetta natura divina: nella Genesi, il Creatore le raccoglie in un sol luogo affinché appaia l’asciutto. Nel libro dei Salmi è scritto: “mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”.
L’immaginario del Medioevo e dell’Europa cristiana ci appare barbarico, e così il suo ambiente, ricoperto da paludi. Eppure, come ha osservato lo storico Giusto Traina nell’ormai classico Paludi e bonifiche del mondo antico (1988), l’idea di un Medioevo segnato da un habitat degradato e decadente rispetto all’epoca d’oro dell’agricoltura romana è profondamente falsa. Il motivo di questo fortunato stereotipo, ancora resistente nel senso comune, si spiega con un topos di origine settecentesca, dovuto a Lodovico Antonio Muratori, uno dei padri della storiografia italiana. Interpretando alcune fonti antiche in maniera impropria, Muratori sosteneva che vi fossero territori un tempo operosamente coltivati dai coloni romani, caduti in rovina e impaludatisi nell’età di mezzo. Secondo Traina, quella messa in circolazione da Muratori è un’immagine tanto “accattivante quanto priva di fondamento”.
Non che non vi fossero elementi di criticità ambientali. L’incastellamento, l’incidenza malarica attorno alle aree litoranee – abbandonate perché più esposte alle razzie barbare – avevano favorito la separazione materiale e ideale tra il centro abitato e il pericoloso ambiente circostante. Una testimonianza rilevabile anche nelle arti e nella letteratura: dalla palude infernale dantesca, attraversata da Caronte e le sue anime, a Beowulf e alle leggende legate alla permanenza in quei luoghi del drago, si moltiplicavano i riferimenti alla mostruosità palustre. Favole e racconti popolari che ammonivano di starle distanti, lontano dai suoi pericoli, spauracchio per i bimbi più avventurosi. Nascevano storie su strane lumache-serpenti, come la Borda emiliano-romagnola, protagonista del romanzo Mal’aria di Eraldo Baldini, la Marroca umbra e delle maremme, la Biddrina o Culobbia siciliane.
La palude è stata a lungo sede di eventi iniziatici e ritualità complesse, in particolare femminili.
Ancora nel Medioevo europeo, tuttavia, e fino alla fine dell’ancien régime, la palude non era un luogo di “rovina”, come sarà spesso considerata successivamente. Nel latifondo, dove insistevano le principali caratteristiche palustri, le società avevano creato in sostanza un sistema di “adattamento geniale” in un quadro ecosistemico difficile che manteneva intatti i vincoli di riproducibilità delle risorse naturali, sfruttandole appieno. Acqua e terra, campi e paludi spesso non avevano limiti netti: i pastori li attraversano, componendo un’economia transumante fiorente. È solo nella modernità che gli europei cominciarono a considerare seriamente l’espulsione totale dell’elemento acquatico a fini agricoli. Tra il Diciassettesimo e il Diciottesimo secolo iniziò la guerra materiale alla palude e agli ambienti umidi. Emerse la forza dominatrice dell’umano: non più rispetto sacrale o impurità religiosa, la palude finì per essere concepita come ostacolo al progresso.
Nella poderosa Storia agraria dell’Europa Occidentale (1963), lo storico sociale Slicher Van Bath sostiene che l’illuminismo abbia interpretato la bonifica come un episodio centrale della lotta fra l’uomo e l’ambiente, della ragione e dell’ordine sull’oscurità e il caos. Una visione che divenne imperante presso tutte le élite europee per i successivi due secoli e costituì il motivo maggiore di innesco della distruzione delle paludi. Le possibilità tecniche di farlo derivavano invece dalla rivoluzione scientifica avvenuta nel Seicento, con leggi sperimentabili e replicabili che regolarono da quel momento la phisys: il sistema “copernicano” in particolare, fondato proprio sul binomio umano-non umano e sull’oggettività della scienza, spinse a trattare la realtà materiale come risorsa e merce. Venne scardinata una visione organicista, un mondo fatto di relazioni, e gli si sostituì l’immagine del mondo-macchina, che come ha rilevato Carolyn Merchant nel suo La Morte della Natura (1980) – un classico dell’ecofemminismo – ha un solo proprietario: l’uomo.
