S ono passati centosettant’anni dalla nascita di Wilde, e si sente, ora più che mai, il bisogno di tornare sugli intrecci sempre attuali tra la sua opera e la sua vita. Credo però che dobbiamo farlo con occhi nuovi, e con stupore. Per riscoprire qualcosa di inatteso.
Richard Ellmann, suo biografo, questo disse dell’irlandese: “il fatto che fosse una persona dolcissima non è poi così noto… Oscar Wilde è uno di noi”. Sono parole che fanno pensare, perché attorno alla figura di Wilde, o meglio, di Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde, per citare il suo nome per intero (chiaro ammiccamento alle radici celtiche) aleggiano ancora troppi equivoci e fraintendimenti. L’immagine del dandy, dell’esteta puro, dell’uomo che intende fare della propria vita un’opera d’arte, del Dorian Gray, in definitiva, ha oscurato tanti aspetti più importanti della sua figura. La sua “dolcezza” di padre, ad esempio, di marito e compagno come dice Ellmann, e poi il fatto di essere uno scrittore popolare nel senso migliore del termine (basterebbe leggere il suo “L’anima dell’uomo sotto il socialismo” per capirlo). Ma soprattutto, credo che sia necessario ritornare a un aspetto di cui si parla pochissimo: la sua indubbia “irlandesità”.
I successi di Wilde lontano dalla nazione d’origine, l’Irlanda – che nazione allora non era, in quanto parte integrante del Regno Unito, e che nazione ancora è solo in parte, se è vero che il Nord dell’Isola è ancora oggi una colonia occupata, una colonia in Europa – tendono a dare l’impressione che Wilde possa esser inserito a pieno titolo in quella cultura britannica e tardo vittoriana che egli in realtà non perse occasione di mettere alla berlina. Gli spettatori delle commedie di Wilde ridevano non certo dei socialmente inferiori, dei subalterni: senza saperlo, ridevano di se stessi, delle loro povertà e miserie nascoste dietro all’autocompiacimento d’esser parte di una classe abbiente, nella cornice di un fausto popolo che però, da Napoleone si dice venisse definito una “nazione di bottegai”.
Oscar Wilde fece riflettere l’Inghilterra vittoriana scioccandola non poco, sia con la sua condotta e dalla sua sfida alla morale sessuale, considerata scandalosa soprattutto dai settori più conservatori della società, sia perché nella sua produzione mostrava un certo spregio dei valori culturali tradizionali. Io ritengo che la condanna subita per quelle scelte, di vita e artistiche, abbia molto a che fare anche con le sue origini, vale a dire con il suo essere un irlandese, ossia un outsider in Inghilterra.
Gli spettatori delle commedie di Wilde ridevano non certo dei socialmente inferiori, dei subalterni: senza saperlo, ridevano di se stessi.
Non ci scordiamo, infatti, che l’avvocato che istruì il primo processo contro di lui era nientemeno che Edward Carson: di lì a pochi anni avrebbe fondato gli Ulster Volunteers, la prima milizia paramilitare nordirlandese di stampo lealista, da cui sarebbe poi nata la UVF (Ulster Volunteer Force), colpevole di efferati attentati contro i nazionalisti repubblicani nei decenni a seguire. E non ci scordiamo che Wilde era il figlio di una notissima poetessa rivoluzionaria e repubblicana, autrice, tra i tanti, di un componimento quale “To Ireland”, che inizia così: “La mia patria, colpita al cuore…”. Ma sono le opere di Wilde a dimostrare il lascito profondo della cultura irlandese, come capita ad esempio alle sue due interessantissime raccolte di fiabe, la prima delle quali fu composta espressamente per i suoi due figli che di lì a poco avrebbe abbandonato. Andiamo per gradi, però.
