L a mattina dello scorso 21 Luglio, mentre si faceva sempre più concreta la possibilità di un ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Presidenza degli Stati Uniti, nella newsletter di Francesco Costa, vicedirettore de il Post ed esperto di politica statunitense, si evidenziava come fossero sempre di più, e sempre più influenti, gli esponenti del Partito Democratico americano che stavano ritirando il loro supporto alla candidatura Biden.
A dodici ore dall’annuncio del ritiro, che sarebbe arrivato in serata, tra le poche personalità di spicco rimaste al fianco di Biden c’erano il senatore Bernie Sanders e la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, le due figure più in vista della “sinistra interna” ai Democratici. La definizione di “sinistra interna” è grossolana e non rende merito alla complessità di rapporti che legano il Partito Democratico a tanti altri soggetti politici, tanto più che Bernie Sanders è, formalmente, un indipendente “affiliato” al Partito Democratico. Una definizione però ci serve: faremo chiarezza più in là.
Tornando alla newsletter, Costa scriveva: “Bernie Sanders, che è una persona di grande integrità, è uno dei pochi difensori di Biden rimasti in giro” e, in un altro passaggio che vale la pena riportare per intero, evidenziando col corsivo due espressioni di cui discuteremo: L’unica a difendere davvero Biden è rimasta
improbabilmente Alexandria Ocasio-Cortez, che giovedì ha sostenuto che sia troppo tardi per cambiare candidato (…) Il paradosso è che fino al dibattito era proprio la sinistra radicale a dire che mai avrebbe votato per Biden, che anche solo la questione Gaza era un ostacolo impossibile da ignorare, che avevano finito di votare per i meno peggio, che il successo economico americano era una balla… ora difendono genocide Joe e la sua candidatura. Perché questa improvvisa adozione di Biden da parte della sinistra radicale?
In questo articolo proveremo a dissipare un malinteso: Sanders e AOC non sono la sinistra radicale, e il loro supporto a Joe Biden non era particolarmente improbabile. Nessuno dei due ha mai usato le parole “Genocide Joe”. Anzi, in merito alla carestia e ai massacri di civili che l’esercito che l’esercito Israeliano sta compiendo a Gaza, i due non hanno quasi mai usato la parola “genocidio”: AOC l’ha usata per la prima volta soltanto lo scorso Marzo, a sei mesi dall’inizio dell’invasione, e Sanders non l’ha mai usata in assoluto.
Sanders e Ocasio-Cortez non sono la sinistra radicale, e il loro supporto a Joe Biden non era particolarmente improbabile.
È vero che Sanders ha, a più riprese, criticato la posizione di Biden rispetto alla guerra a Gaza, definendola completamente sbagliata, è altrettanto vero che ha boicottato il discorso al Congresso del premier israeliano Netanyahu e che si è opposto all’invio di aiuti militari a Israele ma ha fatto tutto ciò, ed è importante sottolinearlo, senza mai mettere in dubbio il suo sostegno a Biden. Anche sul piano economico e di politica interna, Sanders e AOC hanno espresso giudizi molto positivi sull’amministrazione Biden. Lo scorso gennaio, per esempio, Sanders ha dichiarato che il comitato per la rielezione di Biden doveva fare di più per ’raccontare i buoni risultati ottenuti’ dal presidente, elogiando il pacchetto di aiuti da 1900 miliardi per la ripresa dal Covid e l’Inflation Reduction Act, con le sue misure progressiste rispetto al clima e alla sanità. Nel comunicare il suo sostegno a Biden in Luglio, Sanders lo aveva definito “il presidente più efficace della storia americana moderna”.
E non si tratta di “un’adozione” avvenuta nell’ultimo anno: Sanders aveva già sostenuto Biden dopo essere stato sconfitto alle Primarie nel 2020, come del resto aveva fatto con Hillary Clinton nel 2016. Ocasio-Cortez ha avuto posizioni più critiche nel corso degli anni, ma anche lei nel 2020 aveva invitato gli elettori a fare quadrato intorno a Biden e, come già detto, ha continuato a sostenerne la candidatura fino all’ultimo giorno. Insomma: la sinistra radicale “che mai avrebbe votato per Biden” non è la “sinistra interna”, e non ha in Sanders e AOC i suoi portavoce.
Questo malinteso, questa sovrapposizione tra “sinistra interna” e “sinistra esterna” americana, sembra emergere anche nella puntata del 28 Agosto scorso di Elettorale Americana, il podcast del Manifesto sulle elezioni negli Stati Uniti. Nel podcast, intorno al minuto sette, la corrispondente Marina Catucci definisce Alexandria Ocasio-Cortez “l’outsider per eccellenza”. Ma Ocasio-Cortez non è un’outsider, non più.
What’s left?
