N ell’immaginario comune poesia e natura sono strettamente connesse e il paesaggismo, insieme al confessionalismo, spesso viene percepito come l’unico genere poetico possibile. Da insegnante ho la possibilità di tastare facilmente il polso a questo immaginario: il canone scolastico, infatti, ha un ruolo decisivo nella costruzione di questi stereotipi e “La nebbia a gl’irti colli / piovigginando sale” è l’attacco di quella che forse può essere considerata la poesia scolastica per eccellenza.
Questo modello di poesia-natura, però, persiste anche nella poesia contemporanea, e non è difficile, anzi, imbattersi in libri che se scelgono di parlare di “mondo esterno” lo fanno dotandosi di un immaginario essenzialmente preindustriale. Suona così, perciò, la domanda che vorrei fare: è possibile, ed efficace, oggi, il ricorso a un’idea di natura che ha le radici in un mondo precedente alla seconda rivoluzione industriale? Cosa dovrebbe (o almeno potrebbe) determinare, invece, l’ultimo secolo e mezzo di storia nella rappresentazione della natura in poesia?
Si tratta, credo, di questioni cruciali non solo in riferimento allo sviluppo della poesia ma anche alla concezione culturale del rapporto tra soggetto e oggetto, individuo e mondo, cui poi si legano, tra l’altro, le pratiche politiche relative all’ambiente. Di certo, in questo, la poesia occupa un ruolo marginale; ma i tre libri che sto per analizzare possono aiutare a inquadrare meglio il problema, soprattutto se guardiamo alla poesia come uno strumento specifico di decostruzione e rimodulazione del linguaggio.
Ciberneti di Francesco Terzago (Samuele Editore, 2022), divided by zero di Daniele Bellomi (Prufrock Spa, 2018) e __ _ di Alessandra Greco (Anterem Edizioni, 2023) sono infatti tre libri che, in maniera diversa, propongono un immaginario naturale non stereotipato e sondano la compromissione tra natura, cultura e tecnologia. Il cardine dello stereotipo, del resto, riguarda la scissione radicale tra naturale e culturale. Come scrive Latour in Non siamo mai stati moderni, questa “Grande Divisione” si genera a partire da un gesto di “depurazione” con cui i moderni fabbricano “due aree ontologiche completamente distinte: quella degli umani da un lato e quella dei nonumani dall’altro”. Un gesto che, però, è condotto in parallelo al suo contrario (la “traduzione”) e che ha perciò proprio l’effetto collaterale di produrre ibridi, glitch che tornano a mescolare naturale e culturale.
Questa ibridazione è proprio uno dei temi di Ciberneti. In “Fenditure del cielo” si legge:
[…] Tuttavia le sostanze tornano in circolo,
sono restituite alla fabbrica con l’azione
delle stagioni e degli automi. La carne è
raccolta dai separatori: cioè questi simulacri
degli uccelli quasi estinti, e precipita lungo
la sottile conduttura. Sospinta da un sistema
idraulico raggiunge, attraversando
la mimetica biologica, il serbatoio di raccolta
e trasformazione. Qui, con processi chimici
e meccanici, i tessuti del fegato e del cervello
si riducono a pure sostanze.
Mix di “processi chimici / e meccanici”, macchine “simulacri / degli uccelli”: tutto Ciberneti punta a individuare osmosi tra mondo naturale e mondo tecnologico, a partire dagli stessi protagonisti del libro (i Ciberneti, appunto), “automi che percepiscono, agiscono, elaborano informazioni provenienti dall’ambiente” e “protesi della vita degli esseri umani”. Nel libro si assiste quindi a una doppia riscrittura dell’immaginario naturale poetico: da una parte si lascia molto spazio agli elementi industriali e post-industriali, spesso ancora esclusi da molta poesia (nel libro compaiono “robot”, “guarnizioni”, “tosaerba automatici a guida satellitare”, “cabine di controllo”, “ruote dentate”…); dall’altra viene fatto saltare, in certo senso, il confine ontologico tra questi elementi e la natura. Ne abbiamo una prova significativa proprio nell’incipit, Oltre cento metri di Buddha:
[…] Forse ci ricontatteranno quando lo scavo
avrà raggiunto la giusta quota e se, nel frattempo,
non si saranno persi nel buio. A quel punto
spetterà a noi raggiungere il fondo del catino
scendendo con i verricelli, laggiù il cielo
è un asterisco e le pareti sono lucide
come vetro meteoritico o la gola di un vitello.
