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requentavo il liceo classico di una cittadina in provincia di Padova e ricordo ancora nei dettagli una conversazione con una mia compagna di classe sulla strada che ci portava alla stazione per prendere l’autobus del ritorno. La mia compagna si chiedeva del perché di quel vociferare in classe su uno scrittore che si chiamava Saffo e scriveva poesie dedicate alle donne di cui si era invaghito ma con cui non poteva vivere il proprio amore perché erano state date in sposa ad altri uomini. Il professore di greco ci aveva parlato di Saffo evitando sapientemente di nominare la parola lesbismo. Correggendo la mia compagna di classe sulla sua incomprensione capivo anche che il tremito che avevo sentito in classe era mio e forse solo mio. Certo non potevo essermi sbagliata, lo sapevo e basta.
Il prologo de Le figlie di Saffo, romanzo d’esordio di Selby Wynn Schwartz (Garzanti 2024, traduzione di Maria Giulia Castagnone), finalista del Booker Prize 2022 e inserito tra i 100 libri più importarti per il New York Times nel 2023, si apre con quel tremito:
Leggevamo Saffo a scuola nel corso di lezioni in cui tutto ciò che si insegnava era essenzialmente la metrica. Erano pochi i professori consapevoli di riempirci le vene di cassia e mirra. Con voce monotona ci parlavano dell’aoristo, mentre noi sentivamo le foglie degli alberi fremere per effetto della luce, formare chiazze ombrose, e dentro eravamo tutte un tremito. […] Allora non c’erano parole che ci definissero e ci aggrappavamo a ogni parola, anche se erano morte da secoli.
A quelle parole non dette mi c’ero aggrappata sapientemente: come dice la cantante greca Elefteria Arvanitaki, in Lianotragoudo (1996) “non si dimenticano le parole mai dette”. Incuriosita, in uno dei miei recenti ritorni in Italia cerco e ritrovo, in una pila di vecchi libri nell’armadio della mia vecchia camera da letto Lirici greci e poeti ellenistici (Le Monnier 1989) quell’antologia dove avrei continuato a cercare, come dice Le figlie di Saffo “l’aithyssoménon, il sentimento che evoca lo stormire delle foglie che si muovono senza che niente le sfiori, se non la luce pomeridiana”.
Come dice la cantante greca Elefteria Arvanitaki, “non si dimenticano le parole mai dette”.
Saffo vi compare in mezzo a una lunga sfilza di autori maschili, seguita da Alceo, poeta come lei di Mitilene. Rileggo quei versi in greco, esempi di poesia eolica, accompagnati da un lungo apparato di note, sui cui si parla di forme contratte, aoristi, aspirazioni mancanti, metrica. Il tutto spiegato con rigorose citazioni da altri studi. La filologia, mi ripeto, è una pratica rigorosa, uno scavare le parole come fossero abissi, per citare Giuseppe Ungaretti in Commiato (1916). Eppure, nonostante tutto quel rigore qualcosa, in quella classe di greco al liceo, ci era evidentemente stato taciuto. Riprendo i frammenti di una poesia (frammento 94D), una delle mie preferite, in cui si parla della luna, delle Pleiadi e dell’attesa notturna della persona amata.
La chiosa dell’antologia dice che dal momento che si deduce che Saffo non parli in persona propria si deve presumere che la protagonista si strugga nell’attesa di un amato. Vabbè, mi dico, io al posto di quell’amato avevo immaginato un’amata, me lo ricordo bene, ma l’eterosessualità obbligatoria, si sa, deve essere l’interpretazione filologica di default. D’altronde, se consideriamo che dei nove libri di poesie scritte da Saffo ci sono pervenuti solo frammenti, con l’eccezione di una poesia, non sorprende che la speculazione sia stata la pratica più ricorrente nell’interpretazione delle sue poesie. Frammenti di poesie trovati su papiri ma anche provenienti da citazioni di altri poeti e filologi dell’antichità magari solo interessati a mostrare, attraverso le poesie di Saffo, esempi di grammatica eolica.
