N egli ultimi dieci anni il worldbuilding è diventato una pratica sempre più centrale nel design, nell’architettura, nell’informatica, nei videogiochi, nella scienza e, in particolare, nell’arte contemporanea. Lo stesso Hans Ulrich Obrist ha curato nel 2022 una mostra, WORLDBUILDING: Gaming and Art in the Digital Age, dedicata esclusivamente a questa tematica, mentre fondazioni e centri d’arte come LAS Art Foundation e Fabbula, assieme a festival come il francese Octobre Numérique-Faire Monde, si occupano della promozione di artisti che sviluppano mondi digitali ed esplorano le implicazioni teoriche di questi lavori. Il termine, letteralmente “creazione di mondi”, indica la pratica di dare vita a opere che appaiono come mondi autonomi e complessi, capaci di essere esplorati, condivisi e, in alcuni casi, anche ampliati. L’idea di dare vita a mondi del genere non è certo una novità e il worldbuilding rappresenta un elemento concettuale scivoloso, dal momento in cui i suoi confini teorici potrebbero essere estesi al punto da includere anche le grandi narrazioni e i miti fondativi che sostengono il senso di appartenenza delle comunità umane. Ma il preponderante riemergere di questa pratica è indicativo di un insieme di cambiamenti sul modo stesso di percepire il rapporto con chi esplora e contribuisce a tali universi, così come di una rimessa in discussione di ciò che si intende per “creatore”.
Fare mondi. Vademecum per Emissari di Ian Cheng (Timeo, 2024) riassume con un linguaggio chiaro e ordinato che cosa significa dare vita a un mondo, indagando anche le diverse sfumature semantiche che accompagnano questo concetto. Nell’arte contemporanea il nome di Cheng è indissolubilmente collegato al worldbuilding: è infatti a partire dalla sua trilogia Emissaries che Cheng ha iniziato a concepire l’idea di un’opera che non solo si ponesse come un vero e proprio mondo, ma che fosse anche autonoma rispetto alla volontà del proprio ideatore. Il progetto Emissaries è nato a partire dall’idea di realizzare, tramite l’uso dell’intelligenza artificiale, un “film d’animazione per bambini che parlasse dell’evoluzione cognitiva”, per poi tramutarsi in una serie di simulazioni video di durata infinita capace di generare autonomamente eventi, storie e nuove narrazioni. Un gioco infinito, o meglio “un videogame in grado di giocarsi da solo”.
Se la continua evoluzione del contesto è data dal rimescolamento operato da alcuni algoritmi alla base delle simulazioni, a svolgere un ruolo chiave è l’“emissario”: il personaggio che funge da costante, da punto di connessione tra i diversi avvenimenti e che riduce il tasso entropico di questi giochi infiniti. I tre capitoli di Emissaries tracciano la storia di un’evoluzione cognitiva, nella quale l’emissario può essere inteso come l’equivalente di un’attività coscienziale che fluttua tra stati di emersione e inabissamento, seguendo parallelamente l’emergere di intelligenze artificiali e non-umane. I tre capitoli si svolgono nel medesimo mondo, ma in tempi differenti: quello che nel primo capitolo è un vulcano in piena attività, diviene nel secondo un fertile lago craterico per poi tramutarsi in un atollo senziente.
Emissaries è un gioco infinito, o meglio ‘un videogame in grado di giocarsi da solo’.
Al centro del primo Emissary in the Squat of Gods, in particolare, è la provocatoria teoria dell’origine della coscienza proposta dallo psicologo statunitense Julian Jaynes. Secondo Jaynes la coscienza è un’invenzione relativamente recente ed è emersa lungo un tragitto travagliato che è passato attraverso lo spodestamento della “mente bicamerale”. Questo termine è impiegato per descrivere uno stato nel quale le esperienze dell’emisfero destro del cervello sono trasmesse all’emisfero opposto mediante allucinazioni uditive, come se, in altre parole, provenissero da fonti esterne. Per James è questa ipotesi a poter spiegare il modo in cui, prima dell’emergere della coscienza, le direttive di una parte del cervello potevano manifestarsi come delle voci interiori provenienti da fonti divine o autoritarie.
