Q ualche tempo fa mi sono imbattuta in un meme con l’immagine stock di una giovane donna alla guida di un bulldozer e la scritta “Wants to be seen as equal to men. Refuses to commit 80% of all violent crimes” (Vuole essere considerata uguale agli uomini. Rifiuta di commettere l’80% di crimini violenti). Mi aveva strappato un sorriso, pur non essendo un meme eccezionale, perciò l’ho rigirato in una chat di amiche. Una di loro, una psicologa che lavora in una comunità psichiatrica, qualche sera dopo al bar mi dice di essere sempre stata convinta che il numero di omicidi commesso dalle donne fosse enormemente sottostimato nelle statistiche ufficiali. Le donne, è risaputo, tendono a dispensare morti meno violente (veleni, mix mortali di farmaci, sovraddosaggi di calmanti uniti a soffocamenti, iniezioni di aria, etc). Se il morto è sopra i settanta e non ci sono affetti sospettosi che lo circondano, può essere relativamente facile farla franca.
L’idea che le donne esercitino il proprio potenziale omicidiario con una furbizia e una freddezza che le rende meno sospettabili e, quindi, punibili degli uomini è abbastanza inverosimile, ma intrigante. Immaginiamo per un attimo che l’aspettativa di vita dei maschi sia più bassa di quella delle femmine non perché i primi sono sottoposti a lavori più usuranti e le loro vite più faticose (anche se come, nel 2024, possa essere considerata più usurante la vita di un operaio metalmeccanico rispetto a quella di una badante io non lo saprei dire), ma perché le seconde li ammazzano dopo che questi hanno iniziato a percepire una pensione. Vorrebbe dire milioni di donne coinvolte in un progetto criminale che unisce la meticolosità della malvagità nazista alla segretezza della ’ndrangheta o della CIA: un male puro, senza sangue e punizioni, che ha il vantaggio di far risparmiare all’INPS cifre immense. La distopia che si era formata nella mia mente dopo le parole della mia amica mi affascinava, forse perché la trovavo meno deprimente della cronaca reale, fatta di vittime predestinate e assassini frustrati.
Ho provato una fascinazione simile per le protagoniste di due film francesi recenti che raccontano i processi a due donne accusate di omicidio: Anatomia di una caduta (Justine Triet, 2023) e Saint Omer (Alice Diop, 2022). Entrambi scritti e diretti da due donne, Justine Triet e Alice Diop, classe 1978 la prima e 1979 la seconda. Anatomia di una caduta ci parla di un possibile crimine, per così dire, a generi invertiti, anche se non è certo un film su un’uxoricida che la fa franca. Al contrario, una lettura obiettiva non può che evidenziare come il significato del lungometraggio di Justine Triet stia in un invito esplicito alla sospensione del giudizio. Poco importa sapere che la causa che mette in moto il processo penale e narrativo sia attribuibile all’agency paterna-maschile (suicidaria) o materna-femminile (uxoricida), spetta solo alla vittima primaria (il figlio-orfano) decidere cos’è giusto, anche a costo di prescindere da ciò che è vero. A noi spettatori, succedanei di una giuria popolare chiamata a valutare i fatti da una distanza di sicurezza, scissi tra l’afflato tragico e la curiosità giallistica, è data solo la possibilità di esercitare il legittimo dubbio e risentire della malinconia della verità che consegue al dubbio. Quella delineata da Anatomia di una caduta, citando la filosofa Alice Crary, è una morale oltre il giudizio, è una tensione drammatica che articola eticamente il conflitto senza risolverlo. Il film di Triet usa lo spazio performativo e simbolico del tribunale per decostruire le aspettative emotive e ideali connesse al bisogno di punizione che attraversa la società, ricordandoci che le nostre vite familiari e relazionali si compongono di esperienze morali più simili a mediazioni civili che a giudizi penali. La giustizia può fallire nel rivelarci la verità e, allo stesso tempo, può riuscire a stabilire la soluzione più sostenibile per la prima delle vittime di quella morte, il figlio.
