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i tutte le cose che ci sono in terra, quelle che conosciamo meno sono le profondità dell’oceano. Esplorarle, così come esplorare l’immensità dei cieli, non è per tutti: siamo creature affamate d’aria, nate e cresciute in mezzo all’aria e abituate a esserne circondate. Per alcuni, però, esplorare l’oceano e lavorare sott’acqua è un privilegio e una meraviglia, oltre che una fatica. Oggi sui documenti ufficiali italiani vengono denominati OTS, che sta per “operatori tecnici subacquei”, e all’estero vanno sotto il titolo di Commercial Diver, ma in realtà continuano a chiamarsi sommozzatori, e come tutti i mestieri, quello di sommozzatore ha i suoi rischi. Alcuni sono lievi o moderati, come i traumi dell’orecchio interno ed esterno e dei seni paranasali, che si manifestano quando non c’è equilibrio tra la pressione interna ed esterna al corpo. Sono i cosiddetti “barotraumi” che, oltre a causare dolore, se non trattati possono danneggiare il sistema uditivo e vestibolare.
Altra cosa, assai più seria, è la malattia da decompressione. Quando un sommozzatore si immerge in acqua, la pressione esterna al suo corpo aumenta di poco meno di un’atmosfera ogni dieci metri di profondità. L’aumento della pressione esterna fa sì che i gas inerti presenti nell’aria (tra cui, in particolar modo, l’azoto) entrino in soluzione nel nostro sangue e nei nostri tessuti; lì rimangono durante l’immersione senza causare problemi, almeno fintanto che il corpo resta suppergiù alle stesse profondità. Se però il corpo emerge troppo rapidamente, i gas tornano al loro stato aeriforme e formano bolle, non diversamente da una bottiglia d’acqua frizzante che viene stappata. In certe condizioni, le bolle che si formano nel sangue e nei tessuti possono raggiungere diversi organi vitali, portando a uno stato di embolia generalizzata la cui gravità dipende sostanzialmente dalla velocità di risalita, dal tempo di permanenza alla quota e dalla profondità stessa.
Di tutte le cose che ci sono in terra, quelle che conosciamo meno sono le profondità dell’oceano.
Questa condizione è chiamata in inglese the bends, perché è associata a una sequela di sintomi – fiato corto, forte dolore alle articolazioni e all’addome – che porta le vittime a piegarsi (“to bend”) in avanti in una posizione caratteristica; può apparire anche a distanza di diverse ore e nei casi più gravi compromette il sistema nervoso centrale, causando paralisi e morte. Per questa ragione, chiunque compia immersioni a una certa profondità deve emergere lentamente, in tappe, in modo che le microbolle di gas che si formano nei tessuti abbiano il tempo di essere trasportate dal sangue ai polmoni ed espulse in sicurezza.
“Nelle immersioni di bounce diving, che avvengono a profondità relativamente basse, la quantità di gas inerte che si discioglie nel nostro corpo e il successivo tempo di decompressione sono funzione di due cose: la quota e il tempo di esposizione”, mi spiega il comandante Maurizio Chines, responsabile delle operazioni subacquee per Saipem, società che costruisce e installa piattaforme e gasdotti offshore. Chines è specializzato in medicina iperbarica, una disciplina che tra le altre cose studia gli effetti delle alte pressioni sul corpo a scopi diagnostici e terapeutici. “Facciamo un esempio: se uno lavora, diciamo, a 40 metri di profondità per 12 minuti non c’è bisogno di decompressione, mentre per 30 minuti sì, con un tempo di decompressione che è una funzione esponenziale del tempo di esposizione. In questo caso è necessario attenersi a delle tabelle dettagliate che stabiliscono il numero di immersioni ammesse in un certo periodo, il tempo massimo trascorso sott’acqua, l’intervallo di tempo tra immersioni consecutive e le modalità di decompressione”.
