L’ orso fa parte della megafauna carismatica: è amato, temuto, odiato. Non sono così numerosi gli animali che suscitano sentimenti tanto contrastanti ed è interessante, perciò, provare a capire da dove provengano queste contraddizioni. Uno dei temi più comuni nelle storie sugli orsi tramandate fino ad oggi è l’ipotesi di una stretta parentela fra questi plantigradi e gli esseri umani. Tra tutti gli animali che un abitante dell’Eurasia e delle Americhe dei tempi antichi poteva incontrare, come riporta lo scrittore Bernd Brunner in Uomini e orsi. Una breve storia (2010), l’orso era quello che più assomigliava a noi. Nel suo libro Brunner prova a immaginare un ipotetico primo incontro tra le due specie, pensando soprattutto allo stupore che la posizione eretta assunta in alcune situazioni dall’orso avrà provocato in quegli umani: “solo pochi tipi di roditore e, curiosamente, i gufi stanno in posizione verticale come gli uomini”. Oltre a questa peculiarità, nei primi incontri avrà provocato stupore la capacità degli orsi di cogliere la frutta con le zampe anteriori con destrezza, la posizione frontale degli occhi, le impronte abbastanza simili agli umani, il fatto che si nutrissero delle stesse cose, e che probabilmente fossero in competizione per l’utilizzo delle caverne. In più, dopo averlo scuoiato, i cacciatori preistorici avranno visto in modo ancora più chiaro quanto quel corpo snello e chiaro somigliasse al loro. Se da un lato poteva scaturire un’intima connessione, dall’altro poteva nascere un’impegnativa rivalità.
L’esistenza di un culto preistorico dell’orso praticato in diverse regioni dell’emisfero settentrionale in età paleolitica ha suscitato e suscita tutt’oggi discussioni molto accese tra gli studiosi. Secondo Michel Pastoureau, storico medievista e autore di L’orso. Storia di un re decaduto (2008), “il dibattito scientifico sembra aver assunto toni particolarmente appassionati, quasi religiosi, con tanto di dogmi, divieti, parrocchie e scomuniche”. Anche se questo animale non era decisamente il protagonista dal punto di vista numerico del bestiario artistico della Preistoria, visto che era abbondantemente superato da cavalli, bisonti, mammut e altri erbivori, aveva comunque un’importanza culturale innegabile. “La traccia più antica dei legami simbolici che uniscono l’uomo e l’orso”, spiega Pastoureau, “sembra potersi situare circa 80.000 anni fa nel Périgord, nella grotta del Regourdou, dove una sepoltura umana neanderthaliana è posta accanto alla sepoltura di un orso bruno sotto un’unica lastra tra due blocchi di pietra, dimostrando in modo immediato lo statuto particolare di questo animale”.
Non può non comunicare una certa spiritualità, poi, il teschio d’orso posto accuratamente al centro di una pietra che ricorda un altare, rivolto verso l’entrata, in una sala circolare, svuotata di ogni traccia di arredo o frammenti di ossa, nella grotta di Chauvet, dove sono state ritrovate pitture rupestri di impressionante bellezza. Tutto intorno, schegge di carbone (un potenziale incenso?) e molte decine di crani disposti in cerchio. La grotta ha incisioni di artigli sulle pareti, tracce di peli, sfregamenti, passi, giacigli, resti di ossa: è evidente che è stata abitata da questi animali, prima e dopo la nostra presenza. Il peculiare allestimento, però, non è stato compiuto da loro o causato da accidenti geologici o climatici: è sicuramente opera umana.
Dopo averlo scuoiato, i cacciatori preistorici avranno visto in modo ancora più chiaro quanto il corpo snello e chiaro dell’orso somigliasse al loro.
Più tardi, nella mitologia greco-romana, in quella germanica e celtica, nell’Occidente antico e medievale si ritrovano numerose testimonianze che attestano l’esistenza di un culto dell’orso, espresso certo in forme diverse, ma che proviene da molto lontano. Nel mondo greco questo animale accompagna diverse divinità, soprattutto Artemide: dea della caccia, della luna – in molte culture asiatiche, soprattutto nella Siberia orientale, orso e luna hanno un legame simbolico, entrambi si coricano e scompaiono prima di rinascere –, dei boschi e delle montagne e protettrice degli animali selvatici. Artemide trasformò la ninfa Callisto in un’orsa, e secondo la versione più antica e frequente lo fece anche con Ifigenia, la figlia di Agamennone. Quello della metamorfosi è uno dei tre temi principali che nella mitologia uniscono uomini e orsi, e nel mito greco è la stessa Artemide ad assumere spesso le sembianze dell’orsa. Il secondo tema è quello del bambino raccolto e nutrito da un animale selvatico, all’origine di miti e leggende sugli eroi: se Romolo e Remo vengono allevati da una lupa, nella mitologia greca esistono almeno due storie che ruotano intorno alle orse, rappresentate come materne e protettive. Sia Atalanta, l’unica donna a essere ammessa nella spedizione degli Argonauti, che Paride vennero infatti abbandonati nella foresta per poi essere adottati e nutriti da questi animali. Il terzo tema è quello degli amori e delle unioni – a volte feconde – tra le due specie: nelle tradizioni orali europee l’orso maschio era considerato come molto attratto dalle donne, pronto a rapirle e a congiungersi con esse, per generare così una discendenza ibrida.