Da quel punto inizierà la nostra, di ascesa,
piano dopo piano per i trenta complessivi
della struttura d’acciaio zincato che sarà nostro
compito installare. Su ogni piano disporremo
le cremagliere – l’una sull’altra con quattro metri
a separarle. Infine i robot faranno avanti
e indietro su di esse. Mentre gli uccelli
insediati e le volpi volanti, a poca distanza,
copriranno con i loro versi il fischio delle fresatrici
assicurate al polso degli stessi robot. Così si scolpirà
il Buddha con gli occhi chiusi e la pietra
polverizzata precipiterà giù, nel ruscellamento
inesauribile della pioggia e della falda mischiandosi
al guano, ai minerali, e ai residui della papaia,
dei frutti stella, e dei dispersi. Oltre cento metri di Buddha
con gli occhi chiusi. Quando e se sarà ultimato, il colosso,
potrà essere visibile solo a poche decine di persone
all’anno, chi giungerà in quel punto
su espresso invito di un ministro. Attorno
alla voragine erigeranno una palizzata
mentre, le fessure tra i tronchi, saranno chiuse
con fango rosso e foglie di banano ancora verdi.
Nell’apertura del libro il centro della scena è occupato dall’installazione di un “impianto” in una “radura”: tecnica e natura si giustappongono (“l’altare di plastica / giallo e lucido eretto nel capannone con le offerte / di riso e i pomelo”) e anzi compenetrano, se l’installazione dell’impianto equivale a una manipolazione tecnica del naturale (“rimuovere / metri cubi e metri cubi di materiale, / interrompere la continuità con la dinamite”).
Ma Terzago porta l’ibridazione anche a un livello ulteriore, dal momento che la costruzione riguarda un “colosso” di Buddha: pure nella loro freddezza, la “struttura d’acciaio zincato” e i “robot” stanno in realtà attendendo a una specie di rito, e se a ciò aggiungiamo anche il velato sarcasmo dell’“espresso invito di un ministro”, otteniamo una rete – per usare un termine appunto latouriano – in cui interferiscono materiale, tecnologico e simbolico (nella doppia misura di religioso e politico). Fenditure del cielo, a un certo punto, procede con “[Sovvertire la natura se ciò assicura, al rito, / continuità. Sovvertire la natura se ciò ci dà modo / di protegger-]”: ecco, la natura in Terzago è rivoltata proprio a partire dalla sua compromissione con la cultura (sia essa evocata dalla tecnica o dal “rito”) e la poesia a partire, soprattutto, dall’iniezione di referenti a essa tradizionalmente estranei o dal ribaltamento dei meccanismi metaforici (Le more sono lampadine bruciate, ad esempio, è il titolo di un altro testo, con l’elemento industriale che, attraverso la metafora, rende familiare quello naturale, e non viceversa).
La spinta critica di Terzago nei confronti della tradizione, quindi, passa soprattutto dal piano tematico e concettuale: si tratta, al fondo, di riconoscere che – usando le parole di Riassemblare il sociale – “anche gli oggetti possiedono un’agency” e quindi che “non vale più alcuna opposizione binaria, a partire da quella tra natura e società”. E si tratta, quanto alla lingua, di rifunzionalizzare e ampliare, più che sabotare, l’armamentario lirico, visto che in Terzago la scansione versale viene conservata e la sintassi appare limpida ed equilibrata.
Su questo fronte, più radicale è invece il lavoro di Daniele Bellomi. Nella sua tendenza al monostilismo, Bellomi ricorre nella maggior parte dei casi a una poesia-strofa disorientante, che accumula materiali eterogenei e li regge quasi solo con la virgola. Un esempio, “Shifting”:
parlano di lacca, lashes, innesti nella cute: intercettati,
ti hanno detto, sono giorni. scordano tentacoli all’esterno,
le ventose: ai tavoli rimane qualcosa da pagare. domandi
se proprio non gli riesce, o se è per altro che ti hanno lasciato:
provi nuovi accostamenti, connettori, valvole al red shift
del tuo domani. somigliano alle protesi, se guardi indietro,
poi giù, la palpebra lì in basso, dove il testo perde i pezzi,
restituisce parti, porzioni cedevoli, coscienze che rientrano
alla base cranica, al fissaggio delle extension, dove il tempo
è valutato come merce, doppia i poli, le punte. ti rendi
conto che sei fuori tratta, ordinazione, che il mondo può
ispessirsi fuori dalle cornee. tutto può virare nel pigmento,
poi cendre, richiedilo appena prima che si incendi. resti
se puoi prendere, comprare un centro errato, un’opinione.
pensi dopo a quello che potrai volere, se valuti ricostruzioni
senza eventi: poi, per farti vendicare, impalchi il make-up.
