E ra tempo che qualcuno mettesse ordine nel vasto multiverso della Bruceploitation. Ci ha pensato David Gregory con Enter the Clones of Bruce. La prima italiana è stata al Far East Film Festival di Udine, seguita da un passaggio al Milleocchi di Trieste, un festival di cinema unico nel suo genere: intriso di cinefilia post-ghezziana e capace di alternare cinema sperimentale a documentari ambiziosi proprio come quello di Gregory, mai dogmatico o pedante, che ha il dono raro di informare e intrattenere su uno dei grandi fraintendimenti della storia del cinema. Se la breve vita di Bruce Lee produsse pochi film, immediatamente assurti a mito collettivo e generazionale, forse non tutti sanno che gli anni successivi alla morte furono caratterizzati da una pletora di uscite “farlocche”, tentativi goffi ma talvolta efficaci di sfruttare la fama di Bruce con gli espedienti più abietti. I protagonisti di queste pellicole mettevano da parte ogni dignità per trasformarsi in emuli di Bruce: stessi occhiali da sole, stessa capigliatura, stessi urletti e gesti rituali. La mimesi si spingeva fino al nome – Ho Chung-tao diventava Bruce Li, Huang Kin-lung Bruce Le – per attirare gli allocchi verso la patacca. Nel caso di Dragon Lee si ricorse addirittura a un attore sudcoreano, contando sul razzismo dello spettatore medio occidentale, non avvezzo a simili distinguo. Assistendo alle interviste agli eroici “finti Bruce” in Enter the Clones of Bruce, pare incredibile che si potessero scambiare con l’originale, ma come il documentario non lesina a evidenziare, per il pubblico occidentale un “orientale” era un “orientale”, fine della storia.
Gli anni successivi alla morte furono caratterizzati da una pletora di uscite “farlocche”, tentativi di sfruttare la fama di Bruce Lee con gli espedienti più abietti.
Al cinema, la lenta e graduale comprensione occidentale della specificità cinese – e in modo particolare hongkonghese – muove i primi passi proprio col successo di Bruce Lee. Prima di Bruce era impensabile che in un film hollywoodiano il ruolo di un “orientale” andasse oltre quello del guidatore di risciò o del soldato giapponese pronto a farsi eliminare. Dopo Bruce tutto cambia: un cinese può essere rispettato e temuto. O addirittura desiderato da lascive ragazze occidentali, come oggetto sessuale. Hong Kong stessa diventa un punto concreto sulla cartina geografica, collocabile e identificabile, anziché una misteriosa città da qualche parte nel sud della Cina ma sotto il controllo degli inglesi.
E il parallelo tra l’identità spuria e apolide di Hong Kong e quella di Bruce Lee è davvero suggestivo. Come Hong Kong non fu mai Cina né Regno Unito, bensì un villaggio di pescatori sorto durante il periodo coloniale e cresciuto fino a divenire metropoli a sé in territorio cinese, così Lee nacque negli Stati Uniti e lì iniziò una difficile gavetta, prima di approdare a Hong Kong e divenire in breve tempo una star. Là dove aveva appreso lo stile wing chun dal maestro Ip Man (altra icona, con una chilometrica storia di trasposizioni cinematografiche), poi rigettato per fondare il violento jeet kune doo, Bruce ebbe modo di sfoggiare la sicumera del divo, rigettando da subito le offerte di una Shaw Brothers intenzionata a fare di lui un numero, uno come tanti. L’assai più modesta Golden Harvest fiutò quindi l’affare e costruì una produzione su Bruce, The Big Boss (Il furore della Cina colpisce ancora, 1971), dando il via a un fenomeno di enormi e imprevedibili proporzioni. Per inciso, sulla percezione occidentale di Bruce Lee sarebbe interessante approfondire la curiosa appendice di C’era una volta… a Hollywood, in cui Quentin Tarantino profana il sacro altare del mito di Bruce, mettendolo in scena come un bullo gradasso, gonfiato di botte e umiliato dal personaggio interpretato da Brad Pitt. Atto iconoclasta e per nulla gradito dalla legacy del Piccolo Drago, spiazzante perché proveniente dal regista che aveva così sinceramente omaggiato il nostro in Kill Bill.
Al cinema, la lenta omprensione occidentale della specificità cinese – e in modo particolare hongkonghese – muove i primi passi proprio col successo di Bruce Lee.
La materia dell’indagine di Gregory può apparire vile, come lo è frugare negli scatoloni di un centro commerciale in cerca di nefandezze, ma è spesso nella materia volgare che si nascondono le pepite d’oro, assai più che in quello che ci propina il mainstream di Hollywood. Perché l’assurda storia, mai del tutto terminata, dello sfruttamento commerciale della figura di Bruce Lee, ci insegna molto sulle meccaniche del consumismo, ancora ingenue e spericolate negli anni ’70, assai più standardizzate e prevedibili nel terzo millennio.