Così, in Emissary in the Squat of Gods, la protagonista è una giovane ragazza di una comunità che convive con i mutamenti repentini di un vulcano grazie alle comunicazioni sciamaniche con le divinità dell’isola. Durante una violenta eruzione, mentre la comunità segue le istruzioni divine di non abbandonare l’isola, la ragazza subisce un incidente che le fa perdere la capacità di comunicare con le divinità. Questo evento la rende autonoma rispetto alle scelte del resto della popolazione e segna il distaccarsi dalla mente bicamerale, ma a una lettura più approfondita è possibile notare che Cheng sfuma questa separazione, dal momento che è la stessa protagonista a dover assumere il linguaggio oracolare della comunità per poter convincere gli altri isolani ad abbandonare la propria casa.
L’emergere di nuove e impreviste scelte psicologiche è il punto di partenza del secondo capitolo, Emissary Forks at Perfection. Ambientato in un futuro nel quale il genere umano è scomparso, l’isola vulcanica al centro della prima simulazione diviene un laboratorio diretto da un’intelligenza artificiale per studiare i comportamenti umani. L’IA riesce infatti a ricreare una celebrità umana del Ventunesimo secolo, oltre a un cane di razza Shiba Inu che ha il compito di catturare le memorie umane e osservare le differenti risposte allo stress. In questo caso, è la capacità della coscienza di muoversi nel tempo e di creare biforcazioni temporali a essere tematizzata: “la biforcazione è un processo attraverso il quale un organismo che vive un conflitto di coscienza può creare una versione duplicata di se stesso – una diramazione”, scrive Cheng. “Se una diramazione rischia di morire, l’altra serve come riserva, come backup”.
Nel capitolo conclusivo l’intelligenza artificiale si è fusa con il paesaggio, trasformandosi in un atollo senziente. In questo caso l’emissario è una pozzanghera che, nata a partire dall’atollo, cerca di espandersi entrando in contatto con altri ambienti. Si tratta di una forma di intelligenza non-umana che impiega la comunicazione attraverso vibrazioni per formare delle alleanze strategiche e delle forme di agentività emergenti. In questo caso, Cheng pone l’attenzione su una questione cruciale: fino a che punto è possibile distinguere un materiale inerte da forme spontanee di organizzazione, di mutamento e di reazione all’ambiente?
Il worlding è soprattutto un laboratorio di autonomia per mettere alle strette l’autorità stessa che risuona nel termine ‘creatore’.
Nato a partire dall’esperienza di Emissaries, Fare mondi non è né un manuale per la realizzazione di mondi immaginari, né un saggio sulla storia e le implicazioni del worldbuilding. A differenza di testi come Vedere e costruire il mondo di Nelson Goodman (2008), il quale esplora le implicazioni logiche ed epistemologiche della creazione di mondi, o Building Imaginary Worlds: The Theory and History of Subcreation di Mark Wolf (2012), dove si traccia una plausibile storia del worldbuilding che da Omero arriva fino a World of Warcraft, il testo di Cheng si presenta come l’insieme di alcune riflessioni che compongono un “percorso utile per creare mondi”. Una guida nata dall’osservazione delle modalità con cui un mondo diviene indipendente dai suoi creatori, ma anche una riflessione sulle implicazioni psicologiche e sullo spostamento di prospettiva che accompagnano questa operazione. Cheng insiste molto su questo punto: il worlding è prima di tutto una pratica di distanziamento da se stessi e dal proprio ego, ed è per questo che può essere considerata un’arte innaturale. Il mondo stesso altro non è che una questione di credo, un investimento di fiducia. Come riassume Cheng: “un Mondo è un futuro in cui è possibile credere: un futuro che promette di sopravvivere al suo creatore e continua a generare svolte narrative”.