Un altro esempio:
finito, detto al mondo: andato in pace, lontano,
prima che ne sovrascriva la memoria: esodo perché
“ricorrere al presente”. nel file .doc riportato astrae
il sistema operativo, partiziona, separa, riapre
il termine a un sistema detto meglio, andato
e liberato in parte pratica nel vuoto del ricorrere,
che lo inizializza e lo dispiega, estratta l’aria
dalla cavità uterina, il prime move ultraviolento,
la pratica del morbo più cosciente; che peggiori
e tenga il codice, lo stile .css, l’anima, il solido,
continuo bordo nero puntato al veleno, mossa
la vittima verso, che è lo stesso e niente lo precede
se è maggiore o uguale in causa all’errore nel testo
che si deconcentra, dice una sintassi impropria,
medicata, scarto, o meglio scoria estranea, sicura
indietro tutta; qualcosa cambia prima della violenza
quando qualcosa è cambiato e ne è privo, prima
della violenza, anche se ne sa l’estetica, manca
e siede nella carica completa dentro l’odio, a schermo
spento per futura sorveglianza video dentro
a luoghi in data di scadenza: le quattordici stazioni
del mattino, l’asserzione, il root descritto, la conta
dei millesimi, la parte andata via per quindici anni
e poi dai venticinque andata altrove, lasciando
il fuoricampo al mondo, l’accesso più remoto,
il moto rapido a recuperarne il lancio, il “quanto”,
lo sbaglio organico, la resistenza nulla, giunta
per semplice decorso delle parti, adesso compresa:
lo stadio terminale, la voce inoperabile alla nascita.
In entrambi i casi ricostruire in maniera precisa la scena messa in versi è impossibile. La frantumazione della sintassi cancella ogni gerarchia tra i referenti e riduce la forza (e la presenza) dei predicati. Ciò che riceve il lettore è semmai un continuo shifting, appunto, uno scivolare tra oggetti e concetti in maniera indeterminata e fuori fuoco, che capiamo riguardare il mondo del “make-up” nel primo testo e il “sistema operativo” nel secondo, ma che non riusciamo mai a dominare pienamente. In tutti e due i brani, comunque (ed è ciò che più ci interessa qui) assistiamo a un’operazione di commistione e interposizione.
Lo shifting, insomma, è materiale e ontologico, oltre che linguistico; ed ecco quindi che l’universo di “lashes” ed “extension” si porta dietro un più generale e profondo intervento estetico sul corpo (“innesti nella cute”, divisioni in “parti, porzioni cedevoli” dell’individuo) mentre “il file .doc”, “lo stile .css”, “il root descritto” sembrano mettersi in mezzo, ricodificare la percezione dell’esterno da parte dell’individuo. Se, poi, consideriamo l’individuo (sia il corpo che “l’anima”, interconnessi) come la sfera “naturale”, i prodotti artificiali, la “merce”, e il “sistema operativo” sembrano inficiare violentemente la struttura monadica dell’individuo (“sovrascrivere la memoria”), quindi la dicotomia natura-cultura. Non è un caso che in entrambi i testi oltre all’individuo venga riscritto anche il “mondo”, come “fuoricampo” incomprensibile ma presente o come rimosso che rientra nel campo (“ti rendi conto che […] il mondo può / ispessirsi fuori dalle cornee”). Quello di Bellomi è un lavoro di reinquadramento della percezione (sensoriale, fenomenologica) dell’esterno a partire dal mettere in evidenza il ruolo decisivo, orientante o disorientante, dell’elemento tecno-culturale. Alessandro De Francesco, in una recensione, lo ha descritto bene: in Bellomi avviene una “dispersione tecnologica del possibile” e “il tecnologico non affascina più come piano ontologico altro”, “diventa invece spazio politico e forma di vita”.
E infatti potremmo intendere divided by zero anche come un lavoro intermediale. Nella sezione lapse, l’ultima del libro, i testi “lineari” sono inframmezzati da immagini di schermate di programmazione o testi del tipo:
panic ()
/*
* In case console is off,
* panicstr contains argument to last
* call to panic.
* /
char *panicstr;
/*
* Panic is called on unresolvable
* fatal errors.
* It syncs, prints “panic: mesg” and
* then loops.