“Ogni cultura, in un certo momento della sua storia, elegge un ‘re degli animali’ e ne fa il protagonista del suo bestiario simbolico”, scrive Pastoureau. “La lingua, le tradizioni orali, le creazioni poetiche, il mondo degli emblemi e delle rappresentazioni accordano allora a quell’animale una superiorità su tutti gli altri e un posto centrale nelle credenze, nei culti e nei rituali. […] Il re degli animali, sempre e ovunque, è quello che non può essere sconfitto da nessun altro animale”. In Europa questo titolo spettava in origine all’orso, che divenne quindi l’attributo di capi e guerrieri. Alla forza muscolare si unisce la resistenza alla fatica, alle intemperie, e il fatto che l’orso non teme alcun altro animale presente nel suo ambiente: Germani, Celti, Slavi, Balti e Lapponi, anche se in forme diverse, lo hanno tutti venerato. Per i popoli dell’Europa mediterranea, che avevano avuto occasione di vedere leoni, elefanti e altri animali esotici – magari nei giochi del circo – le cose andarono diversamente: il trono del bestiario andò al felino, oppure al pachiderma.
Re degli animali, attributo di capi e guerrieri, simbolo di violenza e potenza sessuale, nostro parente o addirittura antenato, amante di giovani donne con le quali si riteneva si accoppiasse, presente in tutti i territori, ammirato e temuto: non è difficile capire perché l’orso apparisse alla Chiesa cristiana altomedievale come il più minaccioso tra tutti gli animali, una vera e propria creatura del demonio. Furono vescovi ed ecclesiastici a decidere che dovesse essere sterminato, almeno in terra germanica. Intorno all’Ottavo secolo in Sassonia e nelle regioni circostanti veniva adorato come un vero e proprio dio, con tanto di rituali frenetici e sanguinosi, come berne il sangue per guadagnarne la forza: per convertire le popolazioni germaniche al Cristianesimo occorreva sradicare queste credenze pagane. Vennero organizzate battute di caccia massicce, si iniziò a presentare questi animali come sottomessi e domati da numerosi santi, mentre teologi e predicatori lo resero l’incarnazione di molti vizi e lo posero in posizione privilegiata nel bestiario satanico.
L’orso appariva alla Chiesa cristiana altomedievale come il più minaccioso tra tutti gli animali.
Questa guerra sull’immaginario dell’orso venne combattuta anche con il calendario: giochi e rituali pagani legati all’ammirazione per l’invincibile animale vennero sostituiti con le feste di santi importanti, a volte anche solo a livello locale o regionale, che avevano qualche legame con l’orso. Un esempio su tutti è quello di San Martino, la cui festività venne fissata l’11 novembre – data in cui i contadini di buona parte dell’Europa temperata festeggiavano il supposto inizio del letargo dell’orso, che segnava simbolicamente il passaggio dalle attività all’aperto a quelle in casa, dalla vita alla morte. La scelta era tutt’altro che casuale: oltre a essere un santo importante, il nome proprio Martino comprende la radice *art-, alla base del nome dell’orso nella maggior parte delle lingue indoeuropee, soprattutto nel greco e nelle lingue celtiche.
In più, nella vita di San Massimino, leggendario amico di San Martino, si trova un episodio interessante: i due santi si stavano recando in pellegrinaggio a Roma, con due asini che trasportavano i loro bagagli, quando un orso apparve e divorò l’asino di san Massimino, spingendo san Martino a intervenire, assoggettare l’orso e costringerlo a trasportare i bagagli del suo compagno. Questo è un vero e proprio topos agiografico, che si può trovare molto frequentemente. Bisogna poi considerare che Plinio il Vecchio, in quella Storia naturale sempre molto letta dai Padri della Chiesa, dopo averlo descritto come un animale particolarmente legato alle stagioni, in modo abbastanza inaspettato lo demolisce con una frase: “nessun altro animale è più scaltro nel far del male pur nella sua stoltezza”. La sentenza definitiva venne pronunciata alcuni secoli dopo da Sant’Agostino: “l’orso è il diavolo”.
