P ensiamo all’ottimismo del discorso di Bill Clinton del 27 gennaio 1998, pronunciato quando nessuna frattura appariva come innesco di una conflittualità ingovernabile: quanti, nel 1998, credevano che appena dieci anni dopo il sistema economico che celebrava primato e dominio nei settori più all’avanguardia – era l’epoca della bolla delle dot.com e dell’ascesa della Silicon Valley – avrebbe conosciuto una catastrofe finanziaria di portata globale? Quanti potevano immaginare le enormi difficoltà degli USA nell’esercitare il proprio primato militare con efficacia, come accaduto in Iraq e Afghanistan? Quanti ritenevano possibile e realistico che gli Stati Uniti avrebbero subito un assalto al proprio Congresso da parte di gruppi radicali di estrema destra, per di più vicini a un presidente ancora in carica? Quanti avrebbero supposto il ritorno violento del conflitto razziale, in quei termini, negli anni Dieci? Quanti avrebbero ipotizzato che gli USA si sarebbero trovati dentro un’emergenza nazionale legata al consumo letale di oppiacei? Quanti si sarebbero prefigurati il rovesciamento della Roe vs Wade, la sentenza della Corte suprema che nel 1973 aveva reso l’interruzione di gravidanza un diritto federale? Si potrebbe continuare. Sta di fatto che, a partire dalla crisi del 2007-2008, le polarizzazioni innescate dalla classe politica negli anni Novanta hanno trovato un terreno ancora più fertile per potersi espandere.
Oggi vi sono diversi conflitti che appaiono irriducibili: le elezioni presidenziali sono la manifestazione più teatrale e mediatica di questa polarizzazione, ma il conflitto attraversa ogni giorno il Congresso, i Congressi dei cinquanta Stati, le City Hall delle città americane, le relazioni fra il governo federale e quelli statali. E poi i conflitti su genere, possesso delle armi, politiche ambientali, fiscalità, politiche sociali, politiche contro la discriminazione razziale e via proseguendo. Conflitti fra istituzioni e conflitti sulle policy, conflitti fra identità e conflitti fra interessi. Anche gli interessi privati e le lobby che interagiscono con eletti e governo, infatti, acuiscono questa dinamica. Sono al tempo stesso legittima rappresentazione degli interessi economici, sociali e religiosi di una società plurale, ma anche motore di ulteriore conflittualità e diseguaglianza. Alcuni teorici della democrazia americana pensavano che la libera competizione fra interessi avrebbe stabilizzato il sistema politico tramite una serie di compromessi più o meno virtuosi, accettabili da buona parte degli stakeholder in gioco, ma la realtà di oggi è ben altra.
La democrazia è un armistizio, è una tecnologia di organizzazione del potere disegnata per rendere le società plurali al tempo stesso stabili e “contendibili”.
Dai conflitti sui temi della morale a quelli economici, siamo lontani sia dall’idea di una guerra ad armi pari sia da quella di un conflitto “regolato”. La violenza è uno strumento che alcuni gruppi ritengono accettabile, mentre altri si organizzano per essere pronti a difendersi. Letteralmente, si armano. Si armano i gruppi del suprematismo bianco e della resistenza nera. Sono gruppi marginali, ma esistono; sono sempre esistiti, ma oggi le loro fila aumentano. La democrazia è un armistizio, è una tecnologia di organizzazione del potere disegnata per rendere le società plurali al tempo stesso stabili e “contendibili” (Mastropaolo, 2023), con lo scopo di non scivolare dentro la guerra civile ogni volta che interessi strutturati divergono fra loro. L’armistizio si basa anche sulla certezza che le maggioranze non possono calpestare i diritti delle minoranze, protette dallo stato di diritto. Questo armistizio, non solo negli Stati Uniti, appare sempre più fragile.
Attori politici che rivestono ruoli apicali disconoscono la legittimità dell’avversario a esistere, mentre le istituzioni sono un’arena sempre pronta a incendiarsi. Negli Stati Uniti come in Europa emerge l’idea di una democrazia ipermaggioritaria, nella quale a una minoranza vincente – perché questo sono le maggioranze elettorali – è permesso più o meno tutto: il capo riceve dal popolo un mandato incontestabile che lo pone al di sopra degli altri poteri, ristrutturando il senso profondo delle Costituzioni di matrice liberale. Una dinamica che si rafforza attraverso la spettacolarizzazione mediatica, il cesarismo e l’assenza di luoghi in cui gli attori politici riconoscono regole condivise attraverso le quali dialogare, o nelle quali si condivide una grammatica comune della gestione dei conflitti. Eppure, nonostante gli animi siano così ardenti, registriamo il paradosso di una società composta da un numero molto ampio di cittadini apatici, disinteressati o ignari di quanto accade nel mondo politico (pensiamo ai dati dell’astensionismo: è un fatto raro che la partecipazione al voto per le elezioni presidenziali superi il 60% degli aventi diritto; altrettanto raro che superi il 40% in quelle di metà mandato).
