I
n questo primo ventennio del XXI secolo eventi come pandemie, cambiamento climatico e crisi economiche globali hanno funzionato come shock collettivo che ci ha svegliato dai sogni liberali di una ormai compiuta fine della storia à-la Francis Fukuyama e di un capitalismo ormai pienamente realizzato nel suo spatial fix, direbbe David Harvey, per come esso si presentava alla fine del secolo scorso.
Il pamphlet del fisico Ignazio Licata, Arcipelago. Una mappa per rileggere il nostro mondo e individuare nuovi strumenti di liberazione, arriva come intervento necessario di sintesi e di registrazione di tale cambiamento epocale. Il lavoro di Licata non vuole affatto rappresentare la sostituzione di una grande narrazione ormai avvizzita con un’altra, come a voler avallare l’idea di una sempre possibile meta-narrazione predatoria del reale, che soppianti quella precedente. Da questo punto di vista, al contrario, la massima espressione dell’intento di Licata è racchiusa nel concetto di “mappa”, che appare già nel titolo: una mappa per ri-leggere il nostro mondo e individuare nuovi strumenti di liberazione.
Separiamo momentaneamente le due parti di questo sottotitolo e concentriamoci sulla prima. Creare o produrre una mappa di un mondo non significa fare di quest’ultimo una mera fotografia. Significa piuttosto riconoscerne la complessità, parola chiave non solo di quest’opera di Licata, ma filo conduttore della sua ricerca e vena pulsante del suo pensiero. Cosa vuol dire complessità? Un sistema complesso è un sistema con diverse caratteristiche. Innanzitutto, è un sistema composto da molte parti connesse in modi eterogenei che possono interagire tra di esse in modi altrettanto variegati, generando così eventi ed effetti nuovi. Le strutture che i sistemi complessi generano sono quindi frutto di un’autorganizzazione spontanea, che è dovuta ad una continua permeabilità del sistema rispetto al suo esterno. Propio per questo, un sistema complesso è sempre intrinsecamente dinamico: esso evolve nel tempo e ha una sua storia. Le teorie della complessità sono particolarmente importanti perché la maggior parte dei fenomeni della vita e della società, dallo sviluppo biologico all’interazione culture-nurture, dall’interazione tra economia ed ambiente alle relazioni tra società e risorse, sono esempi di sistemi complessi. Noi facciamo parte e siamo circondati da sistemi complessi. Le teorie della complessità pongono inoltre particolare attenzione ai sistemi cosiddetti non lineari il cui comportamento è lontano dall’equilibrio. Prendendo a prestito le parole di Mark Taylor in Il momento della complessità (2005), un sistema complesso – come una società – esiste in un margine del caos “sospeso tra il troppo e il troppo poco ordine”.
Complesso non significa soltanto, come puntualizza Licata nel suo libro, che “tutto è connesso con tutto”, e neanche che “tutto è troppo complicato per essere rappresentato all’interno dello stesso quadro”. Queste due affermazioni sono sicuramente incluse, ma non corrispondono al senso definitorio di complessità. Non basta riconoscere l’esistenza di fenomeni come lo Spillover pandemico (si veda D. Quammen, Spillover, 2014) o l’esistenza di canali e risonanze tra piani diversi della stessa realtà. Non basta neppure constatare che ogni modello che pretenda di ergersi a raffigurazione statica della realtà finisca per cadere vittima di un’incompletezza descrittiva logica, o in un regressus in infinitum. Piuttosto, citando le parole stesse di Licata, possiamo dire che “un sistema è complesso quando i vincoli e le condizioni al contorno […] contano più delle leggi generali che regolano le relazioni tra i componenti”. Per l’appunto, si tratta di riconoscere l’onnipresente porosità sistemica e la sensibilità plastica di qualsiasi sistema rispetto al suo fuori.
Si tratta di riconoscere l’onnipresente porosità sistemica e la sensibilità plastica di qualsiasi sistema rispetto al suo
fuori.
Pensare attraverso l’epistemologia della complessità significa che l’osservatore non è altro che qualcuno che “scommette sulle emergenze di una nuvola di eventi possibili”. Guardare la realtà con questa consapevolezza significa rendersi conto che il garbuglio sistemico di economia, materialità dei processi erosivi e produttivi, politica, produzione di conoscenze, testi, ecc., è la fucina evenemenziale sulla quale gli attori basano e co-aggiustano le proprie mappe. E tutto ciò senza soluzione di continuità.
