I n Kabloona. L’uomo bianco (Adelphi, 2023), c’è tutto quello che serve per un libro di avventure: una mappa di un pezzo di mondo a noi ignoto (sopra la baia di Hudson, in Canada), un tracciato che conduce vicino al Polo Nord magnetico oltre l’Isola di re Guglielmo, una citazione in esergo dell’esploratore Rasmussen, una serie di disegni dell’autore e fotografie con la didascalia, infine un narratore-esploratore, Gontran de Poncins, rampollo dell’ex nobiltà francese (visconte e discendente del filosofo Montaigne), annoiato dagli affari in Europa (manager a Londra di un’azienda italiana di seta), che a trent’anni diventa reporter dei suoi viaggi, in un curriculum di avventure da fare invidia a Corto Maltese (su un peschereccio lungo le coste africane, coi contrabbandieri nei Caraibi, e negli sparsi domini coloniali della Nuova Caledonia, di Vanuatu, di Bora Bora e di Vanikoro, isola in un romanzo di Salgari).
Se questa volta, invece, de Poncins si è spinto tra gli inuit dell’estremo nord è perché è “un uomo deciso a trovare sé stesso con l’aiuto degli eschimesi”. Kabloona, dunque, non è un romanzo di avventure e nemmeno il resoconto accorto di un antropologo: uscito nel 1941 e finora inedito in Italia, è appunto la storia di de Poncins tra gli inuit, la storia sincera di un uomo bianco del primo Novecento, infarcito di idee razziste e sulla superiorità della civilization, capace però di adattarsi agli usi degli inuit e all’intimità con la loro vita. È “la storia dell’incontro tra due mentalità e della graduale sostituzione, in me, della mentalità europea con quella eschimese”, come scrive lui stesso.
Il viaggio artico di de Poncins era iniziato a Parigi nel giugno del 1938, con l’aiuto dei Padri Oblati e due lettere di raccomandazione, una della società Geografica Parigina e una del direttore del museo etnografico del Trocadéro. Dopo avere raggiunto il Canada e percorso miglia verso nord, de Poncins era arrivato a fine agosto alla baia di Gjoa Haven, ospite di Gibson, gestore di un emporio di scambio tra le necessità inuit (corda, chiodi e molto tè) e quelle del commercio europeo (le pellicce). Qui comincia davvero il viaggio e da qui l’avventuriero si lancia al seguito delle slitte inuit in altri accampamenti di igloo e ancora più a nord, a Pelly Bay. La primavera hitleriana dell’Europa e la guerra incipiente sono per lui già il miraggio di un altro mondo.
Kabloona è la storia sincera di un uomo bianco del primo Novecento, infarcito di idee razziste e sulla superiorità della civilization.
Ma prima di entrare nel vivo del racconto de Poncins mette le mani avanti, perché ci saranno scene che urteranno la sensibilità dei lettori (i rutti fragorosi per esempio, le “aberrazioni sessuali”) ed è bene perciò avere una certa precauzione nei confronti dell’autore. “Sono io il primo a rammaricarmene”, scrive de Poncins, “ma tutto ciò che ho lasciato sussistere in materia mi è sembrato essenziale alla presentazione dell’Eschimese”. Nel chiuso dell’avamposto o dell’igloo, però, il primo confronto è anzitutto quello con se stessi:
Dirà un tizio sdraiato su una spiaggia subtropicale a febbraio ‘e pensare che solo tre giorni fa arrancavo nel bel mezzo di una bufera di neve per tornare a casa!’. Anche le mie considerazioni spesso avevano qualcosa di altrettanto elementare, ma con un maggior grado di intensità […]. Se quello ero io, dov’era quell’altro io, un vero francese che amava le comodità e il calore, che leggeva e discuteva in preda all’irrequietezza intellettuale? E se quell’altro ero io, chi era costui seduto a chiacchierare e a ridere con gli eschimesi in un igloo?
De Poncins cerca quello che Levi scrive in La carne dell’orso (1961): misurarsi, trovarsi almeno una volta “nella condizione umana più antica, davanti alla pietra cieca e sorda, senza altri aiuti che le proprie mani e la propria testa”. Nella ricerca di immediatezza, della vita essenziale degli inuit, ritornano gli echi di Henri David Thoreau e riconosciamo il vitalismo, il lanciarsi all’avventura che è proprio di quella temperie culturale a cavallo tra le due guerre, di Hemingway e di D’Annunzio, dei pionieri dell’alpinismo e di tutti gli esploratori delle regioni polari, spinti da volontà di eroismo o da intenti scientifici: Roald Amundsen, Knud Rasmussen, Ernest Shakleton, Robert Scott (tragico Scott), Umberto Nobile. La sfida sono le distese dell’Artico, le stagioni impetuose, il confine inesistente d’inverno tra terra e mare.