Mentre prese avvio l’annientamento materiale delle paludi – grandi macchine idrovore ora vennero applicate per prosciugarle – l’invenzione del paesaggio contribuì a cristallizzare il loro immaginario. La natura tutta dall’Età Moderna divenne proiezione umana, specchio morale, valoriale. Perse realisticità e guadagnò immagine: è lo stravolgimento “del moderno che ammutolisce i luoghi e moltiplica i discorsi sui luoghi”, come diceva Walter Benjamin. La nascita stessa del termine “paesaggio” è la storia del prodotto della distruzione della palude. L’agronomo e geografo Yves Luginbühl ha osservato in La Mise en scène du monde (2012) che il termine inglese landscape, derivazione di quello fiammingo lantscap, è riferibile al progetto territoriale di bonifica olandese del Mare del Nord e della chiusura dei commons.
Ma anche nell’arte e nella letteratura occidentale la palude venne ricompresa come rappresentazione della natura selvatica, e godersi il paesaggio un modo di ricomporsi con ciò con cui si era ormai scissi. Confinata all’esotismo fino a fine Ottocento, la palude fu l’oggetto delle narrazioni odeporiche dei viaggiatori del Grand Tour: la regione Pontina o le lande acquitrinose della Campagna romana, erano per loro delle tappe immancabili. La wilderness e il mito del Buon Selvaggio vennero contrapposti al mondo degradato della rivoluzione industriale.
È solo nella modernità che gli europei considerano seriamente l’espulsione totale dell’elemento acquatico a fini agricoli.
Le paludi non esercitavano lo stesso fascino misterioso nei governanti: erano solo un “non sfruttato” per l’avanzante sistema capitalistico di mercato. Era ormai introiettata anche l’idea che fossero un residuo di epoche primitive: l’equivalenza tra agricoltura e civiltà era oramai compiuta. Oltreoceano il sistema della piantagione distrusse torbiere e ambienti umidi nelle regioni del Midwest e della Central Valley californiana, i nativi americani vennero espropriati delle loro terre. Ancora una volta fu lotta al selvaggio e all’ambiente inadatto in cui viveva. L’avversione illuminista per la palude attraversò intatta due secoli ed era ben radicata a inizio Novecento, anche in Italia, dove la propaganda del fascismo contribuì attivamente ad affermarla. In questo senso la bonifica della regione pontina rappresenta sicuramente il caso più rilevante per ricostruire la concezione della palude in periodo fascista.
Un primo tentativo riuscito di bonifica nelle paludi laziali avvenne nel Settecento, sull’ondata del riformismo illuminista, ad opera di Pio VI. I risultati di quel drenaggio furono però parziali, con alcune zone prosciugate e altre rimaste allagate. Le paludi continuavano però a essere sfruttate assiduamente dalle popolazioni locali e quelle forestiere, non solo in senso agricolo, ma anche facendovi pascolare i bufali e le greggi, producendo carbone nella Selva di Terracina, raccogliendo la torba, tagliando il legname. Leggende, paure e malaria non impedivano alle società di convivere con questo ecosistema al punto che lo strico dell’ambiente Renato Sansa, riferendosi alle risorse forestali della regione pontina, parla di “oro verde”.
La bonifica integrale degli anni Trenta del Novecento coincise con la cancellazione dell’economia e dell’ambiente umido e la costruzione di un immaginario sempre più deteriore per la palude e i modi di abitarla. Il progetto di bonifica promosso da Mussolini aveva in realtà diversi obiettivi, in primo luogo quello di riuscire lì dove gli altri avevano fallito, nel mito della romanità che abbiamo già riscontrato. La bonifica delle paludi pontine era l’atto perfetto per intestarsi un successo che venne difatti amplificato senza uguali dalla propaganda. Il battage pubblicistico e letterario, specie sulla fondazione di città nuove come Littoria, Sabaudia e Pontinia in un ambiente ostile, travalicò abilmente i confini nazionali e furono organizzati veri e propri tour dei lavori per i delegati dei Paesi esteri.