Le figlie di Saffo parte proprio dall’idea di quei frammenti per dirci che abbiamo il diritto e dovere di immaginarli come ci piace, di inventarci un’altra storia, cominciando col rinominarci. Nel prologo del libro si dice appunto: “la nostra prima iniziativa fu quella di cambiarci il nome. Saremmo diventate Saffo”. “Un nuovo nome era come un taccuino intonso” in cui potevamo descriverci come volevamo. Il romanzo racconta infatti la storia di donne – attrici, scrittrici, ballerine, amiche e amanti- vissute tra ottocento e novecento, fra le quali figurano Lina Poletti, Sibilla Aleramo, Eleonora Duse, Eugenia Rasponi, Sarah Bernhardt, Isadora Duncan, Natalie Clifford Barney, Eva Palmer, Romaine Brooks, Berthe Cleyrergue, Virginia Wolf e Vita Sackville West, che hanno cercato l’indipendenza, che hanno tentato di creare futuri alternativi per sé, di vivere anche apertamente le loro relazioni lesbiche, di spezzare, a volte anche cambiando nome, varie catene di oppressione e violenza patriarcale, come quelle catene portate al collo dal personaggio di Nora, impersonato da Eleonora Duse, nel dramma di Ibsen Casa di bambola.
Come i frammenti di Saffo il romanzo di Schwartz è un’opera non lineare, in cui le vite delle protagoniste sono raccontate in modo frammentato, sulla scia dei “Short talks” (1987) (brevi discorsi), della scrittrice canadese Anne Carson a cui Schwartz si ispira (e a Carson si rifà anche per la traduzione inglese dei versi di Saffo, If Not Winter 2003). Tuttavia, questi frammenti o vignette di vite si intrecciano ne Le figlie di Saffo in modo magistrale tra di loro a mo’ di cerchi concentrici. Quello che li tiene insieme è una voce narrante collettiva, un noi, che ci ricorda il coro del teatro greco classico, simbolicamente rappresentato dall’amore e dal legame di queste donne con Saffo ma anche da Lina Poletti, a cui il romanzo è dedicato: “a tutt3 voi che siete Lina Poletti.” “Era stata Lina”, si dice ne Le figlie di Saffo, “a prometterci che il nostro coro non sarebbe mai stato messo a tacere.” Lina, scrittrice femminista e anarchica, con cui la narrazione si apre e si chiude, è la figura principale del romanzo: è colei che avrebbe cambiato il nome da Cordula a Lina perché era Lina “quella che avrebbe letto Saffo”, che avrebbe imparato a tradurla senza dizionario per scoprire “di essere una di noi.”
Come i frammenti di Saffo il romanzo di Schwartz è un’opera non lineare, in cui le vite delle protagoniste sono raccontate in modo frammentato.
Se è questo noi narrante a tenere insieme tutte queste storie, Schwartz ci dice che sono le vite stesse delle protagoniste del libro ad essere inevitabilmente intrecciate. Non solo c’era il salone letterario e le feste con performance a casa di Natalie Clifford Barney a Parigi, che molte donne avevano frequentato, ma queste donne si leggevano, scrivevano ispirandosi le une alle altre, andavano a teatro a vedere i loro spettacoli e si traducevano. Renée Vivien traduceva Saffo in francese; Sibilla Aleramo traduceva Renée Vivien dal francese all’italiano; Natalie Clifford Barney traduceva Gertrude Stein dall’inglese al francese. Scrivere, tradurre e recitare per queste donne ha significato riempire i vuoti lasciati dai frammenti delle poesie di Saffo, “intessendo e ricamando” attorno ad essi le loro vite, ricucendo su di essi brandelli della propria vita. “Le nostre vite sono i versi mancanti dei frammenti” si dice. Tessere, ricamare, intrecciare sono verbi ricorrenti nel romanzo.
Le figlie di Saffo è dunque un’invocazione poetica a riprenderci le nostre vite: Dobbiamo accogliere la speranza di poterci realizzare in tutte le forme e i generi che ci sono familiari. Il futuro di Saffo saremo noi […] Dai suoi frammenti sarebbe emersa la nostra forma, nuova e moderna. Il nostro stato d’animo avrebbe avuto un futuro […] Ora era Saffo che sarebbe diventata noi.