Il libro di Licata è un invito al riconoscimento, potremmo dire, di un principio di delicatezza epistemologico, proprio perché la produzione di tali mappe, in quanto “in-forma ogni aspetto del nostro essere”, si scontra sempre con una “resistenza” delle cose e degli eventi. Qui è non solo il fisico Licata che parla, ma anche il filosofo: ogni mappa che costruiamo o produciamo più o meno consapevolmente si scontra con una forma di resistenza.
Quest’ultimo concetto richiama letteralmente un altro lavoro di Licata, uscito nel 2021, dal titolo per l’appunto di La resistenza del mondo. Proprio in quel libro Licata metteva in guarda dall’idea di scienza come, cito, “implacabile algoritmo scavamondo costruito su un metodo astorico” e invece invitava a guardare le attività scientifiche come “a una factory di procedure che forniscono ad un problema il suo status ed il suo ecosistema in un continuo ribollire di micro-paradigmi”.
In quel saggio, Licata parlava di resistenza del mondo anche attraverso l’avatar dei personaggi che Primo Levi mette in La chiave a stella. Ad un certo punto del romanzo, il personaggio di Faussone, interlocutore del protagonista, dice: “Del resto, non so, a me non è mai successo, ma fare un lavoro senza niente di difficile, dove tutto vada sempre per diritto, dev’essere una bella noia, e alla lunga fa diventare stupidi”.
Il libro di Licata è un invito al riconoscimento di un principio di delicatezza epistemologico, perché la produzione di mappe si scontra sempre con una “resistenza” delle cose e degli eventi.
Nell’apparato molteplice di Licata, già in quel saggio tale resistenza del mondo al lavoro dell’essere umano significava parimenti un’occasione per la messa in opera della creatività, artistica e cognitiva ad un tempo. La resistenza del mondo non è allora soltanto equivalente all’oppositività fisica e materiale che qualsiasi procedura di modifica del mondo implica, bensì un topos più generale che ha a che fare anche con le modellizzazioni del mondo, modellizzazioni come quelle dello scienziato (o forse soprattutto!). Per dirla con Christoph Dejours e la sua teoria psicanalitica del lavoro, si tratta di una resistenza del reale (résistance du réel), che ogni volta qualsiasi sforzo si ritrova a dover fronteggiare, indipendentemente dal registro o dalla sensibilità nella quale ci muoviamo (C. Dejours, Travail Vivant. 1: Sexualité et Travail, 2009).
In Arcipelago, Licata muove da premesse analoghe: “il lavoro”, si legge nel saggio, “è l’attività specie-specifica centrale: l’essere umano tesse piani di organizzazione del mondo e crea contesti di senso”. A partire da questa considerazione, la posta in gioco di tutto il libro di Licata si basa fortemente sul riconoscimento che con “lavoro” non si può solo intendere la “produzione di merci, salario ed estraneazione”, bensì un’attività “più ampia e di tipo sistemico”.
Se l’idea di mappa risulta centrale, lo è parimenti quella di arcipelago, titolo del libro. Nello schema operativo aperto e non “paradogmatico” (espressione felice di Licata) non siamo in presenza di un’imposizione di insiemi di dati o di strutture esplicative pronte, ma bensì di un’ecologia della mente che rispetta la dialettica di caos e ordine per come l’arcipelago stesso dei modelli e dei paradigmi la stimola. È qui che il quadro di Licata rivela di essere al contempo epistemologico e politico. Rispettare e abitare l’arcipelago richiede una “pratica costante dell’utopia”, come dice l’autore. Tale approccio è da opporsi alla visione che funziona in modo completamente opposto, ovvero quella che vorrebbe imporre un’idea “classica di rivoluzione”, dice Licata, come basata su un’ipertrofica attenzione alla “quantità, al massivo e al molare, più che al soggetto, al sottile e molecolare”.
Quindi, l’utopia spontanea dell’arcipelago dei saperi che informa implicitamente l’invito del libro, non va intesa come mira totalizzante, afflato lineare verso un obiettivo predisposto. Piuttosto, le riflessioni di Licata sembrano fare da eco alle parole di Guattari del 1989, che in Cartographies schizoanalytiques diceva: Si tratta qui solo di constatare che, a differenza di altre rivoluzioni di emancipazione soggettiva – Spartaco, la Rivoluzione francese, la Comune di Parigi… – le pratiche individuali e sociali di autovalorizzazione e auto-organizzazione della soggettività, oggi alla nostra portata, potrebbero essere in grado, forse per la prima volta nella storia, di portare a qualcosa di più duraturo rispetto a frenetiche ed effimere effervescenze spontanee, ossia a un riposizionamento fondamentale dell’uomo rispetto al suo ambiente macchinico e al suo ambiente naturale.