Immergersi in saturazione
Ci sono diversi modi di classificare le attività dei sommozzatori, a seconda delle profondità raggiunte e dei tempi di permanenza; la principale distinzione è comunque tra basso e alto fondale, se le profondità di lavoro sono rispettivamente inferiori o superiori a 50 metri. Lavorare in alto fondale implica trovarsi a pressioni molto alte (più di 5 atmosfere): questa attività richiede un addestramento particolare che va seguito in aggiunta a quello standard di basso fondale, da completarsi in strutture specializzate a costi non indifferenti (dai ventimila ai trentamila euro a seconda del centro).
Centri per l’addestramento di alto fondale si trovano per esempio alla Norsk yrkesdykker skole (NYD) in Norvegia o alla Professional Diving Academy di Dunoon in Scozia. Fino a poco tempo fa era attivo anche lo storico Institut National de Plongée Professionnelle a Marsiglia, che però rischia oggi la chiusura permanente. Fuori dall’Europa, troviamo il Professional Diving Center di Durban, in Sudafrica, o ancora in Tasmania, la Commercial Dive Academy. In Italia, il Cedifop di Palermo si appresta a inaugurare i primi corsi per altofondalisti civili, che si aggiungono a quelli di Comsubin riservati ai membri della Marina Militare.
Le certificazioni rilasciate per lavorare in alto fondale, valide in tutto il mondo secondo gli standard della International Marine Contractors Association, sono quelle di closed bell diver, così chiamate perché per raggiungere le profondità richiesta è necessario discendere dalla superficie in una campana chiusa (“closed bell”) a tenuta stagna che può mantenere al suo interno una pressione superiore a quella dell’ambiente subacqueo circostante. Queste immersioni sono definite in saturazione perché sfruttano il fatto che, una volta che la concentrazione nei tessuti di gas inerti (come l’azoto) raggiunge un certo valore, i tessuti si saturano e non viene accumulato altro gas. Perciò, la fisiologia delle immersioni in saturazione è diversa da quella delle immersioni di altro tipo: lavorando in saturazione, la procedura di decompressione dipende solo dalla quota raggiunta.
Come tutti i mestieri, quello di sommozzatore ha i suoi rischi: alcuni sono lievi o moderati, altri più seri come la malattia da decopressione.
Nella normale pratica di immersione in saturazione, si possono raggiungere in sicurezza profondità di circa duecento metri. La massima profondità in acqua (534 metri) è stata raggiunta nel 1988 nel corso di una serie di immersioni sperimentali condotte nel Mediterraneo dalla compagnia francese Comex per testare alcune miscele di gas da usare nei respiratori. Nel 1992 Théo Mavrostomos, un sommozzatore della stessa compagnia, ha trascorso due ore in una camera iperbarica che, aumentando la pressione esterna, simulava le condizioni alla profondità record di settecento metri.
Gran parte delle immersioni di saturazione sono oggi richieste per assemblare condutture di profondità per il trasporto di idrocarburi, ma le loro applicazioni si estendono al soccorso dei sommergibili, alla manutenzione e al controllo dell’integrità di qualunque struttura sommersa e in generale al recupero di tutto ciò che può trovarsi in profondità, come i reperti archeologici. Per esempio, a partire dal 2005 la Historical Diving Society Italia, associazione di promozione sociale impegnata nella ricerca, conservazione e comunicazione della storia della subacquea, finanziò e coordinò le operazioni di recupero del carico di preziosi a bordo del piroscafo Polluce, naufragato nel 1841 nei pressi dell’isola d’Elba – operazioni che in seguito, trovandosi il relitto a una profondità di circa cento metri, avrebbero richiesero l’intervento di sommozzatori in saturazione della Marina Militare italiana.
Routine iperbariche
“In realtà, rispetto al bounce diving, le immersioni in saturazione comportano rischi gravi molto minori”, continua Chines, “e il numero di incidenti in rapporto alle ore di immersione per il lavoro in saturazione tende a zero. Le tabelle di decompressione per le normali immersioni vengono compilate sulla base di una stime del rischio euristiche, e sono sicure nella quasi totalità dei casi, ma può capitare che, malgrado un sommozzatore vi si attenga scrupolosamente, sviluppi comunque una malattia da decompressione. Questo non succede per le immersioni in saturazione”.