Nel chiuso dell’avamposto o dell’igloo, però, il primo confronto è anzitutto quello con se stessi.
All’aperto e sconfinato di quell’ambiente ostile, totalizzante e senza ostacoli, si oppone il chiuso, stretto dell’avamposto e degli igloo. L’avamposto, condiviso con Gibson attorno alla stufa: lì sembra di trovare un pezzo infimo d’Europa. Per gli inuit è ovviamente il contrario, nota de Poncins: quando entrano nell’emporio per scambiare merci sembrano inetti e avvizziti, ma subito riprendono vigore quando attraversano gli spazi artici. A questo proposito in una leggenda inuit e in un film, il primo completamente inuit, che si chiama Atanarjuat il corridore (2001), c’è la scena memorabile di Atanarjuat che corre completamente nudo, instancabile, per le distese di ghiaccio. Un rivale e i suoi cercavano di ucciderlo, sorprendendolo nel sonno, ma Atanarjuat riesce a scappare e percorre miglia nudo, finché non viene soccorso da altri che gli garantiranno il ritorno all’accampamento e la resa dei conti coi duellanti.
Da un lato dunque de Poncins, l’uomo del “Fuori” in cerca di un senso, dall’altro gli inuit e la loro dimestichezza con quella terra. Scrive l’esploratore: “in nessun luogo al mondo ho visto le stagioni esprimersi con tale autorità, ordinare con tale precisione e ineluttabilità che cosa dovesse fare l’essere umano per sopravvivere. Eppure quella voce imperiosa, a giudicare dall’allegria con cui gli eschimesi la ascoltano, dalla serenità con cui si predispongono a obbedirle, è anche piena di premura”. De Poncins osserva con fatica e partecipa con insofferenza: dopo lunghe e snervanti attese, gli inuit si gettano fuori dalle tende o dagli igloo, come dettati da un’impellenza improvvisa. Allora con laboriosità preparano le slitte, ordinano i cani e partono. E se il tempo cattivo si avvicina lungo la pista, con altrettanta rapidità giù dalle slitte, intagliano i mattoni nel ghiaccio e nella neve per tirar su l’igloo.
A proposito, l’interno degli igloo è per de Poncins nient’altro che sporcizia e carcasse congelate, “teste di pesce mangiucchiate sparse ovunque, stracci sudici sulla carne bitorzoluta degli eschimesi”. Qui gli inuit mangiano, lavorano le pelli, parlano da soli, bevono tè o mettono in atto tutte le loro pratiche di ospitalità che per lui all’inizio non sono nient’altro che saccheggiare le riserve di cibo di chi ospita, senza riguardo e senza chiedere, mentre i cani si riparano famelici nel corridoio. Nel buio dell’igloo, il lume a olio di foca è la sola fonte di luce.
Da un lato dunque l’uomo del ‘Fuori’ in cerca di un senso, dall’altro gli inuit e la loro dimestichezza con quella terra.
Ma de Poncins cambia nel tempo e l’igloo comincia a rivelare il suo ordine tanto che l’esploratore non si riconosce più in quei fastidi per cose inutili che lo avevano animato: adesso nell’igloo tutto è a portata di mano quando si è seduti sul rialzo interno, l’iglerk, che fa da ripiano e da materasso collettivo. Nell’intimità del lume a olio, l’ordine dell’igloo gli appare ora quasi sacrale:
Scese la sera. Tre delle foche […] erano ancora intere, ritte contro la parete come divinità sul punto di venire spodestate, ma pur sempre divinità imbrattate di sangue, fantastiche. Il ghiaccio brillava alla luce del lume, mentre il caldo e il freddo convivevano in contrasto familiare. Non smetterò mai di decantare la bellezza del lume a olio. […] Lì tra quelle ombre, in quei misteriosi recessi, i quasi incomprensibili eschimesi mangiano e ridono, vivono un’esistenza materiale di inconcepibile brutalità e allo stesso tempo una vita spirituale di infinta sottigliezza, di cose captate e inespresse.
E quando de Poncins torna per un periodo dalla pista all’avamposto di Gjoa Haven, anche lui, venuto dal Fuori, ora non riesce più a sopportare di stare lì, con la stufa e con il coinquilino Gibson. Lo stesso accade al modo in cui de Poncins descrive gli inuit, rispetto ai quali nutre all’inizio un giudizio spietato e irricevibile: sono “sordidi, fisicamente ripugnanti e succubi di un’indole in cui non riuscivo a intravedere neanche un po’ della generosa ospitalità di altri popoli primitivi, neanche un po’ della schiettezza che avevo trovato in altre parti del mondo, ma solo sospetto, astuzia, furbizia”. Chiaro, de Poncins non arriva a nord come etnologo, anche se è stato presentato così dalla Società Geografica Parigina. Le sue relazioni sono spesso sinceramente infastidite o disgustate, come quando descrive i suoni mentre si mangia, i denti digrignati, il rumore delle mascelle e i rutti cavernosi.