Le riflessioni di Guattari avevano come precondizione la constatazione di un cambiamento del regime d’antan, che Guattari chiamava “età dell’informazione planetaria” e che rappresentava la “possibilità che una processualità creativa e singolarizzante diventi il nuovo riferimento di base”. Dieci anni dopo, Luc Boltanski ed Ève Chiapello, nel loro Il nuovo spirito del capitalismo, notavano come l’avvento delle smart cities e dei processi di messa a profitto dei networks avessero dato un nuovo senso a qualsiasi afflato rizomatico, retologico, plurale. Oggi probabilmente ancora di più, con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, esperiamo un’estensione e proliferazione del Phylum macchinico e delle capacità enunciative verso orizzonti ancora aperti all’esplorazione teorica e politica.
L’utopia spontanea dell’arcipelago dei saperi che informa implicitamente l’invito del libro, non va intesa come mira totalizzante.
Del resto, si badi, il libro di Licata registra parimenti quest’altro aspetto del presente e non si lascia affatto andare a facili utopismi (da non confondere con la dimensione utopica dell’ecologica della mente). In una delle parti più lucide e – se vogliamo – realistiche del libro, possiamo leggere: È difficile oggi dire se i cambiamenti possibili saranno resi tali dalle nuove moltitudini trasversali, ma non possiamo escludere a priori che di queste moltitudini possano far parte nuovi modelli imprenditoriali. Quello che possiamo prevedere oggi è che il grande arco delle mutazioni avrà bisogno a tutti i livelli della tecnologia. Rilevare, monitorare, sequenziare, tracciare, segnalare, ottimizzare, calcolare, pianificare, modellare, correlare e finalmente scommettere su un pugno di possibilità in equilibrio instabile tra processi naturali e iniziative umane.
Visto che il libro di Licata rispecchia a sua volta la conformazione di un arcipelago, si può piazzare già su questo isolotto tematico del testo, seppur senza il piglio di una colonizzazione concettuale frettolosa, una considerazione che si allinea alle sue riflessioni più politiche: tutti producono mappe, e anche la logica con quale l’economia (quella molare) guarda e immagina il mondo influenza a sua volta i criteri estetici e antropologici dei suoi abitanti. Possiamo citare un passo del romanzo di Houellebecq La carta e il territorio (2010, Bompiani), scrittore che pure appare nelle pagine di Licata: “Così, il liberalismo ridisegnava la geografia del mondo in funzione delle attese della clientela, si spostasse essa per ragioni turistiche o per guadagnarsi da vivere. Alla superficie piana, isometrica del mondo si sostituiva una topografia anormale in cui Shannon era più vicina a Katowice che a Bruxelles, a Fuerteventura che a Madrid.”
Passaggio che sembra fare da eco ad uno del libro di Licata, che citiamo direttamente: L’alta virtualizzazione accorpa percorsi e tempi, moltiplica le reazioni, stabilisce un asse inedito e istantaneo tra pensiero, retorica ed emotività. Qualunque evento si affacci all’orizzonte virtuale (dibattiti culturali, enunciazioni politiche, teorie, prodotti) è già una gabbia retorica perfetta che contiene la cosa, le sue interpretazioni e ogni altra istruzione per l’uso.
Leggendo le pagine di Arcipelago sembra di intravvedere non tanto (o non solo) una ripresa delle riflessioni sullo spazio di Lefebvre e del marxismo, ma soprattutto le considerazioni di tipo dromologico e topologico di Paul Virilio. Licata riconosce una peculiare circolarità per la quale la relazione tra mappa e oggetto mappato è, in realtà, una relazione di co-plasticità. Non c’è soltanto un oggetto fermo e immobile che subisce le mappe che noi, a seconda del bisogno, produciamo. C’è anche un oggetto (o mondo) che, una volta informato, impone il ripensamento, a livello sociale, delle mappe che concretamente percorriamo. L’oggetto, nel quadro epistemico-politico di Arcipelago, ha un potere di messa in forma retroattiva delle pratiche di vita concrete. E l’attività scientifica è altresì una pratica concreta fatta dai navigatori dell’arcipelago, che giocano spontaneamente nello spazio intermedio tra lo status di abitante e quello di esule volontario. Nel libro di Licata tale natura utopica della molteplicità dei modelli è in diretta comunicazione con l’idea, ormai acquisita (si spera) dopo Latour ma, soprattutto, dopo Feyerabend, che la scienza andrebbe compresa in quanto pratica o insieme di pratiche. Pratiche, aggiungerebbe Feyerabend, anarchiche.
