A lungo le Alpi hanno rappresentato un vuoto nel cuore del vecchio continente. La civilizzazione romana aveva infatti consegnato alla cultura europea un’opposizione – quella tra ager, la pianura ordinata e coltivata, e saltus, le alture caotiche e selvagge – che ha influenzato per secoli il modo di pensare a questa catena montuosa, al tempo stesso barriera e punto di contatto tra l’Europa meridionale e quella centrale e settentrionale. I romani le Alpi le avevano conosciute bene, così come avevano conosciuto bene i popoli che le avevano abitate prima del loro arrivo: Reti, Camuni, Veneti, Illiri e Celti delle culture di Hallstatt e La Tène. Alcune delle popolazioni autoctone resistettero alla colonizzazione romana ritirandosi nelle valli più isolate e inaccessibili e lì rimasero per secoli, intrattenendo pochi, sporadici contatti con la gente delle pianure. Schive al punto che, durante il Medioevo, le Alpi furono una delle regioni europee meno interessate dal fenomeno del feudalesimo dando così vita a due tendenze: la prima prevedeva una sostanziale autonomia delle regioni alpine, pur all’interno di uno Stato confinante, mentre la seconda vedeva molte di quelle regioni organizzarsi in comuni rustici o piccole repubbliche di montagna.
Nella rigida distinzione concettuale tra pianure e alture imposta dai Romani si smarrirono storie, culture e tradizioni che vennero ignorate fino al punto in cui se ne perse irrimediabilmente il ricordo. Fu la cultura illuminista a interrompere definitivamente l’influenza di questo concetto sulla cultura europea. Nel 1787 il geografo ginevrino Horace-Bénédict De Saussure salì sulla vetta del Monte Bianco dopo che, l’anno precedente, era stata raggiunta per la prima volta dal medico di Chamonix Gabriel Paccard e dal suo compagno, il cercatore di cristalli Jacques Balmat. Ispirata dalla fede nel potere rivelatore della scienza e dal desiderio di scoperta che caratterizzava la cultura dell’epoca, l’ascensione di De Saussure viene considerata il preludio del processo di costruzione che darà vita allo spazio alpino per come lo conosciamo oggi.
L’incontro con le Alpi avvenne infatti in assenza di un linguaggio e di immagini adeguate a descrivere ciò che artisti e intellettuali si trovavano a esperire coi sensi nel corso delle loro esplorazioni. Viste da vicino, per esempio, le vette perdevano la natura solida e monolitica con cui fino a quel momento si era soliti pensarle e si rivelavano molto più mutevoli e instabili. Per descrivere efficacemente il significato profondo di questo incontro e le sensazioni che esso evocava fu necessario coniare nuove immagini e figure retoriche – la montagna come rovina o tempio della terra, il ghiacciaio come mare di ghiaccio – che presero rapidamente a circolare nella cultura europea dell’epoca, influenzandola profondamente, fino a cristallizzarsi in un immaginario a cui ci rivolgiamo ancora oggi per pensare, parlare e visualizzare non solo le Alpi ma la montagna tout court.
L’ascensione di De Saussure del Monte Bianco viene considerata il preludio del processo di costruzione che darà vita allo spazio alpino per come lo conosciamo oggi.
Dopo che per secoli non era stato altro che un buco nero, lo spazio alpino divenne così finalmente pensabile dalle élite urbane europee che non ci misero molto ad appropriasene, definendolo in base all’immaginario che loro stesse avevano elaborato. Fu a questo repertorio che attinsero a piene mani in quello che fu un vero e proprio processo di colonizzazione che ebbe nella (ri)costruzione fisica e intellettuale delle Alpi la sua principale articolazione. Pur essendosi arricchite di nuovi temi e figure nel corso del tempo, i principi con cui la cultura illuminista le ha costruite sono rimasti una costante nel mondo di pensare alle Alpi.