Può sembrare controintuitivo, ma il nostro corpo è in grado di adattarsi ragionevolmente bene a pressioni anche molto più alte di quella a cui siamo abituati. “Siamo fatti fondamentalmente di liquidi, soprattutto acqua. I nostri spazi aerei interni sono molto esigui”, racconta Dario Fiorentino, sommozzatore freelance di alto fondale, in un’intervista al podcast Scientificast. “Dal punto di vista fisico, trovarsi a duecento metri di profondità, cioè a circa venti atmosfere di pressione, non fa molta differenza. Basta fare attenzione a mantenere respiri profondi e regolari, dato che a queste pressioni, se si entra in un regime di fiato corto, è più difficile uscirne”.
Ciò che conta per la nostra fisiologia e per il rischio di formare emboli non è la pressione in sé, né le variazioni assolute di pressione: sono invece importanti i valori relativi, ossia il rapporto tra quanto la pressione esterna è variata rispetto ai valori di partenza. Se ci muoviamo partendo da pressioni già alte, questo rapporto sarà molto basso, a parità di escursione, rispetto a quello che si avrebbe per chi lavora vicino alla superficie. Ne consegue che i movimenti verso l’alto o il basso comporteranno un rischio trascurabile. Non che lavorare in saturazione sia una passeggiata: bisogna infatti tenere conto che il tempo di decompressione quando si è in saturazione è molto lento, richiedendo che i sommozzatori risalgano in superficie alla velocità approssimativa di un metro ogni ora. Ciò significa che ci vogliono giorni per risalire, ed è chiaro che è necessario un supporto meccanico.
Può sembrare controintuitivo, ma il nostro corpo è in grado di adattarsi ragionevolmente bene a pressioni anche molto più alte di quella a cui siamo abituati.
È dunque indispensabile organizzare una routine molto specifica per chi lavora in saturazione: il sommozzatore è riportato in superficie all’interno della campana in cui è sceso, che viene mantenuta alla stessa pressione della profondità di lavoro e quindi non richiede tempi di decompressione. Da qui si trasferisce nell’impianto di saturazione, una struttura apposita collocata in superficie presso una nave o il pontone di una piattaforma offshore, a seconda del lavoro commissionato, dove la pressione, inizialmente uguale a quella della campana, viene in seguito lentamente diminuita fino a quella atmosferica.
Ora, per le compagnie che si servono di questi sommozzatori non è economicamente conveniente farli lavorare per poche ore in saturazione, dato che comunque devono trascorrere diversi giorni a riposo ogni volta che risalgono alle pressioni di superficie. Perciò si sfrutta il fenomeno per cui, una volta raggiunta la saturazione, i tessuti del corpo non incamerano più gas al passare del tempo: i sommozzatori non effettuano la decompressione ogni volta che si immergono, ma restano sotto alta pressione per diverse settimane.
Ventotto giorni è il periodo massimo ammesso dall’industria per la permanenza negli impianti di saturazione. Questi possono essere immaginati come l’equivalente di mini basi spaziali: sono habitat isolati composti da camere iperbariche delle dimensioni di un silo con cuccette dove ciascun sommozzatore può trascorrere il tempo tra un’immersione e l’altra e quello della decompressione all’asciutto, in una situazione più comoda (anche se non troppo). I rifornimenti di nutrimento, ossigeno e altre risorse pervengono al personale nell’impianto tramite appositi scomparti chiamati “passa oggetti”, che vengono pressurizzati dall’esterno e permettono di trasferire il necessario.
Gli impianti di saturazione possono essere immaginati come l’equivalente di mini basi spaziali.