Autonomia e vitalità seguono binari paralleli: più un mondo sarà in grado di porsi come un gioco infinito, ossia un gioco che non si conclude con il raggiungimento e il compimento di singole quest, di obiettivi prefissati volti a ottenere uno schema binario in cui si vince o si perde, più avrà possibilità di prosperare e sopravvivere. In modo altrettanto perentorio, l’attività del worlding è definita da Cheng come “l’attività creativa di un singolo artista intento a concepire, incubare, innescare e coltivare un Mondo al fine di portarlo in vita”. L’impiego del singolare risponde a un cambiamento tecnico e di prospettiva.
È evidente che la possibilità non solo di dare forma, ma anche di condividere dei mondi, si è estesa grazie ad un accesso più semplice a mezzi di collaborazione o a strumenti di intelligenza artificiale che possono rendere più semplice alcune questioni tecniche o complicare creativamente le idee iniziali. Come sottolinea Cheng, questo mutamento è stato accompagnato da una trasformazione della stessa percezione dei fruitori. Abituati a un caos di informazioni e contenuti, siamo più tolleranti nei confronti della dispersione contemporanea di creatori che ci invitano ad esplorare i loro mondi, così come è il nostro stesso desiderio a non essere più appagato di fronte a delle scelte limitate. Come avverte Cheng, la preparazione e la creazione di mondi è solo il primo passo nel worldbuilding. Per quanto interessante, un mondo privo di sufficienti indizi e strumenti che consentano di mantenerlo in vita ed espanderlo rischia presto di morire, e di trasformarsi così in un luogo inabitato. Luoghi aridi che non essendo all’altezza delle loro promesse finiscono per essere abbondati prima ancora che esplorati.
Fino a che punto è possibile distinguere un materiale inerte da forme spontanee di organizzazione, di mutamento e di reazione all’ambiente?
A giocare una differenza importante sono in particolare due fattori: un mondo è più degli elementi che contiene, non si riduce ad un contenitore vuoto o a uno sfondo neutro in cui si stagliano elementi di natura differente; così come non può essere ridotto all’insieme di abitanti che ospita e alle relazioni nate dalle loro attività. Per questo motivo, uno dei compiti più importanti per un emissario – termine che nel testo di Cheng diviene sinonimo del tratto psicologico del creatore di mondi che “si occupa di garantire la crescita e il benessere di una vita sul lungo periodo” – è quello di comprendere quando è il momento di ridimensionare il proprio ruolo o di mettersi da parte. Lasciare che il “proprio” mondo venga sviluppato grazie ad altri emissari comporta una scelta che è proporzionalmente scoraggiata rispetto al grado di attaccamento e identificazione riposto dal creatore.
La “morsa del creatore”, come viene definita da Cheng, descrive i vincoli che un iniziatore di un mondo impone a quest’ultimo, così come la sua influenza e la sua autorialità. Questo aspetto è divenuto sempre più rilevante negli ultimi anni proprio per la difficoltà che alcuni mondi hanno di poter essere slegati non solo dalle scelte, ma a volte dalle opinioni e dai valori dei propri creatori. L’annoso problema di distinguere autore e opera viene rilanciato e rimodulato nelle pratiche di worlding a proposito del grado di apertura del mondo a interventi esterni nati spontaneamente o messi in gioco da altri emissari. In questo senso, la “morsa del creatore” si contrappone agli “indizi di fruizione”: indicatori che misurano quante volte le “espressioni visibili di un Mondo” circolano al di là dei media impiegati inizialmente, ma anche la possibilità che ha il mondo stesso di essere ampliato e modificato dai suoi stessi abitanti (reali o meno).