Nonostante la società americana si stia facendo, nel complesso, sempre più laica, il peso politico dei gruppi religiosi sembra crescere.
Il conflitto attraversa anche le comunità religiose e i culti. In una società plurale e multireligiosa, le trasformazioni degli ultimi cinquant’anni hanno generato reazioni diverse, dalla chiusura reazionaria all’adattamento (la religione si è politicizzata soprattutto a partire dagli anni Ottanta, grazie agli imprenditori politico-religiosi che diedero vita al movimento della Moral Majority). Vi è competizione per mantenere ed espandere il proprio “bacino di anime” – pensiamo al potente travaso di popolazione latina dalla Chiesa cattolica a quella evangelica – ma vi è anche un’azione direttamente politica dei gruppi religiosi. Operano come portatori di interessi, in qualità di fiancheggiatori o oppositori di eletti ed elette. Nonostante la società americana si stia facendo, nel complesso, sempre più laica – dal 1970 a oggi, secondo il Pew Research Center, la popolazione che si dichiara non religiosa è passata dal 7% al 30% – il peso politico dei gruppi religiosi sembra crescere (a ricordarci che la democrazia non è il campo di gioco dei “semplici” cittadini, ma di quelli organizzati).
Il profilo religioso, inoltre, è divenuto una caratteristica sempre più rilevante per il cursus honorum dei giudici americani persino nella sua sfera più autorevole, quella della Corte suprema: cinque dei sei giudici, su nove, che nel giugno del 2022 hanno ribaltato la Roe vs Wade, sono cattolici e conservatori (nel 1981 vi era un solo cattolico, e la Corte era considerata più “laica”). Anche le corti, federali e locali, sono divenute terreno di conflitto ideologico. Pur essendo sempre stato un campo aperto alla competizione politica – i giudici delle corti statali sono eletti in via diretta dal popolo in molti Stati, mentre i giudici del circuito federale sono di nomina presidenziale – la iperpoliticizzazione del potere giudiziario è stata una formidabile arma, soprattutto per i conservatori, per proseguire nel processo di polarizzazione del sistema politico americano (la strategia della radicalizzazione delle corti è vecchia di almeno quarant’anni).
In ultimo – ma potremmo portare altri esempi che mostrano quanto la democrazia americana si trovi in disequilibrio – vi è il macigno della questione della razza. Che non tratta più, semplicemente, “solo” dei diritti degli afroamericani, del razzismo istituzionale o delle diseguaglianze strutturali. Ma è soprattutto la “questione bianca”, emersa in modo prepotente negli anni Dieci, durante e dopo la presidenza di Barack Obama (se ne è accennato poco fa). Nel libro The World as It Is, un volume di memoir di un consigliere di Obama alla Casa Bianca, Benjamin Rhodes, l’autore ricorda che l’ex presidente si è domandato più volte se non fosse arrivato con dieci o venti anni di anticipo. Se, in sostanza, gli USA fossero ancora impreparati per un presidente afroamericano (Rhodes, 2018).
La qualità specifica di questo tipo di propaganda è la negazione dell’avversario quale contendente legittimo: l’avversario è sistematicamente disumanizzato.
Anche guardando al voto del 2016, Obama si è chiesto se la sua presidenza non abbia generato un backlash bianco, una reazione viscerale da parte di un segmento di America affezionato agli anni in cui i neri “stavano al posto loro”. Ci sono diversi indizi che vanno in questa direzione: il primo è l’incredibile circostanza della nascita del movimento dei Birthers, che accusava Obama di non essere nato negli Stati Uniti – condizione che, per le regole americane, lo avrebbe reso non candidabile alla carica di presidente – e che ha convinto il 41% degli elettori repubblicani già nel 2010. Lo slogan Obama fraud ha preceduto di undici anni l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e la convinzione che i democratici siano dei corrotti seriali, aprendo la strada alla normalizzazione di questo genere di menzogna come strumento politico (gli elettori repubblicani convinti che Biden abbia truccato i risultati elettorali, in questi tre anni, oscillavano fra il 60% e il 70%). Dando per scontato che la menzogna sia un bagaglio irrinunciabile del potere politico, la qualità specifica di questo tipo di propaganda è la negazione dell’avversario quale contendente legittimo. L’avversario è sistematicamente disumanizzato.
Un baro diviene necessariamente un nemico da mettere fuori gioco, nel poker come al Congresso (nei film western, ai bari si spara dopo aver rovesciato il tavolo da gioco). Analizzando questo dato – Donald Trump sostiene che anche le elezioni del 2024 saranno oggetto di tentativi di brogli – si deve ricordare che al principio fu la Obama fraud, ben prima che Trump decidesse di candidarsi e fosse egli stesso oggetto di un tentato omicidio.
Un estratto da Mattia Diletti, Divisi (Treccani, 2024).