Nel corso di queste settimane, i sommozzatori si danno il cambio su turni di otto ore ciascuno, in modo da mantenere un’operatività continua sull’intera giornata. Al termine del periodo in saturazione, i sommozzatori si sottopongono a un’unica decompressione finale, mentre nel frattempo altre squadre si preparano a prendere il loro posto: con questo ciclo a staffetta, si può andare avanti a lavorare con continuità sul fondale anche per parecchi mesi o anni.
Gli impianti di saturazione sono comodi, ma non troppo, si diceva: la camera iperbarica nella quale le squadre condividono gli spazi è un ambiente piccolo e affollato. “In ognuna delle camere ci sono servizi igienici e brande, e in quelli più moderni c’è anche una zona living separata. Può capitare che due team da tre sommozzatori ciascuno condividano la stessa camera e che, mentre una squadra dorme, l’altra debba prepararsi per andare in acqua”, spiega Fiorentino. “La zona più importante è la camera dedicata al collegamento con la campana, che è una sorta di ascensore iperbarico. Una volta che il team di immersione è nella campana, questa si stacca dall’impianto ed inizia la discesa, durante la quale i sommozzatori devono rimanere seduti all’interno di uno spazio la cui larghezza è appena sufficiente a contenerli”. Non appena la pressione all’esterno della campana raggiunge quella interna, è possibile per i diver aprire il portello e uscire in acqua.
Byford Dolphin, 1983
Gli incidenti per i sommozzatori in saturazione sono molto rari, ma ce n’è uno, forse l’unico degno di nota, che ha fatto la storia delle immersioni subacquee per la sua spaventosa dinamica. Il 5 novembre 1983 cinque operatori erano presenti sulla Byford Dolphin, una piattaforma petrolifera svedese semi-sommergibile che si trovava nel Mare del Nord. Era il momento più delicato della missione, quello in cui la campana sommergibile si ricollega agli ambienti in saturazione con un meccanismo detto clamping. In quelle circostanze ci sono due operatori esterni detti tender che si occupano di guidare la campana subacquea.
Per un errore di comunicazione nella fase in cui la campana doveva essere scollegata a fine turno, uno dei tender aprì il portello troppo presto, quando i sommozzatori stavano ancora passando nello scomparto che metteva in comunicazione camere e campana: un momento in cui la differenza di pressione tra l’impianto e l’ambiente esterno era di otto atmosfere. Ora, se un buco nello scafo di un’astronave è di certo uno scenario terrificante, la differenza di pressione tra l’ambiente interno dell’astronave e lo spazio esterno non supera la singola atmosfera, e un’eventuale falla ha qualche possibilità di essere contenuta prima di uccidere tutto l’equipaggio.
Nel caso degli operatori della Byford Dolphin, la decompressione esplosiva che si verificò non era dunque qualcosa a cui si potesse sopravvivere. Per farsi un’idea, in queste condizioni le forze che si sviluppano su corpi e oggetti sono del tutto paragonabili a quelle causate dalla detonazione di una bomba termobarica a circa un metro di distanza. L’aria non ha il tempo materiale di uscire dai nostri polmoni, e tutti i gas disciolti o intrappolati nel nostro organismo vanno in contro a rapide espansioni catastrofiche.
Gli incidenti per i sommozzatori in saturazione sono molto rari, ma ce n’è uno, forse l’unico degno di nota, che ha fatto la storia delle immersioni subacquee.
I membri dell’equipaggio che erano nelle loro camere morirono istantaneamente. Nei loro tessuti avvenne quello che si definisce flash boiling, che si verifica quando un liquido scende improvvisamente in un ambiente a pressione molto bassa, inferiore a quella in cui il liquido entra in ebollizione a una data temperatura. Come risultato, si formarono grosse bolle gassose nel sangue e negli altri tessuti degli operatori, un processo che portò, tramite una serie di reazioni biochimiche, alla precipitazione istantanea dei grassi disciolti nell’organismo. In pratica, il sangue, così come diversi organi, si riempì di colpo di grumi solidi di grasso, arrestando immediatamente la circolazione.