Degli inuit de Poncins apprezza lo stoicismo, si adegua ai silenzi e comprende i meccanismi comunitari che ne permettono la sopravvivenza.
Sulle prime, per de Poncins gli inuit sono semplicemente dei selvaggi, bruti che rispondono a necessità elementari piuttosto che ad argomenti. Sono, secondo lui, dotati di intelletto primitivo, una “coscienza oscura, che esito a chiamare mente”. Il confronto con lui, campione della razza europea, è impietoso: ventimila anni di evoluzione, scrive, li separano; è tornato all’età della Pietra. La superiorità coloniale è anche, ovviamente, morale: “un eschimese”, scrive a proposito di un delitto in un clan, “non ammazza mai faccia a faccia, ma solo alle spalle”.
Quando però gli inuit si trovano a faticare nella neve, destano la sua ammirazione. L’avventuriero ne apprezza lo stoicismo, si adegua ai silenzi e comprende i meccanismi comunitari che ne permettono la sopravvivenza. Certo, è pur sempre tornato all’età della pietra, ma ora gli sembra di essere di fronte al “biblico clan”, i cui legami sono stretti dalla necessità: “quella era la vita in comune”. Se c’è il selvaggio, allora ci sarà anche il buon selvaggio di Rousseau, che non conosce alcuna proprietà.
Perciò sale ancora più a nord, ricercando una sorta di autentica vita inuit, inuit veri e non quelli che gironzolano attorno all’avamposto per barattare il tè: sono gli inuit della pista, gli inuit eroici. Allora de Poincins corregge i suoi giudizi tranchant sul pensiero inuit: se non ragionano rimuginano, si misurano con un’immagine, “e in quel confronto si lasciavano assorbire dall’immagine fino all’ossessione”. I silenzi pesanti e incomprensibili, come senza pensiero, che descriveva all’inizio del suo viaggio si assottigliano e de Poncins diviene in grado di comprenderli, ora sono espressione di conflitti irrisolti e di questioni sospese e taciute. Ora sono carichi di intese:
Fumavamo. La pipa girava di bocca in bocca e niente sembrava più naturale di questa negazione del concetto di mio e tuo. […] Se l’uomo bianco voleva dare il suo contributo alla comunità, c’era un solo modo per farlo ed era regalare, dal primo giorno, tutto quello che aveva comprato. Da lì in poi, senza dire una parola, sarebbe stato nutrito finché fosse rimasto tra gli eschimesi.
Tuttavia anche questa idea di autenticità, di un’essenza inuit, genererà dei mostri: tra il 1953 e il 1955, per ordine del governo canadese e senza consultare le comunità inuit, la polizia canadese sposterà un’intera comunità da Inukjak a Mittimatalik, 2000 chilometri più a nord, per ragioni geopolitiche ed economiche, ma anche nell’idea che una comunità vale l’altra e che chi abita al freddo può essere traslocato a nord senza problemi.
Se c’è il selvaggio, allora ci sarà anche il ‘buon selvaggio’ di Rousseau, che non conosce alcuna proprietà.
In Kabloona non si parla granché di miti o del mondo spirituale inuit: tutto è piuttosto compreso nella superficialità dei gesti, delle azioni. L’antropologo Rasmussen nelle sue diverse spedizioni polari era molto più interessato a questo, tanto che raccolse la testimonianza dello sciamano Aua, come aveva fatto Alce Nero con Neihardt. Ma un altro libro di antropologia, Le metafisiche cannibali (2017) di Eduardo Viveiros de Castro, è utile al riguardo. De Castro sfida l’antropologia a superare la divisione tra il mondo del soggetto che analizza e l’oggetto analizzato, a farsi invece cambiare dal pensiero trasformativo amerindiano, a stare nell’equivoco di traduzioni sempre da aggiustare.
Senza intenzioni antropologiche, questo sembra succedere anche a de Poncins. Il pensiero, la prassi inuit plasmano l’azione e il pensiero dell’esploratore, i suoi modi di intendere quello in cui si trova. Anche la lingua cambia:
Nel loro modo di parlare c’è una poesia concreta molto commovente. Di conseguenza mi-kse, la parola per ‘realtà’, è traducibile letteralmente come ‘la cosa girata verso di te’. Quando un oggetto geme nel vento si dice che ‘digrigna i denti’. Se due persone hanno litigato si dice che ‘sono alla deriva’ e se una persona non ti ha capito, si dice che ‘l’hai mancato’, sil-la-ko-kto.