Ho visto quattro volte Anatomia di una caduta. Dopo la prima visione mi ero imposta di credere nell’innocenza della protagonista, alla seconda avevo interiorizzato l’invito a sospendere il giudizio, tra la terza e la quarta ho deciso che il personaggio interpretato da Sandra Huller doveva corrispondere al profilo di un’assassina e di una bugiarda patologica, non nelle intenzioni dell’autrice, ma nei desideri del mio inconscio. Più mi convincevo della colpevolezza della protagonista, della sua mostruosa capacità di uccidere, più ne ero sedotta. Quando ho scoperto che nel final cut è stata eliminata una scena di sesso tra il personaggio di Sandra e il suo avvocato, ho pensato a una scelta postproduttiva intelligente e anche all’occultamento di una prova tendenziosa che era stata seminata nella scrittura. La tensione erotica tra la protagonista e l’avvocato emerge già dai loro primi scambi e si consolida nel corso della narrazione, ma è stato intelligente elidere la scena che avrebbe sancito l’appagamento di quella tensione. Ci sono ragioni estetiche, che forse riguardano il bisogno di enfatizzare la perfetta impenetrabilità della tedesca Huller, ma è probabile che ci siano state anche molte riflessioni sul rischio che quella scena dicesse troppo della protagonista in relazione alla sua presunta colpa. Una donna che si è dedicata quasi interamente alla propria carriera di scrittrice, limitando il proprio ruolo all’interno della famiglia, che ha tradito nel passato e che detesta l’autovittimizzazione ostentata di un marito depresso e invidioso, può ancora, agli occhi dello spettatore, non aver ucciso. Una donna che fa sesso col proprio avvocato durante o appena dopo un processo per uxoricidio un po’ meno. Può essere ingiusto e maschilista, ma è così.
L’idea che le donne esercitino il proprio potenziale omicidiario con una furbizia e una freddezza che le rende meno sospettabili degli uomini è abbastanza inverosimile, ma intrigante.
Ho visto altri i due lavori precedenti di Justine Triet, Victoria (2016) e Sybil (2018) e in entrambi ho amato lo sforzo autoriale di mettere a fuoco e di articolare i temi che stanno magistralmente al centro del film Palma d’oro a Cannes nel 2023: il ribaltamento dei ruoli di coppia tradizionali, donne forti e fredde, uomini deboli e violenti, donne manipolatrici e uomini manipolabili o viceversa, persone, di entrambi i generi, affette da un narcisismo acuto o tormentate dal senso di colpa. Un sistema di questioni che Triet esplora mettendo in scena un bestiario di imputati, avvocati, magistrati, psicoterapeuti, artisti e cani. Sia in Anatomia di una caduta sia nella commedia Victoria il testimone chiave è, curiosamente, proprio un cane, come a dire che c’è sempre una componente irrazionale e caotica anche nella ricerca più meticolosa e istituzionalizzata della verità.
Victoria, protagonista dell’omonimo film, è un’avvocata penalista con due figlie piccole e un ex marito ridicolo, un “artista volubile” che ottiene una certa fama grazie a un blog in cui romanza la vita professionale e sentimentale dell’ex compagna, infamandola. All’inizio del film, Victoria accetta, con poca convinzione e troppo spirito di sacrificio, di assumere la difesa di un suo caro amico accusato dalla partner di tentato omicidio. Nel corso delle indagini il presunto colpevole e la presunta vittima tornano insieme per poi separarsi tra nuove denunce e accuse reciproche. “Mai visti due psicopatici simili!”, dice un collega a Victoria. Si tratta, a tutti gli effetti, di una coppia sprofondata in una dinamica sadomasochistica malata che si è saldata su una passione sessuale divorante. Il potere distruttivo di questa coppia, votata ossessivamente al dolore, travolge anche la professione e l’intimità della protagonista, spinta dalla vicenda a interrogarsi sul suo stesso rapporto con gli uomini. Victoria, a metà film, realizza che il sesso per lei non è più una priorità, anzi, come riferisce al suo psicoterapeuta le dà la nausea, lo collega a un ritorno “allo stato libidinale del lattante”. Quando tornerà in contatto con i propri impulsi sessuali, lo farà scegliendo un partner “debole”, un giovane spiantato e pieno di premure per lei, qualcuno con cui può definire una distanza e delle regole e dei tempi per attraversarla.