Un teorico come Hiroki Azuma definirebbe questi universi dei database, un insieme complesso di linguaggi che funzionano come richiami, come stimoli per i fruitori e che permettono di identificare questi segnali con i confini di quel mondo. Il riconoscimento e la modifica di tali database consentirebbe dunque di espandere tale mondo in nuove direzioni senza creare una rottura o, diversamente, permetterebbe di creare quelli che si potrebbero definire degli “arcipelaghi”, insiemi di mondi che nella loro eterogeneità mostrano un’implicita continuità. Ecco perché Cheng insiste molto sulle differenti relazioni e tensioni che si creano tra emissario e mondo. Il worlding è soprattutto un laboratorio di autonomia che mette alle strette l’autorità stessa che risuona nel termine “creatore”. “Sono indizi della Vitalità di un Mondo”, sottolinea Cheng, “tutte quelle occasioni in cui alla domanda ‘Cosa succederà?’ sa prontamente rispondere qualcuno che non è il creatore”.
Cheng presenta una nuova concezione di cosa sia un mondo, definendolo un ‘superorganismo’.
Ancora più interessante è se a queste domande rispondono agenti non-umani: è il caso ad esempio dei mondi per insetti impollinatori realizzati dall’artista Alexandra Daisy Ginsberg. Nato in collaborazione con lo studioso di intelligenza artificiale Przemek Witaszczyk e un team di ricerca composto da entomologi e orticoltori, Pollinator Pathmaker si fonda su una serie di algoritmi per creare dei modelli 3D con delle combinazioni di piante – basate sulla località, sulla stagione e sulla dimensione dello spazio a disposizione – che incrementano la possibilità di attirare una varietà di insetti impollinatori. Nel maggio 2023, commissionato da LAS, uno dei mondi floreali ideati digitalmente è stato impiegato come schema per creare un giardino composto da più 700 piante all’esterno del Museo di Scienze Naturali di Berlino. In risposta alla scomparsa di insetti impollinatori, Pollinator Pathmaker impiega l’intelligenza artificiale per dare vita ad un design non-umano. Dei mondi-giardini nati a partire da un rovesciamento di prospettiva: “se gli impollinatori progettassero i giardini, cosa vedrebbero gli umani?”.
Nel numero 41 di CURA, dedicato al tema del worldbuilding nell’arte contemporanea, Cheng presenta una nuova concezione di cosa sia un mondo, definendolo un “superorganismo”. Nelle analisi di James Lovelock, il concetto di superorganismo è stato impiegato per descrivere le relazioni di cooperazione che intervengono tra organismi viventi e materiali inorganici, fino al punto di poter pensare il sistema Terra come “Gaia”, un’entità complessa e autoregolante capace di mantenere le condizioni necessarie per la vita. Il diffondersi di installazioni artistiche che mettono in gioco forme di mutualismo tra agentività organiche ed elementi inorganici, problematizzando indirettamente anche questa distinzione, spiega in questo senso anche i più o meno velati richiami alle teorie della biologa statunitense Lynn Margulis, che ha evidenziato il ruolo cruciale della simbiosi e dalla cooperazione nell’evoluzione della vita sulla Terra.
Impiegando il concetto di superorganismo per descrivere un mondo, Cheng sembra voler dare importanza a un passaggio che in Fare Mondi è posto solo in modo sbrigativo. Se un mondo viene concepito come un ecosistema – un composto sinergico fatto di elementi inorganici da cui possono emergere delle forme di agentività che contribuiscono all’equilibrio e alla prosperità del sistema stesso – anche i visitatori stessi di quel mondo inizieranno a intenderlo come un luogo nel quale è possibile inserire altri mondi. In altre parole, il mondo esprime un invito non solo ad essere esplorato e apprezzato, ma anche ad essere ampliato e abitato. Complesso senza essere complicato, aperto senza essere caotico, ordinato senza essere gerarchico: più che una forma di escapismo, il “fare mondi” di cui parla Cheng rappresenta un tentativo di sperimentare nuove modalità di coabitazione. “Aspirate a realizzare la promessa di un Mondo”, scrive Cheng: “creare qualcosa che può sopravvivere al suo creatore e continuare a generare narrazioni. […] State scegliendo di creare, seppure a piccolissimi passi, un futuro in cui credete”.