Il quarto sommozzatore ebbe una sorte ancora più cruenta: trovandosi in prossimità del portello rimasto incastrato in posizione aperta, il suo corpo venne smembrato in una frazione di secondo, in parte risucchiato attraverso la stretta apertura lasciata dal portello e in parte proiettato sulle pareti della camera. Fuori dall’impianto, la campana schizzò acqua ad alta velocità colpendo i tender. Uno dei due, quello che aveva aperto il portello per sbaglio, morì sul colpo, l’altro fu gravemente ferito.
“Di solito, per evitare un errore in un sistema ci sono tre barriere: gli uomini, la procedura e le attrezzature. Nel caso dell’incidente alla Byford Dolphin, si è trattato certamente di un errore umano. Il problema è che sì, l’attrezzatura era collaudata e ha funzionato come doveva, la procedura era consolidata, ma esse non erano a prova di errore. Sistemi come questo non devono poter contare sull’infallibilità degli operatori”, riferisce Chines. “Nel mondo esistevano già dei sistemi che impedivano di aprire il condotto in presenza di gradienti esplosivi di pressione, e si tratta di sistemi semplicissimi: è letteralmente un pistone che si sposta bloccando la manovella. Ma non erano ancora obbligatori, e alla Byford Dolphin non li avevano adottati. L’incidente è diventato un caso di studio nell’addestramento dei sommozzatori di alto fondale, e ovviamente in seguito le compagnie si sono adeguate ai nuovi standard; oggi un evento del genere non sarebbe possibile”.
Salute di alto fondale
Anche senza eventi imprevisti, la routine quotidiana in saturazione pone gli stessi rischi sanitari di ogni lavoratore che si trovi per lungo periodo in spazi ridotti, isolati, privi di luce naturale e confinati con altre persone. In particolare, l’igiene è un punto critico: “si cerca di tenere tutto pulito, ma non possiamo garantire che rimanga sterile”, spiega Fiorentino. “Ci viene richiesto di fare una doccia al giorno, e dobbiamo razionare l’acqua non perché manchi, ma per evitare di allagare la camera. Le docce nell’impianto non hanno uno scarico come quelle normali: l’acqua si accumula in uno scomparto sottostante, detto sentina, fino a un certo livello e poi si apre una valvola collegata all’esterno che scarica l’acqua grazie alla differenza di pressione. Chi fa questo mestiere per la prima volta deve imparare a usare la giusta quantità d’acqua in modo da non far traboccare la sentina e non entrare in contatto con l’acqua di scarico onde evitare, per esempio, il rischio di micosi, che lì dentro si propagherebbero a tutte le squadre. Tra l’altro, scaricare bene la sentina consente anche di tenere sotto controllo l’umidità della camera”.
Ogni anno, i sommozzatori di alto fondale sono sottoposti a un check up completo da parte di un medico iperbarico, e vengono visitati prima di entrare in saturazione; ma il corpo umano ha sempre dei margini di imprevedibilità. “Nel 2013, mentre ero in saturazione”, racconta ancora Fiorentino, “mi sentii male da un giorno all’altro e dalla descrizione dei sintomi il medico con cui parlai disse che molto probabilmente avevo un attacco di appendicite. Fui fortunato: a bordo avevamo dei farmaci adatti, il che non era scontato, perché ci trovavamo in una zona particolare del Golfo Persico, al confine tra Iran e Iraq, dove non era possibile garantire approvvigionamenti continui. Fui sottoposto a una decompressione d’emergenza, trasportato all’ospedale di Al-Kuwait e poi in Italia dove fui operato”.
Le compagnie di immersione assegnano un team di specialisti appositamente per gestire i gas usati durante tutte le fasi di saturazione.
A tutto questo si aggiungono i medesimi rischi delle immersioni in basso fondale, come i barotraumi (anche se con frequenza minore), nonché i rischi sanitari cronici specifici per chi rimane ad alte profondità per lunghi periodi di tempo, sia per i rischi psicologici e biologici della privazione di luce solare, sia per l’effetto dei gas concentrati sui tessuti del corpo umano. “Sembra esista un tipo di necrosi articolare che si può verificare in chi respira miscele di gas che contengono elio ad alta pressione”, aggiunge Chines, “con meccanismi che non sono del tutto chiariti. I micro-stress legati all’esposizione ai gas inerti potrebbero essere associati a un aumento del rischio, già presente, di sviluppare osteoporosi”.