Questo dublinese, che andò a scuola nello stesso istituto in cui avrebbe studiato l’altro irlandese Beckett, la Portora School di Enniskillen, nel Nord, e poi alla stessa università dove a Beckett capitò persino di insegnare, il Trinity College di Dublino, viene ancora visto troppo spesso quasi non fosse il figlio di una rivoluzionaria repubblicana che tra l’altro lui adorava, e come se non fosse il figlio di uno dei più grandi studiosi di folklore irlandese, Sir William. Questi, passato alla storia per essere al contempo l’uomo più sporco d’Irlanda ma anche un abilissimo medico (si ricorda una sua tracheotomia di fortuna praticata con delle forbici), fu autore di un libro fondamentale per chi voglia addentrarsi nella cultura popolare d’Irlanda: Irish Popular Superstitions, scritto a pochi anni dalla Great Famine, la grande carestia di metà Ottocento che decimò il popolo irlandese e che dagli irlandesi stessi è chiamata The Great Hunger, la grande fame.
Senza questo libro non avremmo avuto il meraviglioso volume della moglie, Lady Speranza, ossia Ancient Leends, Mystic Charms and Popular Superstitions of Ireland, incentrato sulle antiche leggende irlandesi; ma sarebbero anche state impossibili, a mio avviso, i libri di Lady Gregory, le poesie, i drammi e i racconti celticheggianti di Yeats, e credo, anche quel movimento noto come Celtic Revival, il quale non avrebbe preso la strada anche politica che ha preso, senza il contributo fondamentale dei coniugi Wilde di qualche decennio prima.
Oscar Wilde, nonostante la facciata o superficie estetizzante, si identifica con le istanze popolari, con un repubblicanesimo inteso come strada non autoritaria verso la democrazia.
A complicare la faccenda c’è il fatto che negli anni il fenomeno Oscar Wilde è visto principalmente come fenomeno, appunto, senza prenderne sufficientemente sul serio la critica sociale; o meglio, riconoscendola, ma mettendola al secondo posto rispetto invece alle superfici, alle forme. Eppure, era stato Wilde stesso ad ammonire, nelle frasi aforistiche che precedono il Dorian Gray, che ogni arte è al contempo superficie e simbolo, e chi si tuffa sotto il livello della superficie lo fa a suo rischio e pericolo, esattamente come chi ne legge i simboli.
Proprio come il poeta inglese William Blake, che è al contempo popolare, visionario e repubblicano, anche Wilde, come già Ellmann aveva spiegato nel dettaglio più di quaranta anni fa, nonostante la facciata o superficie estetizzante, si identifica con istanze popolari e con un repubblicanesimo inteso come strada non autoritaria verso la democrazia. Parliamo, infatti, di un uomo la cui drammaturgia non nasce con The Importance of Being Ernest, con A Woman of no Importance o con Lady Windermere’s Fan, ma con un dramma, Vera o I Nichilisti, che inscena un regicidio, nello specifico l’assassinio dello Zar di Russia, prendendo spunto dall’uccisione durante un attentato di un noto rappresentante delle forze dell’ordine di San Pietroburgo colpevole di violenze contro il popolo. Wilde in Vera non fa alcun mistero delle sue simpatie repubblicane, e quando andò in America per il famoso tour nel 1882, portò con sé questi sentimenti democratici.
In America fece di tutto, tra l’altro, per incontrare Whitman, rimanendone assai impressionato, al punto da immergersi nell’identificazione whitmaniana di un’America democratica che vive nel connubio popolo-natura-poesia. Dopo averlo incontrato, e dopo aver bevuto con lui del punch, Wilde disse a un giornalista: “è l’uomo più grande, il più semplice il più naturale, e ha il carattere più forte che abbia mai incontrato”. Più tardi, dirigendosi verso nord, Wilde portò con sé questi sentimenti fino alle cascate del Niagara, per poi commentare: “il ruggito di queste acque è come il ruggito dell’onda potente della democrazia che si infrange su quelle stesse coste su cui i sovrani se ne stanno comodamente adagiati”. Difficile non leggere in queste parole anche un riferimento all’Inghilterra, alle sue coste, alla sua tranquilla monarchia. Infatti, in Vera userà questa stessa immagine: “sento di lontano l’onda potente della democrazia che si infrange su queste coste maledette” (nel dramma la risposta del principe Paul, rappresentante dell’ordine monarchico in pericolo, sarà: “in tal caso, meglio che io impari a nuotare”).