Tuttavia, mai come nel momento storico che stiamo vivendo, la forza di questa influenza appare fragile e precaria. A metterla in discussione sono gli effetti del riscaldamento globale, che sulle Alpi hanno un passo più accelerato rispetto ad altri ambienti. Questa vasta regione al centro dell’Europa è diventata perciò la cartina al tornasole del cambiamento e di tutte le tensioni che esso genera, ma anche un vivace laboratorio di sperimentazione per le forme di vita del futuro. È a questa nuova (e in parte inedita) centralità che guarda il nuovo numero della rivista The Passenger (Iperborea, 2024), uscito all’inizio dell’estate e dedicato proprio alla regione alpina nella sua interezza.
“Le sfide che questa grande e varia regione deve affrontare”, si legge nell’introduzione al volume, “sono presagi dei fenomeni che investiranno tutto il mondo: la fine dei modelli economici, i difficili compromessi della transizione energetica, gli eventi climatici sempre più estremi, le nuove opportunità”. Sfide per cui “le Alpi, con la loro estrema diversità culturale, economica e sociale, offrono terreno fertile per sperimentazioni e idee innovative, a patto che cambi lo sguardo con cui le osserviamo”. Il futuro delle Alpi, così sembrano dirci queste parole, passa per una ricostruzione dello sguardo che abbandoni ogni illusione restaurativa a favore di un’evoluzione ancora tutta da costruire.
Per lungo tempo uno degli elementi distintivi dell’immaginario alpino, la neve non ne è più un elemento scontato.
Per lungo tempo uno degli elementi distintivi dell’immaginario alpino, allo stesso tempo simbolo della purezza e della forza travolgente della montagna, la neve non ne è più un elemento scontato. Il riscaldamento globale ne accelera infatti la scomparsa, sottraendo alle Alpi la loro caratteristica di spazio destinato ad ospitare la neve in modo permanente. Alla scomparsa della neve si accompagna anche il tramonto del modello economico fordista (e delle sue varianti) che ha sostenuto le comunità di montagna per tutto il Novecento. Un modello costruito in prevalenza sulla monocoltura turistica degli sport invernali, sci alpino su tutti, e che oggi sta rapidamente scomparendo lasciandosi alle spalle numerose rovine, come dimostrano i 311 impianti sciistici attualmente abbandonati sulle Alpi, il cui numero è destinato a crescere nei prossimi anni.
A mettere in difficoltà il turismo sciistico, sostiene Maurizio Dematteis nel suo articolo pubblicato su The Passenger, sono principalmente altri due fattori oltre agli effetti del riscaldamento globale. Uno è la diminuzione del potere di spesa e l’aumento dei costi di esercizio degli impianti che si traduce in un aumento dei costi per il cliente finale. Il secondo è la crescita della domanda di esperienze alternative della montagna, più legate all’autenticità e al contatto con la natura, che, seppur ancora marginali, rappresentano oggi una solida tendenza. L’effetto combinato di questi elementi fa sì che, per poter sopravvivere, le stazioni sciistiche d’alta quota debbano puntare ai mercati globali, Cina e Medio Oriente su tutti. Per poterlo fare è loro necessario incrementare i propri domini sciabili e le loro quote di mercato, a scapito delle stazioni più piccole e a quote meno elevate.
Quote a cui gli effetti del riscaldamento globale stanno determinando cambiamenti che vengono ben inquadrati dal reportage che in The Passenger Diletta Sereni dedica all’Alpago, regione storico-geografica collocata nella parte meridionale della provincia di Belluno, in cui le “nuove stagioni” permettono di abitare stabilmente le quote di mezza montagna in modi che fino a ora erano impensabili come, per esempio, la coltivazione della vite che genera tutto un nuovo tessuto economico e sociale. Quella in cui vive oggi l’economia delle terre alte è infatti una dimensione a cavallo tra la scomparsa del modello turistico industriale e di massa e la creazione di un nuovo, non ancora completamente definito, modello dal carattere artigianale e diffuso, centrato su elementi storici, culturali e paesaggistici.