Questa invocazione poetica è per lo più incarnata dalla figura di Lina Poletti, colei che ci può mostrare il nostro futuro perché più avanti di noi. Lina è definita come un’onda violenta e luminosa: Lina cavalcava un’onda che ci schiantava, lasciandoci ansimanti […] Ci indicava come vivere il futuro anche se non lo sapevamo […] come se tutte noi fossimo immerse in un mare in tempesta e Lina, solo Lina, fosse riuscita a salire sulla cresta di un’onda per avvistare la terra.
Lina rappresenta dunque la poeta che ci indica il futuro, il nostro divenire. Lina rappresenta tutte noi, quel noi corale menzionato sopra. Questa scena è intrisa di poesia, poesia che mi ha lasciata spesso con gli occhi “liquidi”, per riprendere una magnifica espressione usata per descrivere Lina Poletti. Le immagini evocate sono ispirate agli elementi naturali, come d’altronde in molte altre scene del romanzo: la luce, le onde e il mare che richiamano in primis quel noi marea femminista nello slogan “siamo marea” del movimento transfemminista Non Una di Meno che ha certamente influenzato l’autrice. È anche una scena che richiama l’invocazione ad Afrodite del frammento 2 di Saffo riportata nel romanzo: Un poema cletico è un’invocazione, insieme un inno e una supplica. Si inchina in segno di rispetto verso il divino, luminoso e splendente, e al tempo stesso lo chiama, quasi a chiedere: “Quando arriverai? Perché il tuo splendore è così lontano dai miei occhi? […] La poetessa vive sempre in un momento cletico, indipendentemente dal secolo in cui nasce. La poetessa invoca e attende. Giace all’ombra del futuro e sonnecchia tra le sue radici.
Lina e Saffo vivono in un momento cletico, vivono nel futuro e ci aspettano. Le poete, racconta una bellissima scena del romanzo sull’incontro di Lina Poletti e Sibilla Aleramo al congresso nazionale delle donne italiane del 1908, sono coloro che si allontanano dalla riva per arrivare ad un’isola della propria immaginazione. Le figlie di Saffo, dunque, chiede a noi lettor3 di anticipare, di immaginare, di crearci possibilità di vita. D’altronde, sulla scia della scrittura di Anne Carson, l’autrice stessa in una presentazione del libro dice che il romanzo ci chiede di inserirvi le nostre esperienze, di riempire i vuoti tra i frammenti, di “conquistare i volumi delle nostre vite”, come hanno fatto le protagoniste che lo popolano.
“Quando non ricordi, inventa”, mi viene in mente, pensando a Monique Wittig. Voglio allora tornare al ricordo del liceo con cui ho aperto questo mio testo, al genitivo del ricordo, più precisamente. Ne Le Figlie di Saffo si nomina il genitivo della memoria, che, contrariamente al caso che riguarda le relazioni tra sostantivi e che ha una connotazione di possesso, si riferisce invece a quelle situazioni “in cui una parola pensa sempre ad un’altra.” Il verbo eolico “kluo”, che significa prestare ascolto, usato da Saffo nei poemi cletici menzionati sopra, regge appunto il caso genitivo. Le figlie di Saffo, potremmo dire, ci chiede di dare ascolto alla memoria, al ricordo: ricordare come gesto di riconoscenza verso il passato proiettato verso un futuro che ci sta aspettando. Ricordo come dare ascolto alla speranza. Alla vigilia della mia oramai annuale partenza per l’isola di Lesbo, alla via che prosegue “dritta fino a Saffo”, come dice il romanzo, voglio allora ricordare, citando le Le figlie di Saffo, la nostra e la mia speranza di allora “che in letteratura le donne potessero prima o poi baciarsi apertamente”. Questo ricordo di speranza, questo aithyssoménon, è “il fremito delle foglie illuminate dalla luce nell’attimo che precede l’arrivo”. Ricordiamoci di chi siamo e di chi saremo. Insieme siam partite, insieme torneremo: non una di meno, non una di meno!