L’attività scientifica è una pratica concreta fatta dai navigatori dell’arcipelago, che giocano spontaneamente nello spazio intermedio tra lo status di abitante e quello di esule volontario.
Come detto prima, lo scopo del saggio-arcipelago di Licata è duplice. Da un lato, abbiamo visto, esso prende atto e familiarizza il lettore all’idea di una deterritorializzazione dei saperi, di una pratica di ricerca e di lavoro in senso generale; risultati, questi, di una metamorfosi storica ed epistemologica. Dall’altro lato, il testo di Licata è anche un’interpretazione del presente. Più precisamente, si tratta di quelle mutazioni che si snocciolano alla fine di una big wave storica, e che Licata descrive passo passo nel prosieguo del libro, in particolare nella seconda parte.
Innanzitutto, c’è la constatazione di una metamorfosi del lavoro che segue una “curva logistica”. Un punto sicuramente forte di Arcipelago è l’aver collegato tale metamorfosi anche con ciò che concerne l’alienazione, categoria marxiana che però adesso corrisponde, nota Licata, non più ad una mera espropriazione materiale, ma bensì “al perdersi nelle strade di una città sconosciuta”. Ed è proprio a partire da tale alienazione 2.0, possiamo dire, che Licata rintraccia il sintomo reattivo di un “cosizzazione dell’umano” che lega direttamente al marchese de Sade, ovvero ad una perversa “ragione strumentale del piacere che fa dell’eliminazione di ogni resistenza del mondo la condizione necessaria di ogni godimento”. Insomma, una perversione anche nel senso lacaniano della lettura di Sade, ovvero l’appiattimento e la riterritorializzazione delle cose e dei corpi – soprattuto quello dell’Altro – su un unico piano liscio senza frizioni, un sogno basato su un fantasma utilitaristico e contabile del piacere (à la Bentham, per intenderci).
Le pagine di Licata riguardo la curva logistica sfociano direttamente sulle riflessioni circa la crisi climatica e le fonti energetiche. Era il 1956, ricorda Licata, quando Marion King Hubbert presentò al congresso dell’American Petroleum Institute a San Antonio un modello con una previsione: “il picco della produzione di petrolio si sarebbe verificato intorno ai primi anni Settanta, sarebbe seguita poi una rapida discesa”. Non solo il modello si è rivelato affidabile a lungo termine, ma è, come nota Licata, rivelatore di una logica soggiacente più generale, e che riguarda (soprattutto) le fonti non rinnovabili, ovvero il fatto che più il sistema dipende per la sua esistenza dall’estrazione del petrolio, più esso diventa difficile da estrarre, e più il sistema dissipa energia e perde efficienza.
Tutti i sistemi sociali molari che conosciamo sono altamente energivori. Nazioni e imperi si reggono su gas naturali, petrolio, carbone, ecc. Per questo essi dipendono dal cosiddetto EROI, Energy Return On Investment: ovvero quanta energia ricavi dopo che si è usata una certa energia per estrarla (il rapporto dev’essere chiaramente il più positivo possibile). La sensibilità del libro di Licata si rivela qui nelle sue considerazioni di ordine ecologico ed economico, ed è una lettura puntuale e imprescindibile sulle traiettorie virtuali del presente alla luce delle attuali criticità metaboliche.
Licata parla di momenti di un processo più grande, più che di destini definitivi.
Il lettore però – è bene che lo sappia – non si deve aspettare dal testo facili soluzioni prêt-à-porter. L’autore di Arcipelago dice, al contrario, che “siamo molto lontani da una medicina sistemica”. Proprio nel caso paradigmatico della curva logistica e della crisi energetica, Licata parla infatti di momenti di un processo più grande, più che di destini definitivi; momenti che rivelerebbero le impasse di sistemi fortemente dipendenti da vincoli, ovvero – in un’accezione quasi tecnica – dipendenti da un range di valori e da classi di procedure che però, come in un labirinto di membrane permeabili, devono sempre fare i conti “con le situazioni culturali, politiche ed economiche delle varie parti del mondo”.
Nel leggere Arcipelago si entra nel vivo del brulichio di eventi che ci circondano, e parimenti nelle pennellate delle narrazioni e degli schemi filosofici che permettono la loro lettura. Tutto ciò, naturalmente, senza la pretesa – impossibile in una fase storica altamente vibratile – di un’immagine dall’alto definitiva. Piuttosto, nelle pagine di Licata è possibile intravedere un invito all’abilità greca della metis, una forma di intelligenza capace di adattarsi al momento presente, ovvero alle circostanze che si trova ad affrontare.