Alla scomparsa della neve si accompagna anche il tramonto del modello economico fordista (e delle sue varianti) che ha sostenuto le comunità di montagna per tutto il Novecento.
Un modello, quest’ultimo, che è al centro di molti dei progetti di rinascita delle realtà di montagna, come quello della comunità del comune di Ostana, in provincia di Cuneo, raccontato in un altro reportage di The Passenger, “Storia di una rinascita impossibile” di Antonio De Rossi. A colpire, in questa storia di resurrezione, è il modo in cui ogni progetto di rigenerazione apre, allo stesso tempo, a nuovi, inediti conflitti da gestire. La presenza di migranti che, per ragioni di convenienza economica, scelgono di vivere nei borghi di montagna semiabbandonati suscita, per esempio, i fastidi di chi in quei borghi vede possibilità di investimenti di carattere turistico e immobiliare. Oppure le frizioni che si generano tra chi ha scelto la montagna come luogo di vita e chi continua a usarla come rifugio o scappatoia temporanea dalla vita in città.
Immaginare il futuro delle Alpi in un epoca di riscaldamento globale non significa dunque limitarsi a visualizzare soltanto nuovi modelli di vita o economici e sociali. Significa anche provare a immaginare i conflitti a cui questi cambiamenti potrebbero dare luogo, per poterli riconoscere e ricomporre prima che la loro energia si trasformi da generatrice in distruttiva. Per farlo serve pensare a nuove istituzioni, spazi di autonomia e modi d’agire politici affinché la dimensione metromontana non assuma un carattere coloniale, riproducendo privilegi sempre meno sostenibili e ormai fuori dal tempo.
Un rischio che viene messo efficacemente in luce dalla giornalista tedesca Margarete Moulin in un altro dei reportage che compongono il numero di The Passenger dedicato alle Alpi. “Il prezzo dell’energia pulita” racconta la vicenda della Platzertal, una valle del Tirolo destinata a scomparire per fare posto a una centrale idroelettrica ad altissimo impatto ambientale che, secondo la società energetica Tiwag, promotrice del progetto, contribuirà in modo notevole agli obiettivi previsti per la transizione energetica austriaca. Una cautionary tale che al lettore italiano evoca il ricordo della tragedia del Vajont, e che delinea con precisione le contraddizioni di un processo, quello di transizione energetica, in cui la retorica emergenziale agisce fin troppo spesso come giustificazione per progetti dalla evidente natura speculativa e dall’elevato impatto ambientale, cementando una complicità tra l’ambientalismo scientifico e il capitale edile.
La retorica emergenziale agisce fin troppo spesso come giustificazione per progetti dalla evidente natura speculativa e dall’elevato impatto ambientale.
Quello raccontato da Moulin è solo uno dei tanti possibili conflitti che il processo di trasformazione della Alpi genera o potrebbe generare nell’immediato futuro. Il percorso di trasformazione di questa regione è infatti solo ai suoi inizi, un punto attraverso cui passano infinite linee e tendenze potenziali di sviluppo non ancora ben definite. A individuare quali sono queste tendenze su The Passenger è Werner Bätzing, uno dei più importanti studiosi delle Alpi, che, utilizzando il metodo degli scenari, in “Le Alpi al bivio”, traccia sette possibili traiettorie lungo cui lo spazio alpino potrebbe evolvere nel corso dei prossimi tre decenni.
Il primo è uno scenario di continuità, il quale “presuppone che in futuro non si verifichino inversioni di tendenza” rispetto al modello di sviluppo attuale. In questo scenario, “i tre principali fenomeni in atto nell’area alpina, ossia l’urbanizzazione delle località turistiche e delle valli facilmente raggiungibili, il calo demografico e il declino economico delle montagne vere e proprie, continueranno a intensificarsi”. Nel secondo scenario, invece, la mancanza di forme alternative di produzione economica determina un’espansione del turismo in cui “le stazioni sciistiche più alte saranno estese a quote ancora più elevate e, laddove possibile, collegate tra loro”, mentre “a bassa quota […] l’offerta si concentrerà sulle attività sportive e di wellness, la cultura, la gastronomia, l’arte e gli eventi”.