Wilde sapeva che adottare posizioni repubblicane e anti-inglesi anche estreme, in America, non poteva che incontrare il favore di una comunità, quella degli Irish American appunto, a cui lui era stato presentato come il figlio di Speranza, ovvero “di una delle più nobili figlie d’Irlanda, una figlia che nei tumultuosi tempi del 1847 con l’opera della sua penna e il nobile esempio, ha fatto tanto per tenere accesa e splendente la fiaccola del patriottismo”. In una lettera indirizzata proprio alla madre, Oscar le chiede di spedirgli una copia della National Review, periodico che aveva pubblicato alcuni versi appassionati di lei, tra cui la famosissima “To Ireland”.
In America fece di tutto per incontrare Whitman, rimanendone assai impressionato.
In America Wilde non deluderà le aspettative. Parlando dell’arte irlandese dirà che “con l’arrivo degli inglesi, l’arte in Irlanda è scomparsa, perché l’arte non può sopravvivere e prosperare sotto i tiranni”. E poi aggiungerà: “l’impulso artistico in Irlanda non è scomparso”. Quando poi il 6 maggio del 1882 saprà dell’assassinio a Dublino del Segretario di stato per l’Irlanda, ossia il rappresentante della Corona, e del Segretario generale dell’amministrazione britannica, da parte di quei rivoluzionari irlandesi detti gli invincibili che figurano anche nell’Ulisse di Joyce, non avrà remore ad affermare: “Ci dimentichiamo sempre di quali siano tutte le colpe dell’Inghilterra. Sta solo raccogliendo i frutti di sette secoli di ingiustizie”.
Tre mesi prima, a febbraio, davanti ai giornalisti aveva fatto una dichiarazione di fede nell’ideale repubblicano: “Sono un repubblicano tutto d’un pezzo”. Nel suggerire poi che anche l’Inghilterra avrebbe dovuto diventare una Repubblica, aggiunse con il suo tipico tono sbeffeggiante: “ovvio che non posso parlare di principi democratici con il mio amico il Principe di Galles, ma questa è solo una questione di buone maniere in società”.
Ancor prima del viaggio americano, nel 1876 aveva corrisposto con John Boyle O’Reilly, poeta e scrittore irlandese e membro di quella Irish Republican Brotherhood che di lì a qualche anno avrebbe dato a battesimo nientemeno che l’IRA. O’Reilly, esule in America, dirigeva Pilot, e Wilde lo ringraziò per il fatto che la sua rivista fosse stata la prima ad aver pubblicato qualcosa di suo. Questi principi apertamente dichiarati in quello che è stato forse il suo primo grande momento di notorietà internazionale, ovvero il tour americano, non possono ovviamente averlo abbandonato qualche anno dopo, quando il suo palcoscenico d’eccezione divenne l’Inghilterra. I principi democratici e repubblicani, e la netta propensione verso le cause dei più deboli, non emergono infatti soltanto nelle favole, in Vera o in “L’Anima dell’uomo sotto il socialismo”, ma anche nelle stesse notissime commedie che scossero, e al contempo fecero ridere, l’alta società inglese.
In una lettera dei primi anni Novanta dell’Ottocento diretta al drammaturgo George Bernard Shaw, suo conterraneo, Wilde scriveva: “l’Inghilterra è il paese delle nebbie intellettuali, ma lei ha fatto molto per dissiparle… siamo entrambi dei celti”, un’ammissione alquanto strana, come lo è quella che compare in una lettera a Stéphane Mallarmé, in cui Wilde scrisse: “Caro Maestro, non so come ringraziarla per la squisita maniera con cui mi ha offerto la magnifica sinfonia in prosa che le melodie del grande poeta celtico Edgar Allan Poe le hanno ispirato”. Le origini celtiche di Poe non ne fanno certo un celta, ma Wilde deve aver visto in lui quel tipo di atteggiamento visionario antiutilitarista e popolare che egli identificava con lo spirito irlandese visto in contrasto con quello inglese.