Senza dubbio lo è stata. Lo erano, per estrazione politica, tutte le personalità legate alla squad, il gruppo di giovani parlamentari di sinistra formatosi tra il 2018 e il 2020 che comprende, oltre ad Alexandria Ocasio-Cortez, Rashida Tlaib e Ilhan Omar, e che comprendeva anche Jamal Bowman e Cori Bush, che non sono stati rieletti nel 2024. La squad è stata l’espressione politica di una coalizione di forze progressiste molto ampia, tanto che per alcuni anni (indicativamente tra il 2015 e il 2020) non esisteva una distanza sostanziale tra la “sinistra interna” e una galassia politica che, per comodità e compatibilmente alle molte eccezioni a cui si accennava sopra, chiameremo “sinistra esterna” ai Democratici. Ma adesso quella distanza esiste eccome. Buona parte di quella sinistra radicale a cui Costa si riferisce ha divorziato, e da anni, con Sanders e AOC. Forse la frattura era inevitabile: anche di questo riparleremo con calma.
Anche sul piano economico e di politica interna, Sanders e AOC hanno espresso giudizi molto positivi sull’amministrazione Biden.
Ho chiesto che cosa rimane del movimento Sanders a Heather Gautney, professoressa di Sociologia alla Fordham University e Senior Policy Advisor di Bernie Sanders durante le campagne del 2016 e del 2020: “le persone che componevano il movimento si sono divise. Alcune continuano a muoversi nel perimetro del Partito Democratico. Altre non lo stanno facendo, e sognano un terzo partito alternativo, ma non è chiaro quale dovrebbe essere e chi dovrebbe guidarlo. Infine, c’è un numero piuttosto consistente di persone che non voteranno affatto, perché il modo in cui il governo sta gestendo la situazione di Gaza è stato, per molte persone, la goccia che fa traboccare il vaso. Il movimento che Bernie aveva costruito si è… qual è la parola che sto cercando? Sparpagliato”.
Oggi, la galassia della “sinistra esterna” americana è proprio così: sparpagliata. Una cintura di asteroidi ininfluenti che percorrono orbite molto diverse da quelle di AOC e Bernie Sanders. Il soggetto politico più significativo di questa corrente (in un certo senso, il più interno tra gli esterni) sono i Democratic Socialists of America, o DSA.
I DSA sono nati nel 1982 dalla fusione di due gruppi di sinistra più piccoli che, se guardati da vicino, già prefigurano il tipo di frattura che percorre oggi la sinistra americana: erano il Democratic Socialist Organizing Committee (DSOC) di Michael Harrington, un gruppo socialista riformista che si è dato fin dall’inizio l’obiettivo di influenzare il Partito Democratico dall’interno, e il New American Movement (NAM), più radicale e legato al movimentismo, alla controcultura e all’esperienza della New Left degli anni Sessanta e Settanta. Per gran parte degli anni Ottanta e Novanta, i DSA rimasero un’organizzazione relativamente piccola, ai margini del panorama politico statunitense: era l’epoca del neoliberismo reaganiano, e il socialismo (di qualsiasi orientamento) sembrava aver perso per sempre la sua attrattiva. Basti ricordare che, alle elezioni del 1984, Reagan vinse in quarantanove stati su cinquanta.
La prima campagna
Quando nel 2016 si è candidato alla presidenza Bernie Sanders, uno che si è sempre definito un socialista democratico (una cosa che, detta negli Stati Uniti, suona molto più radicale di quanto possa sembrare a noi europei), l’organizzazione è stata percorsa da un’ondata di entusiasmo e di adesioni che nessuno si sarebbe aspettato. Negli Stati Uniti, se si vuole arrivare alle elezioni presidenziali con qualche possibilità di vincere, bisogna vincere innanzitutto le primarie di uno dei due grandi partiti. Mentre Trump si preparava a vincere, piuttosto a sorpresa, le primarie del Partito Repubblicano, Bernie Sanders sfidava Hillary Clinton per conquistare la nomination del Partito Democratico. I Democratic Socialists of America sono stati molto attivi nel sostenere la campagna Sanders e ne hanno avuto un ritorno di visibilità enorme. Tra il 2015 e il 2020 i membri sono decuplicati, fino a superare i sessantamila iscritti e rendere i DSA la più grande organizzazione socialista che gli Stati Uniti avessero avuto in diversi decenni.
Sanders perse, ma la campagna fu un grande successo organizzativo e mediatico: prese il 43% e più di tredici milioni di voti. Soprattutto, vinse in stati cruciali dalla forte storia operaia, come Michigan e Wisconsin. Sono quegli stati in cui Clinton non riuscì a convincere l’elettorato e che, di fatto, alle elezioni presidenziali di quello stesso anno consegnarono la presidenza a Donald Trump.
