“I o volevo parlarti del sentimento che qualche volta ho di essere io stesso Pianta, una Pianta che pensa, ma non distingue i suoi diversi poteri, la forma delle sue forze e la sua posizione dal suo luogo”. In quel breve componimento pastorale che è il Dialogo dell’albero (1943), Paul Valery ci presenta la vita delle piante in una prospettiva inusuale. Seguendo le parole di Lucrezio a Titiro, infatti, le piante pensano, meditano (“si quelqu’un médite au monde, c’est la Plante”), ma non in modo semplicemente passivo. Secondo il Lucrezio del dialogo, le piante non sono un semplice oggetto che riceve la vita, ma uno strano incrocio di pulsioni vitali. Detto in altri termini, le piante vivono attivamente, e in questo senso non sono oggetti, ma protagoniste del regno vivente. Di più, sono costruttrici della natura.
L’intuizione di questo dialogo rivela una tesi inconsueta. Solitamente siamo portati a considerare le piante come cose o meri oggetti a nostro uso e consumo: nel dibattito pubblico in televisione e sui giornali prevale quest’idea. Lo pensano anche i nostri politici più illuminati, quelli cioè che vogliono aumentare in qualche modo il verde urbano e usano le piante come oggetti per abbellire le città, per rinfrescare i quartieri, per colorare il grigio del cemento, o anche per trasformare in ossigeno l’anidride carbonica che produciamo. Non c’è dubbio che questi aspetti siano importanti in sé, e certamente decisivi per vivere in città migliori. Tuttavia, vi è un punto problematico: queste concezioni si nutrono dello stereotipo delle piante come oggetti a nostra disposizione, come se bastasse piantare un albero per ridurre la CO2 nell’ambiente, in una continua contrapposizione tra la città, il giardino (spesso cementificato) e il bosco, ovvero lo spazio “altro” dalla città.
Non è così, e liberarsi di questo stereotipo, così come ristrutturare la distanza tra città e natura/bosco è un passaggio necessario, ancora lontano dall’essere compiuto. In una prospettiva ecologica vera e propria non basta piantare nuovi alberi per risolvere la crisi climatica o per migliorare la qualità dell’aria, anche se certamente aiuta. La realtà della natura è di fatto più complessa e le piante non sono semplici oggetti da utilizzare, sfruttare e spostare a piacimento, a nostro uso e consumo, perché la natura stessa non lo è. Occorre abbandonare questa concezione e costruire una prospettiva diversa, e per farlo è necessario partire da un aspetto preciso: se le piante non sono oggetti, allora sono soggetti della natura, e in quanto tali vanno considerate. Per comprendere questo aspetto, come indicano i personaggi del dialogo di Valery, occorre ri-comprendere che cosa è un albero e che cosa caratterizza la vita vegetale, in una prospettiva che rimetta al centro della natura le piante in loro stesse in quanto soggetti.
Secondo Lucrezio le piante non sono un semplice oggetto che riceve passivamente la vita, ma uno strano incrocio di pulsioni attive.
Da questo punto di vista, negli ultimi decenni schiere di scienziati hanno cominciato a lavorare con più attenzione a ridefinire le attività vegetali, cercando di stabilire, attraverso esperimenti in laboratorio e trials, alcuni aspetti dell’enorme complessità della vita delle piante, che è spesso irriducibile alla definizione antropocentrica della vita. La concezione antropocentrica della natura contiene infatti una serie di conseguenze logiche problematiche e sbagliate, a partire dalla convinzione che l’essere umano sia padrone e dominatore della natura. Se questa convinzione si è formata completamente tra il Rinascimento e il Seicento, ha acquisito una valenza etica, sociale, politica ed economica solo con la logica di sfruttamento capitalistico, che ha fatto della natura un oggetto per il nostro benessere. Questa logica riguarda non solo le regole economiche ma anche quelle ambientali, perché ha portato a compimento la rottura del rapporto tra essere umano e resto della natura, facendo del primo il dominatore della seconda, e la seconda l’oggetto a disposizione del primo.
Ma c’è di più. Per esempio, all’interno di questa prospettiva, la distinzione tra ambiente e paesaggio, cioè tra natura incontaminata e natura trasformata dagli umani, è venuta meno, perché tutta la natura è al servizio dell’essere umano e questi può costruire (o anche “creare”) la natura da sé. In questa visione, l’idea dominante è che le piante non sono altro che oggetti nelle mani dell’essere umano, e non esseri viventi in loro stessi, allo stesso modo in cui gli animali sono solamente corpi da sfruttare in laboratorio o negli allevamenti intensivi. Rimettere al centro della natura le piante per rovesciare questa prospettiva è anche un modo per ripensare l’ecologia: secondo numerosi studiosi, il passaggio necessario per edificare una nuova coscienza ambientale è proprio quello di comprendere meglio in che cosa consiste la vita delle piante.