Su tutt’altro versante, ad esempio, è da poco uscita un’antologia di materiale postumo di Jimi Hendrix che si suppone “definitiva”. È quasi mezzo secolo che questa tiritera va avanti e che deve uscire l’album “definitivo”, riassemblando in continuazione le medesime canzoni, e probabilmente sarà così anche per i decenni a venire, contro ogni logica e buon senso. Apparentemente Hendrix e Lee hanno ben poco in comune (a differenza di Jimi e Morgan Freeman, come recita una delle più deliziose leggende metropolitane del web), ma la necessità di prolungare artificialmente le esistenze dei miti è parimenti ingombrante ed estenuante. Specialmente quando la loro carriera è breve e lo sfruttamento commerciale della stessa ha generato troppo poco plusvalore. Nel caso del fondatore del jeet kune doo, i film autentici in cui è protagonista Lee escono nell’arco di tre anni (1971-1973) e si contano sulle dita di una singola mano: The Big Boss, Fist of Fury, Way of the Dragon e Enter the Dragon – da noi tradotti rispettivamente, con rimescolamento cronologico e approssimazioni varie, come Il furore della Cina colpisce ancora, Dalla Cina con furore, L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente e I 3 dell’Operazione Drago.
Una forma di consumismo deteriore, che non è pago finché il mercato non è saturo.
Il resto è assemblaggio ai limiti della legalità di materiale postumo o purissimo sfruttamento del brand, attraverso espedienti spesso risibili, giudiziosamente enumerati dal documentario di Gregory. Una pratica iniziata con il Piccolo Drago ancora in vita, quando un film, Fist of Unicorn (Il vendicatore dalle mani d’acciaio, 1973), in cui Lee diede un contributo minimo alle coreografie, uscì come diretto da Bruce, che si incazzò non poco. E poi proseguita con il semi-ufficiale Game of Death (L’ultimo combattimento di Chen, 1978), quello del mitologico duello con Kareem Abdul-Jabbar, che riprende meno di mezz’ora inedita di sequenze girate da Lee e dilata il tutto con ogni mezzo, utilizzando controfigure e sfruttando biecamente le immagini reali del funerale di Lee. In barba all’etica, la foto di Bruce Lee sdraiato nella bara diventerà ricorrente nelle locandine Bruceploitation, introducendo sistematicamente un tema di vendetta: una mescolanza di piano diegetico ed extradiegetico con effetto cringe, mirato a scioccare i fan.
I finti Bruce Lee andranno persino all’inferno come Totò, in The Dragon Lives Again (1977), a combattere contro Dracula, zombie, Braccio di Ferro e Stanlio e Ollio (!). I sequel di The Big Boss sono almeno tre e tutti rigorosamente apocrifi. Addirittura, in The Clones of Bruce Lee (Bruce Lee – il volto della vendetta, 1980) ha luogo la clonazione di Bruce, così da poter permettere di agire sullo schermo insieme a Dragon Lee, Bruce Li e Bruce Thai (variante tailandese di un finto Bruce). E così via, fino a un Bruce Lee vs Superman (Bruce Lee contro i supermen, 1975) che nel titolo dice già tutto. A fronte di pochissimi film autentici, sul cui valore artistico ci sarebbe molto da dire, prolifera una pletora di fake, per mungere la vacca del Piccolo Drago fino all’unica fine possibile di una moda. Ossia l’inizio di una nuova tendenza.
Negli anni ‘80 proprio la Golden Harvest che aveva reso celebre Lee spinge due nuovi pupilli, il diversamente magro Sammo Hung e il clownesco Jackie Chan. Dopo un inizio da Bruceploitation con un minimo di pretese in più – Sammo in Enter the Fat Dragon (1978) e Jackie in New Fist of Fury (Il ritorno di palma d’acciaio, 1976) – i due acquisiscono statura autonoma e personalità che li porteranno a realizzare film migliori di quelli di Lee. In particolare, è Jackie Chan a ottenere un successo enorme con Drunken Master (1978) e con The Young Master (Il ventaglio bianco, 1980), introducendo l’elemento comico e circense nel gong fu pian, che supera la seriosità e la tendenza al grand guignol dell’era Lee. Improvvisamente la Bruceploitation si sgonfia, per divenire curiosità per completisti e amanti del trash. Ma dietro al risibile fenomeno si cela una suggestiva riflessione, in qualche modo anticipatrice dei tempi in cui viviamo, incatenati dalla nostalgia del passato e dalla coazione a riprodurre il mito sotto forma di sequel e prequel posticci, che tutto devono raccontare e nulla lasciano all’immaginazione. Una forma di consumismo deteriore, che non è pago finché il mercato non è saturo. E chissà che la retromania non porti un giorno a retrospettive e rivalutazioni pure delle gesta di Bruce Li o Bruce Le.