Heather Gautney ricorda molto bene l’entusiasmo che accompagnò l’esplosione del movimento: “ricordo bene gli inizi, quando i sondaggi ci davano al 4% o giù di lì. Facevamo queste feste in casa insieme ai sostenitori della nostra campagna, e prevedevamo venissero 30, al massimo 50 persone. Di punto in bianco sono diventate centinaia, c’era gente in fila fuori dalle case, gente che stava fuori a guardare dalla finestra sperando di conoscere Bernie. Abbiamo capito che stava succedendo qualcosa. E poi, a Febbraio, abbiamo vinto il nostro primo stato, il New Hampshire. Non lo dimenticherò mai. Ero sull’autobus il giorno dopo l’elezione, seduta accanto al nostro responsabile tecnico, e sento il suo laptop fare ding, ding, ding, ding. Gli ho chiesto: ‘Che succede?’. E lui: ‘Donazioni. Ogni ding è una donazione. Abbiamo raccolto un milione di dollari nell’ultima ora’. Tutto d’un tratto avevamo abbastanza soldi per fare una vera campagna”.
I Democratic Socialists of America sono stati molto attivi nel sostenere la campagna Sanders e ne hanno avuto un ritorno di visibilità enorme.
Le donazioni sono state uno dei principali indicatori del successo e dell’entusiasmo di quella campagna. Già a fine 2015 la piattaforma Sanders aveva raccolto poco meno di due milioni e mezzo di donazioni individuali: il numero più alto mai registrato nella storia di qualsiasi campagna elettorale americana, più alto anche del record di 2.2 milioni di donazioni di Obama. Il maggiore punto d’orgoglio per le organizzatrici di quella campagna e per lo stesso Sanders, che lo ripeté fino a farlo diventare un meme, è che la donazione media era di twenty-seven dollahs, da leggere con il forte accento di Brooklyn del senatore: una cifra bassissima per una campagna presidenziale americana, indicativa del fatto che il sostegno a Sanders veniva da cittadini che donavano cifre sostenibili, e non dai fondi chiamati Super PACs attraverso i quali grandi gruppi industriali, finanziari e farmaceutici versano decine di milioni di dollari nelle casse dei candidati, generando quegli enormi conflitti di interessi di cui è piena la politica statunitense.
“Il problema del Partito Democratico è che è estremamente eterogeneo. Ha un’ala imprenditoriale molto forte nella Silicon Valley, e anche Wall Street e Hollywood hanno molto peso nelle decisioni del Partito. E la verità è che l’ala progressista non avrà mai abbastanza influenza per scalzare queste lobby, a meno che i lavoratori non guadagnino capitale politico, e parlo di una vera rinascita del movimento sindacale americano”, racconta John B. Judis, scrittore statunitense e commentatore per The New Republic, The National Journal e The New York Times.
La campagna Clinton poteva in effetti contare su moltissimi di questi grandi finanziatori, e aveva un potere di spesa molto superiore a quella di Sanders. Non poteva contare, però, sull’impressionante numero di volontari che si stavano spendendo per l’elezione di Bernie Sanders. “Nessuno aveva previsto di raccogliere un’adesione così forte da parte dei giovani” dice Gautney, “Nemmeno noi sapevamo come, ma stava nascendo sotto i nostri occhi una nuova leva di sinistra”. Tra loro, una cameriera ventiseienne del Bronx, tesserata ai DSA, la cui vita stava per cambiare completamente.
Nessuno ha rappresentato quella nuova leva con la forza mediatica e l’efficacia di Alexandria Ocasio-Cortez. AOC è diventata il volto dei socialisti democratici americani due anni dopo quella campagna, quando alle elezioni di metà mandato del 2018 è riuscita a farsi eleggere come rappresentante del 14º distretto di New York strappando il seggio a Joe Crowley, uno dei più influenti membri dell’establishment del Partito Democratico, che era in carica da vent’anni consecutivi. Quella dell’elezione di AOC è una vera favola politica: vinse le elezioni distrettuali una ventinovenne del Bronx, di origini portoricane, costretta a lasciare l’università dopo la morte improvvisa del padre, costretta a lavorare come barista per evitare il pignoramento di casa sua. Sembra un feel good movie, e infatti lo è diventato: Netflix ha dedicato alla sua candidatura un documentario in cui emergono con molta chiarezza le ragioni per cui in pochi anni AOC è diventata una delle figure più in vista di tutta la politica statunitense. Ocasio-Cortez ha un carisma e un’energia che rendono difficile non simpatizzare per lei: basti guardare, in tal senso, a quella volta che durante il caso Cambridge Analytica, nel 2019, ha inchiodato alle sue responsabilità Mark Zuckerberg e lo ha fatto sembrare un bambino spaventato.