In secondo luogo la bonifica perseguì l’obiettivo della stabilizzazione del sottoproletariato che affollava i grandi centri urbani e che costituiva il pericolo di una massa potenzialmente sovversiva. Questa andava ricacciata in un contesto rurale facendo leva sulla retorica del focolare, dell’obbedienza contadina, della numerosa prole utile alle mire espansionistiche, insomma l’ideale uomo fascista. Bellicismo e ruralismo si intrecciarono nel motto dell’aratro “che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”. Il nomadismo transumante tipico della palude andava rimosso: la popolazione che stagionalmente occupava le terre umide venne considerata dal fascismo alla stregua di un male da estirpare, così nei suoi confronti venne attivata una lunga campagna di denigrazione.
L’illuminismo ha interpretato la bonifica come un episodio centrale della lotta fra l’uomo e l’ambiente, della ragione e dell’ordine sull’oscurità e il caos.
Alla propaganda fascista contro le paludi il critico Ugo Fracassa ha dedicato i suoi studi da una prospettiva post-coloniale: nelle narrazioni dell’epoca, agli abissini corrispondono i nativi di quei luoghi, i cosiddetti “macchiaroli”, lombrosianamente descritti come primitivi. La bonifica del fascismo difatti fu anche esplicitamente umana: nella retorica del regime risuonavano chiaramente le ragioni della violenza coloniale. L’obiettivo era riscattare “con la terra gli uomini e con gli uomini la razza”. È l’eterno ritorno, scrive Proulx, di quello che nelle paludi succede sempre, “la storia più vecchia del mondo”: sottrarre terre “senza valore” a persone giudicate difettose e inferiori.
La retorica propagandistica “aggiustò” anche la cultura mitica: la natura selvaggia, la ninfa Feronia della leggenda pontina, residuo di antichi culti italici, è ben lontana dall’immaginario simbolico che voleva trasmettere il regime. Feronia fu così rimpiazzata dalla santa dei campi, Maria Goretti, vittima di stupro e omicidio, espressione della visione tradizionale della castità, votata alla maternità e al lavoro domestico. Venne anche esaltata la forza innovatrice della tecnica nella distruzione della palude: nei quadri futuristici di Fortunato Depero la figura del contadino ha contorni squadrati, è esso stesso una macchina, circondato dalle linee razionali che raffigurano l’acqua irregimentata e il podere nei campi. Gerardo Dottori, altro pittore caro al regime, celebrava la bellezza dei campi arati e ordinati, dall’alto di un aereo che li governa e li sorvola.
L’esito della costruzione di quest’immaginario è che nella memoria collettiva del Paese la bonifica pontina finirà nel novero dei risultati positivi ascrivibili al regime fascista, anche in misura indebita e con meriti sproporzionati rispetto alla realtà storica, come ricorda Francesco Filippi nel suo Mussolini ha fatto anche cose buone (2019). Secondo Filippi, persino per quanto riguarda la lotta alla malaria, con cui si è giustificata nel corso del tempo la necessità “igienica” dell’intervento sulla palude, i risultati della bonifica fascista andrebbero ridimensionati: solo in seguito all’impiego del DDT americano, finita la guerra, il morbo sarebbe davvero scomparso.
Ma ancora più impattanti sono state le conseguenze sulla palude e sulla coscienza ambientale. In I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita (1996), lo storico Piero Bevilacqua sostiene che “l’immagine della campagna selvaggia da aggiogare alle tecniche e ai simboli della civiltà” sarebbe “l’unica eredità che l’ideologia bonificatrice del fascismo ha consegnato più o meno intatta, come valore e come rappresentazione, all’Italia Repubblicana”. Un’eredità quindi complessa, che ha comportato la rimozione di una parte importante della complicata storia ambientale del nostro Paese, segnata da bonifiche non distruttive, come quelle avvenute nella Pianura Padana. Ma che ha anche significato, per i molti che nel dopoguerra lasciavano le campagne e si trasferivano in città, che “verde e alberi” fossero “spazi privi di valore, ingombri all’avanzare della civiltà del cemento e dell’asfalto”, così come lo erano stati la palude e la natura non domestica.
La bonifica fascista è anche esplicitamente umana: nella retorica del regime risuonano chiaramente le ragioni della violenza coloniale.