Un terzo scenario prevede invece l’intensificarsi di una politica di stampo neoliberista che, “in un contesto di concorrenza globale sempre più agguerrita e di progressiva riduzione delle entrate statali, i Paesi europei potrebbero convogliare le risorse nelle aree in cui si prevede un maggiore impatto”, determinando gravi conseguenze per le Alpi e favorendone il progressivo spopolamento. Nel quarto scenario, Bätzing delinea una crisi economica mondiale acuta e prolungata, che spingerebbe i Paesi europei a concentrare la loro attenzione sulle aree più competitive del continente, determinando anche in questo caso il progressivo spopolamento delle Alpi.
È possibile che le Alpi non evolveranno in modo chiaro ed evidente verso uno solo di questi scenari ma finiranno per incorporare e sviluppare elementi da ognuno di essi.
Il quinto scenario tratteggia invece i contorni di una crisi idrica dai tratti distopici, per fronteggiare la quale le Alpi sarebbero oggetto di una imponente infrastrutturazione in grado di trasformarne lo spazio nella riserva idrica del continente, ottimizzando gli investimenti grazie alla produzione di energia che questi interventi renderebbero possibile. Lo scenario successivo analizza una crisi della sicurezza interna in cui, a causa di conflitti di ampia portata, i Paesi europei sarebbero costretti a gestire grandi masse di profughi per i quali le Alpi potrebbero diventare il luogo in cui “ospitare milioni di persone che, grazie alla particolare topografia alpina, potrebbero essere efficientemente sorvegliate e controllate”.
L’ultimo scenario proposto da Bätzing vede al centro dell’attenzione una valorizzazione diffusa delle Alpi. Secondo questo scenario, “se l’Europa riconoscesse che una dinamica economia regionale è indispensabile al fine di preservare posti di lavoro, qualità della vita, biodiversità e identità territoriali delle aree periferiche, si impegnerebbe a creare condizioni economiche, politiche e sociali tese a favorire lo sviluppo”. Un intervento di questo tipo permetterebbe di sfruttare risorse oggi economicamente svantaggiose in un contesto di concorrenza globale per promuovere la sostenibilità ambientale e sociale e valorizzare le produzioni locali, fondando nuovamente sulla montagna la sua dimensione di spazio vitale ed economico.
Già al centro di numerosi tentativi di contrastare lo spopolamento dello spazio alpino, dal 2020 questo scenario “ha assunto un significato del tutto nuovo in un’ottica di prevenzione delle crisi: se guerre o altre calamità dovessero comportare un’interruzione prolungata delle catene di fornitura globali e indebolire fortemente gli Stati, la sopravvivenza delle popolazioni dell’arco alpino dipenderebbe dalla risorse locali. Sarebbe pertanto di vitale importanza che queste risorse fossero ancora disponibili e che il loro uso non fosse stato abbandonato da tempo”.
È possibile che le Alpi non evolveranno in modo chiaro ed evidente verso uno solo di questi scenari ma finiranno per incorporare e sviluppare elementi da ognuno di essi, dando vita a una trasformazione peculiare e non necessariamente coerente a seconda dei casi e delle circostanze. Tuttavia, a prescindere da quale sarà la loro trasformazione futura, quello che è certo è che le Alpi sono già oggi di nuovo al centro dell’attenzione della società europea e mondiale. Le ricadute e gli effetti dell’impatto generato dal modo in cui evolveranno nei prossimi trent’anni non si limiteranno a modificarne l’aspetto e lo sguardo con cui siamo abituati a guardarle, ma avranno una portata in grado di travalicare i confini di questo spazio, lasciando ancora una volta un segno indelebile nella pelle della cultura globale.