Quella dell’elezione di AOC è una vera favola politica.
Nel biennio 2018-2019 l’entusiasmo intorno alla squad era ancora forte, e Bernie Sanders si stava per ricandidare alle primarie del Partito Democratico con possibilità di vincere che sembravano ancora maggiori: era un volto più noto rispetto alla prima volta, aveva guadagnato influenza e aveva dimostrato che sapeva convogliare attorno a sé una macchina organizzativa importante. Arrivarono ancora più donazioni e addirittura più volontari: l’avanzata dell’estrema destra e dei suprematisti bianchi, che sentivano di potersi muovere nell’impunità sotto la presidenza Trump (parliamo degli anni che vanno da Charlottesville 2017 a Capitol Hill 2021), stava spingendo moltissime persone di sinistra a mobilitarsi.
Heather Gautney aveva appena pubblicato un saggio dal titolo molto esplicito: “Crashing the Party” (spaccare il partito), indicando come i tempi fossero maturi perché la corrente socialista prendesse le redini del Partito Democratico americano.
“Bernie aveva guadagnato influenza”, racconta Gautney, che all’epoca era anche Direttore Esecutivo della piattaforma Our Revolution, la cosa più simile a un partito che il movimento Sanders abbia avuto: “Basti pensare a questo: erano dieci anni che ogni anno Bernie proponeva una legge per garantire copertura sanitaria federale estesa a tutti gli americani (Medicare for All), e nessuno nel Partito Democratico l’aveva mai co-firmata. Nel 2019, sedici senatori hanno co-firmato quella legge, Kamala Harris per prima. Naturalmente, e non è una sorpresa, Harris si è rimangiata tutto e oggi sembra aver dimenticato che sosteneva Medicare For All”.
La seconda campagna
L’inizio delle Primarie Democratiche del 2020 fu molto positivo per Sanders, che vinse il voto popolare nel primo stato in palio, l’Iowa, vinse il secondo, il New Hampshire, vinse il terzo, il Nevada. Biden, che alla vigilia sembrava il candidato da battere, stava andando malissimo: sommando tutti e tre i primi stati, aveva preso meno voti di quelli che Sanders aveva preso nel solo New Hampshire. Sembrava che l’avversario liberal di Sanders potesse essere Pete Buttigieg, il giovane e preparato sindaco di South Bend, Indiana. Sembravano promettenti anche i risultati di Amy Klobuchar, senatrice moderata del Minnesota, e quelli della candidata di sinistra Elizabeth Warren, che aveva proposte molto simili a quelle di Sanders.
Le cose cominciarono a cambiare quando nel quarto stato in palio, il South Carolina, Biden andò molto bene: prese il 48.7% contro il 19.8% di Sanders. Era il primo stato del Sud e i risultati lasciavano intendere un trend preoccupante per Bernie, già intravisto nel 2016: gli elettori afroamericani, soprattutto quelli di una certa età, votavano compattamente per Joe Biden. Uno dei fattori più significativi era che associavano Biden a Obama, di cui è stato vicepresidente per due mandati. Era arrivato poi, in South Carolina, anche l’endorsement di Jim Clyburn, storico attivista per i diritti civili e politico molto influente tra gli elettori afroamericani di quello stato.
Kamala Harris oggi sembra aver dimenticato che sosteneva Medicare For All.
Anche sul tema della lotta per i diritti delle persone afroamericane, Sanders ha avuto una traiettoria molto coerente: circolarono molto, ai tempi delle primarie, le foto di un giovanissimo Bernie nella Chicago degli anni sessanta, seduto per terra alle riunioni del CORE (Congress Of Racial Equality) e arrestato a una protesta contro la segregazione scolastica nel 1963. In quello stesso anno, come ha sempre ripetuto con comprensibile orgoglio, Sanders partecipò alla grande marcia di Washington, ed era presente quando Martin Luther King pronunciò il discorso che comincia con “I have a dream”. Biden, che pure si è battuto a lungo per i diritti delle persone afroamericane, non ha una storia altrettanto integra: fecero discutere alcuni suoi vecchi interventi sulla segregazione scolastica e il suo supporto alla controversa Crime Bill del 1994.
Eppure, come già detto, la campagna Sanders non convinse del tutto gli elettori afroamericani. Una ragione semplice potrebbe essere che Sanders era l’anziano senatore di uno stato del nord, il Vermont, in cui i bianchi sono il 90% della popolazione: l’elettorato afroamericano, forse, non lo conosceva abbastanza. Un’altra ragione era che, apparentemente, il messaggio di giustizia sociale di Sanders aveva poco appeal per loro. “Se Sanders vuole conquistare gli elettori neri, un messaggio di giustizia economica non è l’opzione migliore; deve fare appello esplicitamente alla razza”, diceva un’analisi di Politico nel 2020. La stessa cosa sostiene Heather Gautney, che ha detto: “negli Stati Uniti all’antirazzismo non si accompagna mai una coscienza di classe. Come dice sempre il mio amico Adolph Reed: pensiamo di aver sconfitto il razzismo solo perché nell’1% delle persone più ricche c’è qualche nero”.