Le protagoniste dei film di Triet, tutte donne bionde e madri come la regista, non vanno pazze né per i loro compagni né per i loro bambini: se ne fanno carico con un senso di responsabilità più o meno sviluppato, ma freddo, come per impedire a queste relazioni di dipendenza e cura di intrappolarle. Accettano di correre il rischio di essere viste come crudeli e, addirittura, colpevoli pur di non essere viste come succubi o vittime. Il personaggio di Victoria lo afferma in due occasioni con estrema chiarezza; durante un diverbio con un’amica della presunta parte lesa che l’accusa di misoginia perché difende un uomo abusante, Victoria dichiara: “Eh no! Io non sono misogina, io trovo misogino pensare che le donne siano sempre vittime!”. Così anche in un confronto con un’amica che l’accusa di essere passivo-aggressiva, Victoria dice: “io non mi sento per niente una vittima, mi sento flessibile, reagisco alle circostanze”. Riconosce la sua parte aggressiva e rifiuta quella passiva. Meglio reagire alle situazioni di dolore con la vitalità dei propri istinti aggressivi che farsi spezzare dagli altri e ridursi a vittime impotenti. Un impegno rischioso per una donna, anche sotto il profilo penale, come emerge in modo drammatico in Anatomia di una caduta.
Anatomia di una caduta mi ha portato a chiedermi se il piacere che traevo dall’identificazione col personaggio femminile, a cui io attribuivo una volontà uxoricida liberata dal senso di colpa, fosse il segno di un odio represso verso il maschile. La risposta è un no netto, altrimenti non si spiegherebbe l’uguale fascinazione che provo per le infanticide e le matricide. Mi importa il genere dell’assassina perché è un facilitatore banale del processo di immedesimazione, mentre non attribuisco alcun tipo di valore al genere della vittima. L’ucciso o l’uccisa devono solo essere soggetti che dipendono o da cui dipendono le assassine. Se la narrazione dell’azione omicidiaria, finzionale e non, implica la recisione simbolica di un legame che delinea o insinua un destino infelice, allora mi coinvolge nel profondo, altrimenti no.
Le protagoniste dei film di Triet accettano di correre il rischio di essere ritenute colpevoli pur di non essere viste come succubi o vittime.
Saint Omer (2022) è un film che ha al centro una Medea contemporanea e che dialoga bene con Anatomia di una caduta e la mia personale ossessione per il crime e il true crime. Prima opera di finzione della documentarista Alice Diop, Saint Omer racconta il processo per infanticido di una donna senegalese residente in Francia da molti anni che, in una notte d’autunno, abbandona la figlia di quindici mesi sul bagnasciuga di una spiaggia nella regione di Calais – non distante dalla famigerata Jungle. A seguire il processo, una scrittrice e docente universitaria francese di origini africane in stato di gravidanza, che può essere letta come doppio dell’imputata e alter-ego della regista. Solo qualche tempo dopo la prima visione del film, ho saputo che si trattava della trasposizione cinematografica del caso di cronaca che ha portato all’imputazione e alla condanna, nel 2016, di Fabienne Kobau. Alice Diop seguì, in veste di documentarista, tutte le udienze del processo all’infanticida. I dialoghi nell’aula di tribunale, che costituiscono la maggioranza delle scene del film, sono trascrizioni quasi letterali del dibattimento e persino il casting ripropone in maniera scrupolosa le fisionomie dei soggetti realmente coinvolti nella vicenda giudiziaria reale.