E poi ci sono i problemi neurologici, che vanno sotto il nome di sindrome neurosensoriale da alto fondale. “Alle alte pressioni, l’azoto presente in aria si comporta come un isolante elettrico, rallentando la trasmissione dei segnali neuronali e portando a uno stato di narcosi ben noto: questo avviene circa tra i 40 e i 60 metri. Per questo, quando si va in alto fondale si usano miscele di gas differenti rispetto all’aria, come l’elio; però, verso i circa 180 metri l’elio sviluppa l’effetto opposto, cioè accelera la trasmissione dei segnali causando una condizione chiamata sindrome nervosa da alta pressione, con vari sintomi motori, cognitivi e sensoriali. In generale si cerca di usare diverse miscele in cui i vari gas – ossigeno, azoto, elio e idrogeno – compensino ciascuno gli effetti degli altri”.
Le compagnie di immersione assegnano un team di specialisti, oltre che per occuparsi delle esigenze degli ospiti dell’impianto, appositamente per gestire i gas usati durante tutte le fasi di saturazione. È infatti anche importante regolare con attenzione il livello di ossigeno, che è ovviamente necessario per la respirazione ma è anche, ad alte concentrazioni, un gas tossico. L’ossigeno deve rimanere in un intervallo preciso di frazioni della pressione atmosferica per evitare di incorrere nel rischio di ipossia o anossia (ossigenazione scarsa o mancante), se è troppo basso, o viceversa iperossia se è eccessivo. In caso di esposizioni prolungate o intensive, l’iperossia può portare a danno ossidativo grave alle membrane cellulari nei polmoni, nella retina (fino al distacco) e nei neuroni cerebrali. Per questa ragione, la concentrazione di ossigeno rispetto agli altri gas va mantenuta a livelli più bassi rispetto a quelli in aria: per un sommozzatore che ad esempio scende a 130 metri di profondità, l’ossigeno deve essere mantenuto al 5% circa della miscela (rispetto al 21% che ha normalmente in aria).
Per portare avanti il lavoro nei cantieri subacquei ci vogliono gerarchia, spirito di corpo e ovviamente una forte passione per questo tipo di ambienti.
Insomma, quello del sommozzatore è un mestiere impegnativo: per portare avanti il lavoro nei cantieri subacquei ci vogliono gerarchia, spirito di corpo e ovviamente una forte passione per questo tipo di ambienti, un po’ come nelle missioni spaziali. Per questo i closed-bell diver sono merce rara: in Italia ce ne sono meno di un centinaio, che possono guadagnare fino a circa ventimila euro per un mese in saturazione. Il tempo che possono trascorrere a queste pressioni è limitato a non più di tre missioni da un mese l’anno. Il lavoro ha carattere occasionale e la richiesta, pur alta, ha fluttuazioni importanti sulla base del mercato, ma comunque i sommozzatori di alto fondale che non lavorano in saturazione possono sempre riciclarsi come supervisore o air diver, cioè un sommozzatore che lavora con aria anziché miscele diverse di gas.
Mentre una volta il limite di età per l’alto fondale era di 35 anni, oggi i progressi nella medicina iperbarica fanno sì che non ci siano distinzioni ufficiali di età e condizioni fisiche tra sommozzatori di basso e alto fondale, e si può lavorare in saturazione con frequenza saltuaria fino ai sessant’anni, anche se tipicamente si smette prima. Per esempio, a 47 anni Fiorentino sta compiendo le ultime missioni da sommozzatore, dopo le quali diventerà supervisore di alto fondale. “Ho deciso di appendere le pinne al chiodo”, ha detto. “È un mestiere che adoro, ma credo sia ora di lasciare spazio ai più giovani”.