John B. Judis, però, la pensa diversamente. Va premesso che Judis conosce molto bene la demografia della politica statunitense: ha scritto insieme a Ruy Teixeira, nel 2002, “The Emerging Democratic Majority” , uno dei saggi più influenti che siano stati pubblicati in questo secolo in merito alla politica americana. Nel saggio, sosteneva che la progressiva avanzata demografica delle minoranze avrebbe sostanzialmente consegnato il Paese al Partito Democratico nei decenni successivi.
Judis dà delle difficoltà riscontrate da Sanders con l’elettorato afroamericano una lettura molto concreta: “Gli elettori neri sono pragmatici. Lo sono sempre stati in America, e lo furono anche in quell’occasione. Forse sono quelli che pagano il prezzo più alto quando vince uno come Trump, quindi si preoccupano che il candidato democratico abbia buone possibilità di vincere. E Sanders non è sembrato loro un candidato abbastanza eleggibile. Tutto qui, e credo che questo sia stato un fattore enorme sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020”.
Gli elettori neri sono pragmatici. Forse sono quelli che pagano il prezzo più alto quando vince uno come Trump, quindi si preoccupano che il candidato democratico abbia buone possibilità di vincere.
Dopo la vittoria in South Carolina (il primo momento in cui Biden è sembrato avere almeno una possibilità di competere nelle primarie) c’era l’appuntamento decisivo: il Super Tuesday, in cui si votava contemporaneamente in sedici stati. Lunedì, immediatamente prima del voto, sia Pete Buttigieg che Amy Klobuchar si ritirarono dalla corsa, annunciando che avrebbero sostenuto Joe Biden e chiedendo al loro elettorato di fare lo stesso. Non si ritirò invece la progressista Elizabeth Warren, che non vinse nessuno stato ma spezzò in due, di fatto, il voto dell’elettorato di sinistra.
Biden vinse dodici stati dei sedici in palio e la storia della seconda campagna Sanders si chiuse, virtualmente, quella notte. Non bisogna essere dei fanatici delle teorie del complotto per vedere che dietro alla “miracolosa rimonta” di Biden c’era un disegno politico mirato ad arginare e isolare l’ala sinistra del Partito.
Racconta Gautney: “Biden ha fatto malissimo nei primi stati, ma il Comitato Nazionale Democratico (DNC) sa essere molto manipolativo. Voglio dire, Pete Buttigieg non è il segretario ai trasporti perché ne capisce qualcosa di trasporti. È perché hanno fatto un accordo. Avrebbe ottenuto un posto da segretario se si fosse ritirato e avesse sostenuto Biden, ed è andata proprio così. E così, arrivato il Super Tuesday, Biden ha stravinto”. Alla fine, a quelle primarie Biden prese il 51% dei voti e Sanders si fermò al 26%. Ciononostante Sanders decise, come già detto e come ha sempre fatto nella sua carriera, di appoggiare Biden e di non spezzare l’unità del fronte elettorale che avrebbe dovuto affrontare il candidato repubblicano, il presidente uscente Donald Trump. Non tutti i suoi sostenitori ne furono contenti.
La frattura
Ed è proprio a quel momento che bisogna guardare se si vuole comprendere che la frattura non è una notizia di questi mesi. Sostenere Bernie Sanders era già, per molti militanti di sinistra e per una parte dei membri dei DSA, un compromesso. Il senatore socialista del Vermont era l’unica (e l’ultima) figura intorno a cui sarebbero potute convogliare forze così radicalmente incompatibili con l’establishment del Partito Democratico. Questa tendenza politica, riassunta molto bene dalla formula “Bernie or bust” (Bernie o niente, ovvero: non sosterremo alcun candidato democratico che non sia Sanders), era emersa con forza già nel 2016. Emerse con forza persino maggiore nel 2020, fino a una rottura definitiva: il Comitato Nazionale dei DSA si rifiutò di appoggiare Biden nell’elezione che lo avrebbe visto contrapporsi a Trump. Ripetiamolo per chiarezza: Sanders sostenne Joe Biden nel 2020 (e Hillary Clinton nel 2016, e Kamala Harris nel 2024), ma una parte già all’epoca significativa della “sinistra esterna” che aveva sostenuto la sua candidatura si rifiutò di farlo. Il saggio di Gautney pronosticava che la sinistra avrebbe “spaccato il Partito”, e successe esattamente il contrario: il Partito aveva spaccato la sinistra.