Fabienne Kobau, la vera donna dietro il personaggio di Laurence Coly (Guslagie Malanda) si trasferisce in Francia a diciotto anni per studiare architettura (giurisprudenza nel film, che modifica dettagli minimi ma significativi come questo). Lascia quel percorso di studi e si immatricola a filosofia, scelta che le costa la perdita del sostegno economico della famiglia. Lavora per un po’ come baby-sitter e arriva a progettare la scrittura di una tesi su Wittgenstein (ho disperatamente cercato di capire, purtroppo senza successo, se il Wittgenstein del Tractatus o quello di Ricerche filosofiche) che non discuterà mai perché, nel frattempo, si innamora di un uomo molto più anziano con cui va a convivere, isolandosi a poco a poco dal resto del mondo. Il rapporto tra i due, come emerge nel processo, è segnato da abusi reciproci: lei è ossessivamente gelosa, lui è egoista e indifferente al punto da ignorare lo stato di gravidanza della compagna fino a poco prima del parto. Kobau/Coly, una donna molto colta e con un QI certificato superiore alla media, cade in uno stato paranoico che esplode in una vera e propria psicosi dopo il parto. Al processo, Kobau/Coly dichiara di essere stata plagiata dalla stregoneria, da misteriose veggenti senegalesi, ma non emergono prove a conferma di ciò e sembra piuttosto una strategia difensiva, volta non tanto alla riduzione della pena quanto al controllo della propria immagine pubblica.
La trentenne infanticida, ci suggerisce Diop, ha scelto, in una sorta di follia raffinatissima, di incarnare Medea in un’Europa instupidita dalla xenofobia. Il parallelo piuttosto prevedibile tra le due figure è, a mio giudizio, più interessante lì dove si incrina. Come Medea, Kobau/Coly è umiliata dall’uomo che ama e si sente isolata e invisibile in una terra straniera, ma mentre Medea uccide i propri figli per infliggere la vendetta più crudele immaginabile all’uomo che l’ha tradita e umiliata, il gesto criminale di Kobau/Coly risponde a un movente più complesso. In quell’ infanticidio è contenuto il desiderio di ferire il padre della bambina e infrangere l’invisibilità a cui lui l’aveva consegnata e, al contempo, c’è un disperato bisogno di essere vista dalla madre, una donna severa e provata dalla vita che, in uno schema molto geometrico, fa anche da doppio della madre della co-protagonista. Nel film di Diop, la madre dell’imputata dice alla scrittrice, interpretata da Kayije Kagame: “Si parla tanto del modo in cui [mia figlia] parla e si pone. Significa che è stata ben educata”. Un orgoglio ottuso e dissociato dalla realtà che ci dà prova della violenza manipolatoria e ipocrita esercitata dalla madre sulla figlia. Kobau/Coly si erge sul banco degli imputati come da un pulpito d’accusa, sia quando parla del compagno, che rappresenta la terra straniera e la sua arida chiusura, sia quando parla della madre che incarna, invece, la terra natia in tutta la sua duplice forza attrattiva e respingente. Per affermare se stessa dentro il destino tragico che le è toccato in sorte, Kobau/Coly, nella sua follia, deve distruggere ogni legame con l’altro, sia straniero sia nativo, a partire da quel particolare altro così prossimo da sembrare indistinto dal sé, ovvero la figlia neonata.
L’arringa finale dell’avvocata della difesa si conclude con una riflessione di enorme impatto emotivo sul fenomeno biologico del microchimerismo fetale-materno, che consiste nella migrazione di cellule dalla madre al feto, e viceversa, durante la gravidanza. Le cosiddette cellule chimeriche possono persistere a lungo, anche per l’intera durata della vita, sparse in tutti gli organi e tessuti delle madri e dei loro figli. La richiesta di una pena ridotta rispetto all’ergastolo voluto dall’accusa termina con queste parole: “Noi donne siamo tutte delle chimere […], per certi versi siamo tutte dei mostri, ma dei mostri terribilmente umani”.