Già domato e reso diabolico, dopo l’anno Mille si passò all’umiliazione: le ostilità verso gli spettacoli con animali da parte delle autorità ecclesiastiche cessarono nei confronti dei domatori di orsi. Trasformato in un animale da circo, incatenato e con la museruola, girava al seguito di guitti e giullari, danzando, eseguendo esercizi e divertendo il pubblico. In quel periodo, complice la crescita demografica e il maggior bisogno di legname, le foreste diminuirono, facendo scomparire gli orsi dalle pianure e relegandoli sulle montagne, dalle quali scendevano solo in caso di mancanza di cibo. Tra la fine del Dodicesimo e l’inizio del Tredicesimo secolo l’orso era diventato un animale selvatico come gli altri, persa ormai ogni memoria del suo antico ruolo di re degli animali nelle culture ancestrali. Nel Le Roman de Renart è ormai una bestia stupida, ridicola, umiliata, golosa, ingenua, timorosa, sensibile: l’unica qualità positiva che le viene attribuita è la fedeltà al re, adorno, appunto, di criniera.
Trasformato in un animale da circo, incatenato e con la museruola, l’orso girava al seguito di guitti e giullari, danzando, eseguendo esercizi e divertendo il pubblico.
Detronizzato e ancora perseguitato, alla fine del Medioevo l’orso sopravviveva in montagna, al riparo dell’uomo. Secondo la ricostruzione di Pastoureau, non si avvicinava più ai villaggi o alle fattorie, raramente alle greggi, ed era difficile riuscire a incontrarlo o ancor più averlo come trofeo di caccia. Contemporaneamente, l’orso spariva poco alla volta da testi, immagini e bestiari – compreso quello diabolico –, restava però nei simboli e nei sogni, creatura ormai quasi esotica. Intorno alla fine del Millecinquecento, di nuovo divenne termine di paragone per gli uomini: il naturalista Giovan Battista Della Porta classificava lombrosianamente le tipologie umane in base alla loro somiglianza con alcuni animali, e l’orso ispirava per lui solo caratteristiche negative, come essere macchinatore, pericoloso, sleale. Diversi studiosi lo hanno inquadrato in modo opposto, rivelando forse non molto sugli orsi in sé, ma di sicuro di più sulla tendenza a proiettare su di loro caratteristiche umane, sia positive che negative.
Nell’Ottocento quello che si sapeva degli orsi proveniva da fiabe e favole antiche, che avevano davvero poco in comune con l’animale reale. “Rosabianca e Rosarossa” dei fratelli Grimm assomiglia a “La bella e la bestia”, ma il protagonista è un orso, che ritorna poi a essere un principe: è una piccola rivoluzione nel modo di guardare a questi animali, che ricorda e ristabilisce il nostro antico legame con loro. Secondo Brunner, “questo nuovo atteggiamento potrebbe essere derivato dalla consapevolezza che gli orsi erano scomparsi da vaste zone della Terra, che si trattava dunque di animali in pericolo e quindi preziosi”. Più tardi, anche nel mondo dei giocattoli avviene una rivoluzione simile: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento comparvero orsi meccanici ricoperti di pelo, carillon e altri divertimenti meccanizzati. “È difficile evitare il pensiero che gli orsi abbiano dovuto scomparire dalle foreste”, scrive Brunner, “prima che riuscissimo a percepirli attraverso questa lente di amabile inoffensività”.
Fu sulla linea di questa riscoperta commerciale che si arrivò al famoso Teddy Bear, ai racconti e ai romanzi prima e ai cartoni animati poi di Winnie The Pooh, a Yogi, Paddington o Masha e Orso, con relativi merchandising. Un peluche, un animale goloso e pasticcione, totalmente innocuo e amico dei bambini: una creatura immaginaria, che ha sostituito quella reale di cui non abbiamo più esperienza da generazioni. A questa rappresentazione si contrappone quella “selvaggia” e indomabile di film come Vento di passioni, o del più recente The Revenant, che mostrano un orso più vero, potenzialmente pericoloso anche per l’uomo, in grado di atterrirci ma anche di attrarci. O quella del documentario Grizzly Man di Werner Herzog, in cui, pur senza cinismo, viene mostrato come antropomorfizzare questi animali e la natura in generale sia un errore che si rischia di pagare molto caro, anche quando lo si fa per proteggerli. Brunner ha scritto il suo saggio oltre un decennio fa, eppure le sue parole sono di un’attualità disarmante:
Quasi nessuno oggi sa più che cosa significhi vivere con gli orsi. Quando un orso si arrischia ad avvicinarsi agli esseri umani, la sua presenza in genere viene interpretata come una minaccia per la vita e per i beni materiali o come un evento eccezionale, oppure entrambe le cose insieme. […] Gli orsi si trovano al crocevia tra due impulsi umani molto radicati ma in contraddizione tra loro: il desiderio di sentirsi protetti dai pericoli imprevedibili e la brama di natura incontaminata. […] Nessun progetto per dare accoglienza agli orsi, per quanto ambizioso, può avere successo senza un impegno autentico della popolazione locale a condividere gli spazi con questi grandi predatori.