All’inizio de Poncins detesta l’imprevedibilità dei suoi accompagnatori, il fatto che di punto in bianco vogliano smontare dalle slitte per bere del tè e fumare una sigaretta, col rischio di doversi fermare un’altra notte in un igloo tirato su alla meglio. Alla fine, invece, “una sigaretta fumata in tranquillità rendeva il viaggio più semplice. […] Era sempre il momento giusto per fermarsi, rovesciare una cassa vuota a mo’ di tavolino e scaldare un pentolino di tè al riparo dal vento”. All’inizio odia che gli inuit entrino nel suo igloo senza permesso, si sistemino e si permettano di prendere e mangiare tutto quello che ha. Alla fine: “mangiammo per venti ore. Che farsa è la tavola dell’uomo bianco! Ingoiavamo i pezzi di foca interi, neve compresa”.
Questo mutamento passa anche per il racconto letterario, e di questo de Poncins è capace: per chi legge le attese e i silenzi iniziali sono snervanti e incomprensibili; ma poi si viene trascinati lungo la pista in uno slancio vitale e felice. Eppure, se è vero che il libro intende raccontare gli inuit e la loro vita, come de Poncins scrive nella prefazione, se è vero che “al centro di questo libro non vanno i miei vagabondaggi o il mio stato d’animo”, il libro si intitola però kabloona, che è la parola inuktitut per dire “l’uomo bianco”.
L’uomo bianco è per gli inuit come un bambino incomprensibile e capriccioso: “facciamo migliaia di domande inutili, non appena le cose vanno male facciamo mostra d’essere scontenti col rischio di perdere la faccia. Gli eschimesi si sentono continuamente in dovere di aiutarci, placarci, come se fossimo bambini che vogliono sempre averla vinta, altrimenti diamo in escandescenze”. Chi è dunque quest’uomo bianco tra gli inuit? Più vive con loro, dichiara de Poncins esplicitamente, più si accorge di cambiare e di stimare ciò che prima criticava. “Avevo smesso di contare i giorni”, scrive a un certo punto l’esploratore.
Più vive con loro, scrive de Poncins esplicitamente, più si accorge di cambiare e di stimare ciò che prima criticava.
De Poncins se ne va, liberato dalle preoccupazioni del sé occidentale: “le tormente erano state mie alleate”. Gli inuit da lì in poi invece avrebbero conosciuto una stagione di sovranità violate sulla propria terra, perseguitati dalle intenzioni degli altri kabloona. È una storia che non conosciamo molto e che somiglia a tante altre. Come già detto, alcune famiglie vennero dislocate negli anni Cinquanta. Già prima si era invece aperta la questione del nome: gli inuit hanno infatti un modo peculiare di codificare i propri nomi, in relazione al carattere e alle proprie vicissitudini. Niente che somigliasse ai nomi di famiglia che servivano ai censimenti canadesi: perciò fu assegnato a ogni inuit un numero identificativo e poi, ritenuto troppo spersonalizzante, furono assegnati dei cognomi arbitrari.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta, le giubbe rosse – la polizia canadese – uccisero decine di cani da slitta, con la scusa di limitare il randagismo ma con l’intento di ridurre gli inuit alla vita dello Stato, cioè sedentaria. Nacquero le residential schools, religiose e sponsorizzate dal governo, per assimilare gli inuit e replicare costrutti culturali occidentali, secondo cui ai ragazzi si insegnava a lavorare il legno e alle ragazze a cucire. Solo nel 1999 in quelle terre che anche de Poncins aveva attraversato nacque l’entità territoriale di Nunavut, “terra nostra”, per riconoscere l’autogoverno del popolo inuit. Superati molti dei pregiudizi europei, kabloona tra i nativi, de Poncins l’aveva descritta così:
Quella sera lasciammo la mediocrità monotona dell’avvallamento accanto al mare e sbucammo in una grande pianura. Era quasi mezzanotte quando piantammo le tende e accendemmo un fuoco. Dopo aver dato da mangiare ai cani, io e gli eschimesi camminammo fino a un crinale lì vicino per dare un’occhiata in giro. La bellezza arcana di quella terra serena e pacifica era mozzafiato. […] Ce n’erano stati di giorni in cui la terra degli eschimesi, con le tormente e l’aria grigia priva di orizzonte, mi era sembrata un mondo spettrale; ma quel giorno, contemplando quell’immensità davanti a me, consapevole della solitudine in cui la osservavo, riconobbi il diritto degli eschimesi a essere fieri di quella terra, e immaginavo che nella loro testa quello fosse un dono elargito da chissà quale dio, grazie al quale anche loro si sentivano parte di un popolo eletto.