“Il nostro paese ha perso l’unico candidato presidenziale che sostiene le riforme di cui abbiamo bisogno per affrontare la pandemia di Covid” scriveva il Comitato Politico Nazionale DSA in un comunicato in cui annunciava che non avrebbe appoggiato Biden: “le differenze [di Biden] con Sanders e con la sinistra in generale non potrebbero essere più nette, come è emerso di recente dal suo impegno per bloccare Medicare for All”.
Gautney pronosticava che la sinistra avrebbe “spaccato il Partito”, e successe esattamente il contrario: il Partito aveva spaccato la sinistra.
Erano i mesi dello scoppio della Pandemia, e la questione dell’assistenza sanitaria era al centro del dibattito pubblico: “con tutto il rispetto per Medicare for All, in Italia hanno la sanità pubblica, e non funziona” aveva dichiarato Biden in un dibattito con Sanders a marzo 2020, quando l’Italia era il paese occidentale più colpito dal Covid19. Nei mesi successivi, gli Stati Uniti avrebbero sofferto oltre un milione di morti per Covid, più di qualsiasi altro Paese al mondo: “la realtà dà il suo appoggio a Bernie Sanders”, titolava un editoriale del New Yorker a fine mese. Sanders, però, dava il suo appoggio a Biden.
“So che molte persone in questo Paese non sono entusiaste di Biden per una serie di ragioni, lo capisco. E sono fortemente in disaccordo con lui, soprattutto su ciò che sta accadendo a Gaza”, ha dichiarato Sanders in un’intervista rilasciata ad AP lo scorso maggio. La conclusione di quell’intervista a Sanders del 2024 è perfettamente sovrapponibile a quelle del 2020: se l’alternativa è Trump, bisogna fare fronte comune, nella speranza di riuscire a riformare il Partito dall’interno. Cosa che oltretutto, secondo molti, Bernie ha già fatto con successo.
“Io non penso che le due campagne Sanders siano state inutili” dice Arash Azizi, membro del DSA, giornalista e storico contemporaneo esperto in movimenti di sinistra, nonché firma del New York Times, del Washington Post, di Haaretz e di Jacobin: “Che cosa ne ha ricavato? Innanzitutto, ha contribuito a rinvigorire l’adesione al DSA. L’ha trasformata in un’organizzazione di decine di migliaia di persone. Sfortunatamente, poi, l’organizzazione è stata sabotata da un gruppo di estremisti, e di questo possiamo parlare. Ma la seconda cosa che ha fatto è stata riscrivere gran parte del manifesto del Partito Democratico. Voglio dire, l’amministrazione Biden, almeno prima di Gaza, è stata la più progressista degli ultimi decenni. E non è perché Biden ha cambiato idea. È perché Bernie Sanders ha mostrato potere politico e ha fatto pesare la sua influenza”.
I DSA e la “sinistra esterna”, però, dopo il 2020 non hanno mai più avuto fiducia nella possibilità di influenzare dall’interno il Partito Democratico, anzi. La spaccatura tra loro e la “sinistra interna” non ha fatto che allargarsi: basta leggere la dichiarazione durissima che il National Political Committee dei DSA ha rilasciato in seguito al ritiro di Biden nel Luglio 2024, in cui lo definiscono: “un guerrafondario complice del genocidio” e “una marionetta delle multinazionali, un nemico degli immigrati, dell’ambiente e della classe operaia”. Il tutto mentre, come dicevamo all’inizio, Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez difendevano la candidatura Biden fino all’ultimo giorno, da soli contro tutti. Se si apre la home page del sito dei Democratic Socialists of America, si trova ancora scritto: “Bernie Sanders ha cominciato una rivoluzione politica e i DSA continuano a costruirla”, “ma senza Bernie Sanders”, si potrebbe aggiungere alla fine della frase. E, da alcuni mesi, senza Alexandria Ocasio-Cortez. A prima vista sembra incredibile che, lo scorso Maggio, dopo settimane di dibattito interno, il Comitato Nazionale dei Democratic Socialists of America abbia annunciato che avrebbe ritirato il suo sostegno ad Alexandria Ocasio-Cortez. Ma anche questa, in fondo, non è una sorpresa: Gaza stava mostrando che quello strappo, che già esisteva, non si poteva più ricucire.
I DSA e la “sinistra esterna” dopo il 2020 non hanno mai più avuto fiducia nella possibilità di influenzare dall’interno il Partito Democratico, anzi.