* /
panic(s)
char *s;
{
panicstr = s;
update ();
printf (“panic: %s\n”, s);
for (;;)
idle ();
}
Non solo l’esperienza del mondo risulta condizionata dalla tecnologia, ma il linguaggio informatico può arrivare ad appropriarsi integralmente dello spazio e del linguaggio della poesia. Ragionare sul rapporto tra scrittura e tecnologia, d’altronde, non può che comportare anche una riflessione sui media e sulla loro capacità espressiva; e se Bellomi tocca questo punto in maniera tutto sommato laterale, Alessandra Greco, artista multimediale, lo rende uno dei nodi fondamentali del suo __ _. Il libro, che si presenta spersonalizzato fin dal titolo di soli underscore, è costituito infatti da testi, immagini e fotogrammi di video. Per il nostro discorso è la sezione QR Code – quiescent roots la più interessante, in cui i testi compaiono in questa forma:
1_5_0051m QRCode
ritagli | neurale
un’opera androide è diventata parte di
molta luce ritarda i suoni del respiro una corteccia sviluppata in lit – frinire brina – alle mani – [ i colori dei fiori diventano più intensi con 20 gradi al suolo ] – eccezioni – mentre una costante percettiva trasforma – banchi di – – cloud seedings – – devia i pensieri lì dove hanno origine | non è facile riconoscere
le emozioni solo mediante l’osservazione degli occhi | inventa letteralmente i suoi gesti
la sua rete sul suo ambiente una nuova preistoria-ai suoi occhi-informa dice che è facile-che siamo già una forma di canto
esiste un centro quiescente bordato dalle cellule iniziali e dalle dirette derivate in due regioni :
torna in ombra nella notte dei tempi – nel ritmo delle oscillazioni degli arti
Se lo shifting, per Bellomi, vale soprattutto a livello sintattico-concettuale, in Greco assume quasi un carattere fisico: durante la lettura, lo sguardo scivola continuamente tra testo e immagine o guidato da un uso trasgressivo della punteggiatura, che allarga i versi sulla pagina e li frammenta. Vediamo altri due estratti:
2_0053m QRCode
foggara
eye scroll – la faglia finisce in mare – – muovendosi le rocce – – – – la scarpata su cui poggiano le case si sgretola a poco a poco
3_0054m QRCode
seg/ cambiamento nei fossili
un gheppio in volo su un’autostrada
nella nuda cartografia del sogno di una macchina
Si affiancano “gheppio”, “autostrada” e “macchina”, l’occhio scrolla la realtà. Come Bellomi, Greco compie un lavoro sulla percezione (“una costante percettiva”, “una nuova prestoria-ai suoi occhi”) usando la tecnologia per riscriverne le coordinate (“un’opera androide è diventata parte di”) e, come in Terzago, natura e tecnica sono su un piano paritario e misto (“una corteccia sviluppata in lit”, “banchi di – – cloud seedings”). L’aspetto più rilevante di __ _, però, e anche ciò che lo distingue dagli altri due libri, sta proprio nel ruolo specifico dell’immagine. Giocando con l’acronimo, Greco trasforma il quick response code in quiescent roots code: da codice di risposta rapida a codice di radici quiescenti. Quelli che inserisce l’autrice sono del resto dei QRCode decostruiti: con un pattern di bianchi e neri, le foto richiamano la forma tipica del QRCode, ma sono mossi, disgregati, trasformati in scrittura asemica e – chiaramente – non funzionanti.
Disinnescata la funzione, la reattività, lo strumento tecnologico torna a essere materia inerte, oggetto non cliccabile. In una parola, natura. La messa in crisi della dicotomia natura-cultura – possiamo leggere tra le righe di __ _ – passa attraverso lo sgretolamento del confine tra linguaggio e materia: nel momento in cui un certo linguaggio (ad esempio quello informatico del QRCode) viene decostruito, entra in uno spazio non codificato, diventa materia e poi si trasforma di nuovo in linguaggio (ad esempio quello dell’immagine o della parola). Riprendendo un’ultima volta Latour, potremmo dire di essere di fronte a una serie di “quasi-oggetti”.
Terzago, Bellomi e Greco, insomma, attraversano tutti e tre questa crisi della Grande Divisione tra natura e cultura, trovando nella tecnologia un punto in cui l’ibridazione diventa particolarmente visibile (proprio partendo da Latour, Erik Davis in Techgnosis sentenzia che “la cultura è tecnocultura”). Potremmo guardare ai tre libri – almeno per come li abbiamo letti qui – come interessati ad agire su tre diversi livelli di azione (tematico, stilistico e intermediale), ma è bene sottolineare come questi livelli siano in fin dei conti inestricabili. Il punto infatti è proprio giocare con le intersecazioni, quindi con l’analisi di dicotomie considerate neutre e in realtà ideologicamente orientate. La poesia occupa uno spazio molto piccolo nella sfera della cultura, ma l’elaborazione dei linguaggi e delle loro contraddizioni passa anche da lì: in una fase in cui l’evoluzione delle AI sta introducendo o riaccendendo nel dibattito culturale una serie di questioni riguardanti il confine tra umano e tecnologico, si tratta di andare a vedere dentro la lingua, anche, che ruolo occupano i concetti di natura e cultura e la loro ibridazione.