L’interpretazione della vita delle piante intreccia però almeno tre discorsi diversi, in primo luogo quello scientifico relativo al comportamento delle piante. Poi quello filosofico della definizione delle piante come soggetto autonomo, come indicato per esempio da Francis Hallé nel suo In difesa dell’albero (2022). Infine quello etico, che riguarda la costruzione di una società nuova e di un ambiente in cui l’essere umano non sia all’apice della piramide, padrone e dominatore di una natura da sfruttare in modo illimitato. Questi tre discorsi devono essere collegati tra di loro, perché a partire dalla consapevolezza della vita delle piante è possibile ripensare le ragioni ecologiche e ambientali in modo più adeguato alla realtà delle cose.
Aristotele restringe la vita delle piante a mera stanzialità, di fatto non diversa dalla fissità minerale.
Come si diceva, occorre cambiare prospettiva sulla vita delle piante, cioè sul rapporto tra piante ed esseri viventi, che non è finalizzato alla sola vita degli esseri umani. È pertanto cruciale abbandonare la prospettiva antropocentrica che regola l’analogia pianta-animale, utilizzata dagli scienziati fin dall’antichità per spiegare le funzioni vegetali, dalla sensazione all’intelligenza delle piante, passando per la sessualità vegetale. Questa riduzione antropomorfica non rende merito della diversità delle piante stesse, perché continua a reificarle. La via da percorrere è quella di considerare la radicale alterità delle piante rispetto alla vita animale, espandendo al regno vegetale la riflessione filosofica di Jacques Derrida sul concetto di alterità presente ne L’animale che dunque non sono (2002). Sulla scia della denuncia derridiana dell’uso delle metafore animali per descrivere esseri umani stupidi o folli (la radice della parola francese bêtise è bête, “bestia”), Derrita applica questa stessa lettura al caso delle piante. Commentando il famoso passo della metafisica di Aristotele in cui il filosofo greco aveva paragonato quell’essere umano che rifiuta di ragionare e che non rispetta i fondamenti logici a una mera pianta, Derrida rileva la prospettiva antropomorfa nell’interpretazione aristotelica della vita vegetale come minoritaria.
Nella sua costruzione metafisica, Aristotele aveva attribuito un rilievo ontologico all’interpretazione antica, ravvivata da Platone, della metafora dell’uomo come albero rovesciato, che permane fino all’Ottocento. Se ancora in Platone, come ribadisce Luciana Repici nel suo Uomini capovolti (2000), questa metafora ha una valenza identitaria, che rivela cioè l’identità di tutta la natura, sulla scia di Aristotele l’analogia animale-pianta è utilizzata per ridurre o diminuire in senso deteriore le facoltà delle piante. Aristotele pone pertanto una distinzione fondamentale tra piante (natura) e esseri animali (umani e non umani), là dove i presocratici individuavano una continuità di tutta la natura, e lo fa restringendo la vita delle piante a mera stanzialità, di fatto non diversa dalla fissità minerale. Le piante vegetano, cioè stanno fisse e per questo hanno meno vita. Aristotele fonda una metafisica della distinzione e della separazione, che si muove nella direzione cristiana dell’uomo padrone e dominatore della natura stessa.
Se questa linea interpretativa di una differenza tra piante e animali è dominante nel corso dei secoli, e costruisce una metafisica della natura sulla distinzione e separazione tra i regni al cui apice della scala naturale sta l’essere umano, l’idea presocratica di una unità tra animali e piante resta sottotraccia nella cultura europea. Nel corso del Rinascimento, diversi autori ripetono l’interpretazione platonica delle piante come uomini capovolti, sottolineando un’unitarietà vitale e naturale che la distinzione aristotelico-scolastica aveva distrutto. In molti casi, si pensi alla teoria delle segnature secondo cui la somiglianza tra un vegetale e una parte del corpo animale indicherebbe un legame terapeutico tra i due corpi, questa identità si mantiene però ridotta agli usi più o meno segreti delle piante, che sono ancora considerate meri oggetti da sfruttare.
L’idea presocratica di un’unità tra animali e piante è rimasta a lungo sottotraccia nella cultura europea.
Alcuni autori del Seicento, tra cui il filosofo britannico Francis Bacon, il filosofo e botanico francese Guy de La Brosse, il medico inglese Nehemiah Grew e l’anatomista italiano Marcello Malpighi, per fare alcuni esempi, hanno cercato di studiare le piante come esseri a sé, senza seguire una antropomorfizzazione delle facoltà vegetali. Il tentativo di questi autori è stato quello di ristabilire, accanto alla complessità della vita vegetale, l’unità e la mescolanza tra le diverse forme naturali, ricostruendo un’unità della natura e studiando le piante in loro stesse. Più recentemente, l’indagine scientifica si è intrecciata con la comprensione filosofica dell’identità e della radicale differenza delle piante, cioè con la definizione dell’alterità della vita delle piante. Questa radicale differenza, mostra una prospettiva che è cruciale per ogni premura ambientale, perché le piante sono unite al mondo, cioè alla natura, lo costruiscono e decostruiscono in una unità fondamentale: “this is a blue planet, but a green world”, ha scritto il botanico Karl Niklas. La scienza delle piante è una scienza del legame elementare tra vita e natura e la costruzione di quest’ultima, cioè la costruzione dell’ambiente. Dentro questa unità, infatti, stanno non solo tutte le piante e la natura, ma anche gli animali umani e non umani. Ed è proprio questa unità, o questa mescolanza, a permettere di comprendere che cosa è il mondo e come agire eticamente in esso.