La violenza esplicita o repressa che esprimono è di genere nella misura in cui è inseparabile dalle relazioni di dipendenza che le definiscono come figlie, compagne e madri.
Le protagoniste/imputate di Saint Omer e di Anatomia di una caduta sono donne chimeriche. La violenza esplicita o repressa che esprimono è di genere nella misura in cui è inseparabile dalle relazioni di dipendenza che le definiscono come figlie, compagne e madri. I film di Justine Triet e di Alice Diop usano gli archetipi della tragedia e del mito classico in cui la colpa riguarda l’affermazione violenta di un’identità femminile (Medea, Clitemnestra ed Elettra) per raccontarci il cambiamento, nell’Europa contemporanea, dei ruoli di genere, sia nell’ambito affettivo sia in quello lavorativo, e le tensioni tra etnie e nazionalità (Sandra, tedesca straniera in Francia, parla al marito e al figlio in inglese per segnare una distanza che sente vitale, mentre la madre di Coly, in Senegal, proibisce alla figlia di parlare in wolof, obbligandola a esprimersi solo in francese). C’è una potenza tragica e fiera che alimenta le assassine acclarate o sospettate messe in scena da queste due registe dichiaratamente femministe, tutte e due membri del Collectif 50/50 (un’associazione femminista impegnata nella promozione dell’uguaglianza tra i generi, gli orientamenti sessuali e le etnie nell’industria audiovisiva francese nata nel 2018), che mi fa evadere dalla miseria della cronaca nera e delle statistiche sui crimini.
La realtà rappresentata dai media è composta, in maggioranza, da donne vittime impotenti e uomini carnefici, eppure il pubblico della cronaca nera, del true crime e della tv del dolore coltiva una passione intensa e palese per gli assassinii per mano femminile. L’ultima stagione (2023/2024) di Un giorno in pretura, format cult di Rai Tre che ripercorre alcuni tra i processi italiani più interessanti e controversi degli ultimi decenni, è dedicata a casi giudiziari che hanno al centro proprio delle imputate donne. Tre puntate con quattro protagoniste: l’infanticida Alessia Pifferi, le sorelle matricide di Temù e la “mantide della Brianza”. Tre processi che si chiudono con condanne severissime: ergastolo per la donna che a Milano ha abbandonato e lasciato morire di stenti la figlia di un anno e mezzo, ergastolo per le due sorelle, di cui la minore ventenne all’epoca dei fatti, che assieme al “fidanzato in comune” uccisero e occultarono il cadavere della madre in un paesino tra i monti bresciani, infine, sedici anni a Tiziana Morandi che per anni drogò con benzodiazepine e derubò uomini adescati online. Un repertorio desolante di donne tanto malvagie quanto fragili e infantili. L’infanticida Pifferi con l’ossessione per la validazione maschile che chiede al PM, “la smetta di rimproverarmi”, Silvia Zani che riferisce alla corte che il co-imputato ed ex co-fidanzato è stato lasciato dalla sorella maggiore che “ora è single”, Tiziana Morandi confrontata dall’accusa circa le foto esplicitamente ritoccate che usava sui social per attirare i clienti-vittime che dice di essersi imbruttita in carcere e si dichiara “innocente, ma troppo buona”. Nella finzione, imputate che parlano con la fierezza di chi accusa, come un’Antigone o una Medea, nella realtà, imputate che si esprimono come le partecipanti a un format ideato da Maria De Filippi. È in questa distanza siderale tra il crimine immaginato e quello fattuale che si muove la chimera della violenza femminile: il rifiuto di farsi vittime, anche a rischio di apparire colpevoli, e l’impulso a farsi vittime anche quando colpevoli.