Chi ha un po’ di orecchio per il lessico politico avrà notato qualcosa di strano nella dichiarazione dei DSA sul ritiro di Biden, quella in cui lo chiamano “marionetta delle multinazionali”: non sono le parole che ci si aspetterebbe da un’organizzazione socialdemocratica. Somigliano molto di più alle parole d’ordine di un gruppo comunista, e questo è un altro elemento importante di questa storia. Se la “sinistra interna” si è spostata verso il centro, i DSA si sono spostati verso sinistra: le gerarchie interne al Comitato Politico Nazionale sono molto cambiate dal 2016, e oggi sono le correnti legate al marxismo ortodosso (il Caucus Stella Rossa, il Caucus Pane e Rose, il gruppo di Unità Marxista) ad avere la maggioranza nel comitato. Sono quelli che Arash Azizi chiamava “estremisti”. Per capirci, quelli del Caucus Stella Rossa si rifiutano di condannare Hamas, niente di più lontano dalle posizioni di Sanders e da quelle di Ocasio-Cortez, che condannarono i fatti del 7 ottobre da subito e senza esitazione.
Se le posizioni dei caucus marxisti dei DSA possono sembrare radicali al lettore europeo, serve uno sforzo ulteriore per comprendere che suonano come vere e proprie bestemmie negli ambienti della molto più moderata sinistra statunitense. Dopo il 7 Ottobre, molti membri storici dei DSA hanno lasciato l’organizzazione: “Nella sua incapacità di dimostrare empatia per le vittime di Hamas, il DSA ha fallito un elementare test di solidarietà”, hanno scritto i membri uscenti in una lettera aperta, in cui hanno anche accusato i caucus marxisti di “entrismo”: un termine che, nel lessico della sinistra, definisce la pratica di piccoli gruppi di “sabotatori”, gerarchici e organizzati, che penetrano organismi più grandi e meno strutturati per distruggerli dall’interno o per piegarli verso posizioni ideologiche molto diverse da quelle originarie.
Anche John B. Judis ha lasciato i DSA: “Sono molto deluso dall’organizzazione. E fai conto che sono stato uno dei fondatori, uno dei primi membri del New American Movement che nel 1982 ha dato vita ai DSA. Ma sono completamente usciti dai binari, non hanno strategia elettorale, sostengono posizioni antagoniste che spaventano e alienano i lavoratori americani. Penso che siano completamente fuori strada. Ma non da qualche mese, da anni: voglio dire, non hanno appoggiato Biden nel 2020. Non si può non fare fronte comune di fronte alla possibilità concreta che Trump venga rieletto”.
Chicago e Gaza, dentro e fuori
Il 20 Agosto, un mese dopo il ritiro di Biden e nel pieno della Convention del Partito Democratico a Chicago, lo stesso Francesco Costa dava della postura politica di AOC una diversa lettura, stavolta molto più sfumata: “Alexandria Ocasio-Cortez, deputata eletta a New York, appartiene alla corrente più di sinistra dei Democratici, e nella sua ascesa ha spesso criticato l’establishment del partito, tenendo un piede dentro e uno fuori: in questi anni è diventata una sorta di figura-ponte”. Quello che viene criticato da sinistra ad AOC è precisamente questo: il suo avere provato a tenere un piede in due scarpe per anni. Ed è interessante che nel comunicato con cui i DSA ritiravano il loro sostegno alla deputata del Bronx troviamo la stessa immagine del ponte che ha usato Costa: si intitolava proprio “sostenere Alexandria Ocasio-Cortez è un ponte verso il nulla”.
“Lavoro con lui dal 2012, e posso dire che a Bernie non è mai importato nulla di farsi degli amici. È sempre stato molto integro, e difatti era ugualmente antipatico all’establishment di entrambi i partiti”, racconta Heather Gautney: “Ocasio invece… è un po’ più una player. La stimo e sono felice che sia arrivata dov’è arrivata, ma non è Sanders, e non credo che ne sarà l’erede politica”.
Se la “sinistra interna” si è spostata verso il centro, i DSA si sono spostati verso sinistra.
La prova definitiva, se ancora ne servisse una, che Ocasio-Cortez non è la voce della sinistra radicale è stato il suo discorso in sostegno alla candidatura di Kamala Harris durante il Congresso Democratico di Chicago: AOC è stata non solo “presentabile”, ma addirittura presidenziale, con tutto quello che la parola comporta: energica e carismatica, ma molto moderata. Accolta tra le acclamazioni della Convention, le sue parole non erano mai sembrate così allineate al lessico dell’establishment democratico. Certo, la Convention non è lo spazio in cui devono emergere i conflitti interni, ma nel discorso di AOC, che si apre con un ringraziamento a Biden, la deputata dice che bisogna sostenere Harris che “conosce la classe media perché viene dalla classe media”. Bastano dieci minuti di visione del documentario di Netflix di cui si parlava sopra per accorgersi che, qualche anno fa, avrebbe detto working class al posto di middle class. Quelli del Red Star Caucus saranno anche estremisti, settari e tutto il resto, ma questa non è una differenza da poco. Ocasio-Cortez nomina Gaza una volta sola, una decina di parole in tutto, questionabili nella forma e nel contenuto: un ringraziamento a Kamala Harris che sta “lavorando senza sosta per ottenere un cessate il fuoco a Gaza e riportare a casa gli ostaggi”.