L’alterità e la complessità della vita delle piante è al centro di Essere una quercia (2021) di Laurent Tillon, che descrive tale complessità dalla prospettiva della pianta e del bosco. L’autore, biologo e ingegnere forestale, non si accontenta infatti di individuare una relazione particolare con una pianta specifica, cosa che magari può essere un’esperienza comune per ogni appassionato di piante, ma ripercorre la storia di una quercia attraverso i momenti fondamentali della sua vita, dal 1780 ai giorni nostri. Nel preambolo introduttivo, Tillon scrive che se ci fermiamo a guardare gli alberi con la dovuta attenzione, “se li osserviamo attentamente, se esaminiamo ognuna delle loro reazioni di fronte ai diversi problemi che devono affrontare, ci rendiamo conto che le piante mostrano una capacità di adattamento straordinaria, impossibile da comprendere con il nostro sguardo animale”.
È proprio in risposta alla nostra miopia che l’autore cerca di entrare “nell’epidermide” della pianta e acquisire piena coscienza di ciò che veramente è un albero. Il discorso è pre-scientifico, e si fonda sulla logica della relazione: non serve, secondo Tillon, possedere una conoscenza scientifica di come vivono le piante, è invece necessario “andare in una foresta” e “appoggiarsi a un tronco”, “sentire un legame profondo con la pianta”, “lasciarsi inebriare dai ritmi della natura”, la cosiddetta musica delle piante, e “ammirare l’albero”. Per rispondere alla domanda “che cos’è un albero?”, o che cos’è una pianta, serve anzitutto entrare in contatto con queste forme di vita. La prospettiva è metafisica, nel senso che precede la fisica: si parla di “essere” pianta e si parla di esserci, ovvero di un incontro, di un contatto, di una relazione o mescolanza.
Tillon parla di ‘essere pianta’ e parla di ‘esserci’, ovvero di un incontro, di un contatto, di una relazione o mescolanza.
Attraverso le fasi dell’essere della pianta, a partire dalla vita di una ghianda del 1780, il libro svela la relazione di una quercia con l’ambiente che le sta attorno, le modalità in cui la pianta, assieme alle altre, costruisce l’ambiente e la natura. Ma non solo, perché a partire dalla ghianda si instaurano innumerevoli relazioni tra piante e animali, e infine con gli esseri umani. La prospettiva, dunque, si amplia, perché la vita delle piante non è una vita isolata, ma è una vita di relazioni con gli altri corpi: la pianta è attaccata nel terreno, e ha una relazione con i minerali e la terra, dà spazio a funghi, muschio, galle e altri corpi viventi che le crescono sopra, ed è una fonte di vita per gli animali e l’uomo. Tuttavia, il ruolo di quest’ultimo è più profondo. Attraverso l’uso della tecnologia, gli esseri umani trasformano il paesaggio, “per beneficiare di ogni prodotto offerto dalla natura […]” e in particolare della produzione di legname, cioè si inseriscono nell’unità tra piante e animali, trasformando la natura stessa.
Se questo è un aspetto ormai accettato a livello culturale, non ci dobbiamo accontentare. Partendo dalla recente riflessione filosofica sulla definizione di vita vegetale, e sulla linea dell’alterità tra regno vegetale e animale, Tillon offre una prospettiva inedita, mettendo al centro del mondo le piante stesse, ristabilendo un ordine naturale proprio e permettendo di sviluppare una scienza della vita vegetale coerente. Nei vari capitoli sulla vita della quercia, e a partire dall’essere e dalla vita di una pianta presa in se stessa, emerge una metafisica della mescolanza, in cui le piante diventano il punto privilegiato per osservare la natura nella sua complessità, come una trama di relazioni sotterranee e sopra la superficie che si sviluppano al di là della ragione.
In questo senso, la centralità dell’umano o l’idea che sia l’apice della scala naturale viene drammaticamente meno, perché anche l’essere umano è all’interno di una relazione con la natura che è necessario costruire non come mero sfruttamento dell’uno sull’altra sulla, ma come scambio e reciprocità. Così, studiare le piante all’interno di questa prospettiva “plantocentrica” permette di comprendere in modo diverso l’ambiente, inteso non più come semplice costruzione dell’umano, bensì come interrelazione tra uomo e natura. Acquistare questa consapevolezza ha una forte importanza ecologica ed etica, ed è cruciale non solo per i biologi o i botanici, ma per tutti noi, a cominciare dalle scelte green della politica che puntano a rivedere il rapporto città/giardino e città/bosco non più come mera alterità. Altrimenti la natura rimane qualcosa d’altro, che può anche curarci, ma che non fa davvero parte della vita degli esseri umani.