In Critica della vittima (nottetempo, 2024), Daniele Giglioli individua nella vittima l’eroe del nostro tempo. La capacità di questa figura di ottenere riconoscimento e prestigio, rimanendo in uno stato di sicurezza sancito dalla sua impotenza e irresponsabilità, ne fa un archetipo irresistibile per l’espressione dell’identità nell’era dei social network. Alla victimhood culture e al suo correlato, la therapy culture, si è interessata la sociologia e la politologia nordamericana degli ultimi vent’anni (mi riferisco, in particolare, agli studi del sociologo canadese Frank Furedi e ai lavori del giornalista e analista politico David Rieff) delineando un approccio critico rilanciato anche in Italia da studiosi di discipline diverse, dal diritto alla letteratura (oltre a Giglioli segnalo anche gli studi di Tamar Pitch e di Andrea Antonilli e Francesca di Murzio).
La diffusione pervasiva della cultura della vittima nel mondo occidentale è pressoché incontestabile e trova nelle questioni di genere uno dei propri ambiti di elezione. La propensione al vittimismo è stata abbondantemente diagnosticato all’interno della (auto)narrazione del femminile, mentre è difficilissimo imbattersi in critiche strutturate, quindi politiche, all’autocommiserazione che attraversa i discorsi dei maschi sulla loro condizione. Nella terza ondata femminista, le rappresentazioni più individualistiche e lagnose del cosiddetto femminismo “performativo” sono state denunciate da prospettive coerenti con le istanze anticapitaliste e post/anticoloniali intersezionali. È impossibile ammirare pensatrici come hooks, Davis e Crenshaw e non trovare problematica la perenne oscillazione del femminismo bianco liberale tra il polo passivo della vittima e quello attivo dell’empowerment, come scrive Ruby Hamad, in White Tears Brown Scars: How White Feminism Betrays Women of Colour (Melbourne University Publishing Ltd., 2019).
È in questa distanza siderale tra il crimine immaginato e quello fattuale che si muove la chimera della violenza femminile.
Nel campo più coeso, direi quasi granitico, dell’antifemminismo non mi è mai capitato di incrociare analisi autocritiche altrettanto profonde. L’adesione al paradigma della vittima è plebiscitaria e attraversa la “manosphere”, gli articoli de Il Foglio e i discorsi che mi capita di ascoltare al bar tabacchi sotto casa. I più vecchi dicono: “siamo costretti a fare lavori più usuranti e pericolosi, ci danno sempre l’obbligo di mantenimento e mai l’affido, le scrittrici hanno successo per via di una strategia di marketing”, i più giovani: “non riusciamo a scopare a gratis, viviamo alienati di fronte a un computer perché siamo stati bullizzati da piccoli o hanno riposto in noi troppe aspettative, tendiamo ad ammazzarci”, e in coro battono i pugni sul tavolo e innalzano il loro lamento: “smettetela di dire che siamo cattivi, stiamo male!”. Posso tentare di empatizzare con alcune di queste professioni di dolore senza essere maschilista, il problema è che mi suscitano una pena e, soprattutto, una noia infinita. Sarebbe più stimolante se gli oppositori del femminismo riuscissero, come fa una percentuale minoritaria ma rumorosa della controparte femminista, a esprimersi in merito all’epidemia di autocommiserazione che li ha travolti negli ultimi decenni. Da questa coscienza emotiva potrebbe sgorgare un sano bisogno di orientare la propria energia verso bersagli un minimo più sensati delle ragazze attraenti che preferiscono gli uomini molto ricchi e i guadagni facili di OnlyFans a una vita di duro lavoro.
I film di Triet e Diop forse forse ci dicono poco o ci mostrano solo piccole eccezioni rispetto alla realtà fragile e un po’ patetica della maggioranza delle donne assassine, però ci suggeriscono che alle donne spetti una battaglia crudele per l’emancipazione dal loro destino di vittime designate, perché a un destino ci si abitua e, per forza di cose, ci si affeziona. È doveroso che la parte principale di questa lotta si svolga fuori dai tribunali poiché, come ci mostra Un giorno in pretura, nei luoghi della giustizia penale le donne entrano quasi irrimediabilmente come vittime, morte o vive, oppure come carnefici disperate e folli.