Solo negli anni Settanta del Novecento nuove sensibilità verso l’ambiente iniziano a prendere parola. Opere come Primavera silenziosa (1962) di Rachel Carson hanno promosso una nuova comprensione del degrado degli habitat naturali per mano dell’uomo. La palude, considerata fino ad allora repulsiva e inutile rispetto alle logiche della modernità, è diventata uno spazio ambientale da salvaguardare e ripristinare. Dalla formazione di una coscienza di tutela nata dal basso e dai territori – nell’evidenza empirica che l’azione umana sta provocando alcuni danni irreparabili alle basi stesse della vita stessa – la necessità del mantenimento di queste aree comincia lentamente a essere recepita anche al livello istituzionale.
Le classificazioni terminologiche di carattere scientifico, ad esempio, stabiliscono che la palude è uno degli habitat, insieme agli stagni, le saline, gli acquitrini, le torbiere, che fanno parte delle cosiddette “aree umide”, le wetlands, definite dalla compenetrazione indistinta di acque e terreno. La convenzione di Ramsar del 1971, nata per la difesa proprio di queste aree, è stata il primo trattato tra governi per la gestione e la tutela di un ambiente naturale e della sua biodiversità. Una migliore conoscenza delle paludi e alcuni risultati positivi, come la lista dei siti vulnerabili e da preservare riconosciuta globalmente, o l’accresciuta consapevolezza scientifica e la formazione di una coscienza ambientalista attenta a questi ecosistemi, non hanno però comportato decisivi cambiamenti di rotta rispetto alla conservazione delle terre umide.
Un report dell’IPBES, ente intergovernativo delle Nazioni Unite assimilabile a un IPCC per la biodiversità, segnala non solo che dal 1700 al 2000 più dell’85% delle zone umide sono state perdute, ma che le perdite di tali ambienti continuano ad avanzare oggi tre volte più velocemente rispetto a quelli forestali. Rimane dunque una contraddizione forte tra la consapevolezza della crisi ambientale e la difficoltà di invertire la tendenza nella distruzione delle paludi. Uno dei motivi per cui ciò accade risiede sicuramente nelle recenti politiche dei governi mondiali, specie rispetto al rigurgito anti-ecologista delle fazioni suprematiste e reazionare.
Jair Bolsonaro in Brasile, ad esempio, non ha mai nascosto di appoggiare le ragioni degli allevatori che hanno appiccato gli incendi nel Pantanal, la più grande palude tropicale al mondo, che nel 2020 hanno causato la morte di più di 17 milioni di vertebrati, bruciando centinaia di migliaia di ettari. Allo stesso modo, nel corso del suo precedente mandato il neopresidente degli Stati Uniti Donald Trump, coerentemente con le sue politiche anti-ambientaliste, ha ridotto la sfera di azione del Clean Water Act (la legge sull’acqua potabile votata nel 1972 da Richard Nixon), escludendo dalla protezione fiumi e zone umide non permanenti e favorendo lo sfruttamento e l’inquinamento di queste aree da parte degli allevamenti intensivi e della produzione industriale.
Il dispiegamento di queste politiche per nulla attente alla conservazione ambientale non è sufficiente però a motivare il declino degli spazi umidi a livello globale, anche se ne mostra l’aspetto più manifesto. Se “la storia delle zone umide è la storia della loro distruzione”, come ha scritto lo storico Oliver Rackham in The History of the Countryside (1987), l’immaginario della palude ne ha sempre fornito una fondamentale giustificazione. Potrebbe essere dunque il momento giusto per rielaborarlo e rivalutarlo del tutto: nel suo La Via Selvatica (Laterza, 2024), l’antropologo Adriano Favole sostiene ad esempio che sarebbe proprio l’incolto a poter decolonizzare le nostre menti dal binomio natura/cultura e ripristinare in definitiva un rapporto più sano con gli ecosistemi. Affinché le paludi possano di nuovo trovare posto nel mondo, o smettere di perderlo, andrebbero insomma riconosciute quelle strutture di sfruttamento, colonizzazione e dominio che per secoli ne hanno costituito l’idea e l’immaginario. Nei confronti della palude, forse, nutriamo soprattutto un forte debito morale.