L e ossa, animali e umane, sono ciò che di più affascinante si possa trovare in un sito archeologico. Sono una sorta di memoria vivente da cui si possono ottenere molteplici informazioni sulla vita delle popolazioni antiche: il cibo che consumavano, le loro abitudini riproduttive, le malattie che devastavano i loro corpi e le migrazioni. La somma degli eventi naturali, biologici e culturali succedutisi nel tempo è fondamentale per comprendere e spiegare i cambiamenti che stiamo vivendo come individui e come specie. Il mio amore per le ossa dipende in larga misura dal mio lavoro al Max Planck Institute di Lipsia: nel suo laboratorio, infatti, si pretrattavano solo ossa, niente altro che ossa; non si facevano datazioni su diverso materiale organico. La mia tesi di dottorato verteva proprio sulle ossa archeologiche e sull’estrazione del collagene puro per la datazione con il metodo del radiocarbonio.
Il collagene è la proteina organica che costituisce le ossa per il 25%. Il 65% è invece composto da bioapatite, il materiale duro che racchiude il collagene e che noi radiocarbonisti scartiamo e che i genetisti invece utilizzano per l’estrazione del dna antico. Il restante 10% delle ossa è semplice acqua. Non sempre il collagene è presente nelle ossa antiche, poiché esso viene degradato sia dal tempo sia dall’ambiente, quindi alla fine di un pretrattamento in laboratorio non è detto che si ottenga del materiale utile alla datazione con spettrometria di massa con acceleratore (ams). Il mio obiettivo era quello di estrarre il collagene dove altri laboratori fallivano, ed era un continuo sviluppo del metodo, un continuo stare in laboratorio a osservare i minimi cambiamenti delle bollicine durante la demineralizzazione dell’osso, le variazioni del colore del collagene, un costante esaminare il pretrattamento in tutte le sue forme. Ovviamente ero ossessionata dalla contaminazione, e le ossa sono particolarmente esposte a questo rischio.
Non voglio dire che adottassimo precauzioni estreme come fanno i genetisti, che entrano in laboratorio completamente bardati di tute indossate sopra i vestiti, con mascherine e cuffie per i capelli, e che utilizzano una lama rotante nuova per tagliare ogni campione (pratica abbastanza costosa); per noi bastava indossare un camice, dei guanti e lavare gli attrezzi con acqua pura, ma uno starnuto, un capello o un pelucco del maglione sono solo alcuni degli elementi che avremmo potuto portare accidentalmente all’interno del laboratorio. Per questo, avevo l’abitudine ossessiva di pulire tutto ciò che il campione avrebbe potuto toccare: provette, pinzette, tappi, superfici. E non posso non menzionare il mio primo incontro con l’ultrafiltro.
Le ossa sono una sorta di memoria vivente da cui si possono ottenere molteplici informazioni sulla vita delle popolazioni antiche.
Quando arrivai al Max Planck non sapevo niente di questo oggetto magico e del pretrattamento con l’ultrafiltrazione. Si tratta a tutti gli effetti di un vero e proprio filtro, finissimo, che serve per separare i filamenti lunghi di collagene dai filamenti corti. Questi ultimi, infatti, possono appartenere al collagene dell’osso stesso ed essersi spezzati per la degradazione del tempo, ma possono anche essere parte di funghi e batteri moderni, e quindi contaminati. Il problema dell’ultrafiltrazione è che riduce ulteriormente la quantità finale di collagene che possiamo datare, e io a questo non ero abituata.
Nel laboratorio di Heidelberg dove ho lavorato fino al 2007, le ossa venivano pretrattate in modo totalmente diverso: lì non c’era l’ams, ma solo contatori proporzionali a gas che, affidandosi al conteggio delle particelle β emesse durante il decadimento del 14C, si basano su un processo di ionizzazione gassosa: di conseguenza, per ottenere una datazione serviva il triplo del materiale organico. Con l’avvento dell’ams, invece, che misura direttamente la massa degli isotopi e permette la determinazione precisa del rapporto isotopico tra 14C e 12C, le quantità dei campioni si sono dimezzate e non è più necessario pretrattare più di 1 grammo di materiale.