Non è mai stato così chiaro, così letterale come durante la Convention di Chicago chi è un “insider” e chi è un “outsider”, chi è interno e chi è esterno: gli “insider” erano letteralmente “inside”, mentre gli outsider erano letteralmente “outside”, fuori dal palazzetto della Convention, in una grande marcia di protesta a sostegno della popolazione palestinese e contro il governo Biden, che solo una settimana prima aveva approvato la vendita di altri venti miliardi di dollari di armamenti a Israele.
E questa volta il dentro e il fuori non erano vasi comunicanti o sottoinsiemi fluidi, come lo sono stati in varie situazioni analizzate in questo articolo. I DSA erano fuori in protesta, insieme a tante altre formazioni della sinistra esterna, alla sezione di Chicago di Black Lives Matter e al sindacato dei lavoratori di Starbucks. Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders, invece, erano dentro.
A dividere il dentro e il fuori, c’erano i cordoni della polizia.
Una cosa va detta: la marcia di Chicago della sinistra esterna è stata un insuccesso. Ci si aspettava quaranta, cinquanta, addirittura centomila manifestanti: erano poco più di diecimila. Nel rompere i legami con i suoi rappresentanti di spicco all’interno del Congresso e del Senato senza prima avere sviluppato una controproposta solida, di piattaforma e di leadership, la sinistra esterna si è condannata all’irrilevanza politica. Fa effetto rileggere, a Convention finita, l’intervista che Elisabetta Raimondi ha fatto lo scorso giugno a Joseph Geevarghese, direttore esecutivo di Our Revolution, su Jacobin Italia: “se migliaia di contestatori fossero scesi in strada, se avessimo preso il controllo dei college e delle università, penso che saremmo riusciti (…) Quindi la responsabilità non va caricata solo su Bernie e gli altri, ma sul movimento”, diceva Geevarghese, pronosticando con precisione quello che sarebbe successo di lì a un paio di mesi alla marcia di protesta a favore della popolazione di Gaza che si è tenuta fuori dalla Convention. L’articolo aveva un titolo curioso: “Serve un nuovo Sanders”, come se Bernie fosse passato a miglior vita. Non serve un nuovo Sanders. Quello vecchio è ancora lì in Senato, a dire le stesse cose che dice da quarant’anni (e l’autore dell’articolo gliene augura altri quaranta). Servirebbe, semmai, un nuovo movimento Sanders, capace di ritrovare la compattezza propositiva che aveva, ma quella è un’altra storia.
In una chiacchierata di alcuni mesi fa, Arash Azizi ha dato sul movimento pro-Palestina negli Stati Uniti un giudizio molto duro: “Penso che ciò che abbiamo visto dal 7 ottobre sia stata una vera prova di immaturità politica per la sinistra. Se il movimento si fosse concentrato su obiettivi pragmatici e raggiungibili, come riconoscimento da parte degli Stati Uniti di uno Stato palestinese, magari avrebbe raggiunto dei risultati. Ma se lo slogan continua a essere “Decolonizzare la Palestina dal fiume al mare”, dove si spera di arrivare? Non è questione di quanto è estremo, il problema è che a livello di policy non significa nulla”.
Non è mai stato così chiaro, così letterale come durante la Convention di Chicago chi è un “insider” e chi è un “outsider”, chi è interno e chi è esterno. A dividere il dentro e il fuori, c’erano i cordoni della polizia.
Ma è davvero così? Ci sarebbe stato spazio all’interno dell’establishment democratico se le proposte fossero state diverse, o se fossero state poste in un altro modo? Fuori dalla Convention democratica sono rimasti anche i “Democrats for Palestinian Rights”, guidati dal politico palestinese-americano Abbas Alawieh, già membro dello staff di due figure molto in vista della squad (Cori Bush e Rashida Tlaib). A loro, nonostante le richieste assolutamente pacifiche, è stato negato il diritto di parlare dal palco della Convention.
“Sanders ha dimostrato nel 2016 che i progressisti sono una forza con cui fare i conti, e credo che questo sia il motivo per cui Biden ha finito per tendere la mano alla sinistra” conclude Heather Gautney: “il Partito Democratico aveva bisogno dei loro voti e ne avrà di nuovo bisogno nel 2024. Ma non sono sicura che questa volta li otterrà”. E il perché appare piuttosto chiaro.