Dopo la disastrosa esperienza nel carcere di Reading, Wilde si dedicò anima e corpo a denunciare le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i detenuti nelle carceri britanniche.
Era stata la madre stessa a teorizzare che “la facoltà mitopoetica esiste oramai soltanto nei bambini, nei poeti, e nelle razze fanciullesche, come gli irlandesi”. Questa consapevolezza viene traslata di peso ad esempio nelle favole, dove i bambini sono i depositari della verità, una verità che sempre appartiene al regno dell’immaginazione e del sogno, esattamente come in Blake.
La sottile vena anti British di Wilde ha la sua controprova nel fatto che dall’Inghilterra, nonostante la prima ammirazione, Wilde fu poi, come si dice, “scaricato”. Albione non volle in realtà mai troppo a integrarlo, questo sin dagli albori, e dalle stroncature delle sue poesie ma anche dal fiasco di Vera. In seguito, alla prima occasione, quella stessa Inghilterra si vantò, una volta caduto in miseria, di condannarlo e di metterlo al bando.
L’irlandese Joyce scrisse questo di lui, in italiano, da Trieste: “Oscarre Fingal O’Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti ch’egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontispizio della sua prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva nobilitarsi scolpiva, forse in modo simbolico, i segni delle sue pretese vane e la sorte che già l’attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscarre, nipote del re Fingal e figlio unigenito di Ossiano nella amorfa odissea celtica, ucciso dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O’Flahertie, truce tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medioevali, ed il cui nome incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce all’antica litania dei santi fra le pesti, l’ira di Dio e lo spirito di fornicazione dai feroci O’Flahertie, libera nos Domine. Simile a quell’Oscarre egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la sua morte civile, mentre sedeva a mensa coronato di pampini e discorrendo di Platone: simile a quella tribù selvatica doveva egli spezzar le lance della sua facondia paradossale contro la schiera delle convenzioni [in]utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei giusti recitare il suo nome assieme con quello dello spirito immondo”. Sono parole inequivocabili. Da tenere a mente.
Infine, in un necrologio abbastanza anonimo di Wilde emerge un altro aspetto assai poco noto della sua “produzione”, ovvero la battaglia, tutta giornalistica, contro le storture e le ingiustizie del sistema carcerario britannico. Dopo la disastrosa esperienza nel carcere di Reading seguita alla sua condanna definitiva per gravi atti di libidine, ossia per omosessualità e sodomia, Wilde si dedicò anima e corpo a denunciare le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i detenuti nelle carceri britanniche. Una lettera a un direttore del Daily Chronicle, firmata “L’autore della Ballata dal carcere di Reading”, evidenzia come Wilde sapesse assai bene di cosa stava parlando; e sapeva anche, da irlandese figlio di madre rivoluzionaria al corrente degli abusi dei propri connazionali, detenuti in massa nelle carceri britanniche nel corso dell’Ottocento, che un qualunque miglioramento delle condizioni materiali dei carcerati deve badare non solo al corpo, ma anche all’anima. Infatti, quanto Wilde dice dei “bisogni della mente” mostra come un approccio da artista visionario e radicale possa realizzare cambiamenti anch’essi radicali e visionari:
Privato di libri, di rapporti umani, isolato da ogni influenza civile e civilizzante, condannato ad un eterno silenzio, derubato di ogni relazione con il mondo esterno, trattato come un animale senza intelligenza, brutalizzato sotto il livello delle bestie, il disgraziato che è stato confinato in una galera inglese può difficilmente sfuggire alla follia. […] Ogni prigioniero dovrebbe avere un adeguato rifornimenti di buoni.
Wilde fu un uomo libero, un artista che operò per la libertà e per l’emancipazione degli altri, della sua gente, e di noi tutti. E anche per questo “è uno di noi”. Parole che dovremmo tenere a mente.