All’Max Planck era uso pretrattare frammenti ossei di massimo 500 milligrammi, anche perché le ossa sono protette dai beni culturali – con le ossa umane, poi, la cura è ancora maggiore. Lavorare con campioni così piccoli per me all’epoca era impensabile; avevo paura di perderne anche solo un granellino. Dopo essermi documentata in lungo e in largo sull’ultrafiltro, iniziai la mia prima ricerca per capire quante volte il filtro va pulito, dove effettivamente la contaminazione si insinua e di conseguenza il campione dà delle datazioni aberranti. Io dovevo trovare il collagene e volevo che fosse puro. Nel fare questi esperimenti, analizzavo il campione in tutte le sue forme e i suoi stadi, dalla demineralizzazione, alla gelatinizzazione, al suo diventare come un batuffolo di zucchero filato (dopo il processo di freeze drying). Così facendo iniziai a capire sin dai primi step di pretrattamento quando l’osso si sarebbe dissolto senza rilasciare il suo prezioso collagene e quando invece ne aveva molto.
Passavo intere giornate e notti, sabati e domeniche in laboratorio a controllare i miei campioni, ci parlavo, li coccolavo, e pian piano venni ripagata capendo cosa accadeva loro. Tutta questa esperienza è stata fondamentale per mettere in piedi il nuovo laboratorio BRAVHO (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution). La ciliegina sulla torta era il dipartimento di Chimica: con l’aiuto dei nuovi colleghi avrei potuto imparare informazioni a me ancora ignote sull’estrazione del collagene puro, su come ottenerne sempre di più, o addirittura su come vederlo all’interno delle ossa senza distruggerle. La chimica, per me, è in parte un mondo magico, e sarebbe davvero magia poter capire dove si nasconde il collagene senza prelevare nemmeno un frammento di osso.
Passavo intere giornate e notti, sabati e domeniche in laboratorio a controllare i miei campioni di ossa.
Il mio dipartimento, però, è reale, ed è un’eccellenza al riguardo. Attualmente stiamo lavorando a un problema fondamentale: l’eliminazione definitiva della contaminazione moderna dovuta a consolidanti e colle. Molto spesso le ossa conservate nei musei sono soggette a contaminazione da parte di conservanti, consolidanti e colle varie che vengono spalmati sulle ossa per motivi di conservazione; queste, se analizzate con il metodo del 14C, daranno un risultato sicuramente alterato perché, come dicevo, la contaminazione è difficilissima da eliminare. Se è avvenuta un’eventuale contaminazione si deduce bene dalla data ricavata.
Un esempio classico è quello del dente neandertaliano della grotta di Stajnia: nonostante sapessimo che era stata applicata della colla,abbiamo comunque provato a datare un dente prelevandone un frammento da una zona che non sembrava contaminata. La colla, però, deve essere penetrata ugualmente, deve essersi espansa e deve aver intaccato l’intero dente. Il risultato è stato quello di avere per un Neanderthal una datazione di 25.000 anni fa, una cosa mai vista: i Neanderthal 25.000 anni fa erano già scomparsi. In questo caso c’è stato bisogno dell’intervento dell’orologio molecolare, che utilizza le differenze genetiche tra le specie in modo da poter stimare il tempo trascorso dall’ultimo antenato comune, basandosi sull’idea che il tasso di mutazione del DNA rimanga più o meno costante nel tempo e tra diverse linee di discendenza. Con questo metodo, siamo riusciti a dire che il Neanderthal di Stajnia aveva in realtà più di 80.000 anni. Capite la differenza?
Negli ultimi anni è stato sviluppato un metodo per l’eliminazione della contaminazione che personalmente considero assurdo e al quale stiamo cercando un’alternativa. Il problema è che, a differenza dell’ultrafiltrazione, questa procedura necessita di almeno 2 grammi di materiale, e quindi distrugge una quantità considerevole di un campione dal valore storico e culturale inestimabile. Questo metodo consiste nell’isolare con la macchina detta High Performance Liquid Chromatography (HPLC) l’idrossiprolina, un amminoacido non standard componente del collagene e specifico dei mammiferi. Se si data con il 14C la sola idrossiprolina estratta dal collagene, si è sicuri di ottenere la data effettiva dell’osso. In riferimento al dent di Stajnia, qualcuno sostiene che questo metodo avrebbe evitato quel macroscopico errore di datazione, ma il campione prelevato e distrutto sarebbe stato più grande, e si sarebbe ottenuta comunque una data che sarebbe risultata maggiore di 55.000 anni (perché ricordiamoci che per date più vecchie il 14C non funziona più). Avremmo, in sostanza, distrutto un campione unico di Neanderthal senza riuscire a definirne l’età con precisione. Ne sarebbe valsa la pena?
Un estratto da Misurare la storia. La nuova linea del tempo dell’evoluzione umana di Sahra Talamo (Raffaello Cortina, 2024).