S u Internazionale, la scorsa estate, Francesca Mari evidenziava come quella abitativa sia una delle crisi globali più preoccupanti. Il caso degli affitti bassissimi a Vienna veniva proposto nell’articolo come esempio virtuoso di “edilizia sociale” contro la tendenza – degli Stati Uniti e di molta Europa – a una cruda “mercificazione della casa”. Il 2023 appena chiuso, del resto, è stato anche in Italia un anno contro il caro affitti: ricordiamo ad esempio il movimento Tende in piazza e le varie proteste che, mobilitate soprattutto dagli studenti, sono esplose in diverse città del paese.
Il lockdown, la gentrificazione, lo smart working, l’apartheid dei palestinesi a Gaza: una lunga serie di macro-eventi che hanno segnato gli ultimi anni hanno a che fare con l’abitare e la sua radicale trasformazione.
La situazione degli affitti non è l’unica a rivelare come il problema della casa sia centrale in questi anni. Ancora la scorsa estate, si parlava di crescita del turismo nelle zone con temperature altissime; e se consideriamo come molto turismo sia una sorta di voyeurismo verso i luoghi difficili da abitare (la montagna, le isole, i piccoli paesi…), il turismo da cambiamento climatico ne rappresenta l’apice, il voyeurismo rivolto all’inabitabilità. Fra le questioni fondamentali possiamo citare il lockdown, la gentrificazione, lo smart working, volendo anche l’apartheid dei palestinesi a Gaza: una lunga serie di macro-eventi che hanno segnato gli ultimi anni o decenni e che hanno tutti a che fare con l’abitare e la sua radicale trasformazione. In Filosofia della casa (Einaudi, 2021) Emanuele Coccia scrive che “le città sono, letteralmente, inabitabili”, che la “vita che prova a coincidere con lo spazio urbano, ad abitarlo senza mediazioni, è destinata a morire” e che di conseguenza spetta alla casa fornire la mediazione necessaria tra spazio esterno e interno. Una mediazione che ora è messa seriamente alla prova, dagli eventi citati sopra ma anche, ad esempio, dal modo in cui la pervasività dei social network ha fatto saltare il confine tra pubblico e privato: “Facebook o Instagram sono estensioni o proiezioni dello spazio domestico”, scrive ancora Coccia, con l’effetto che “il mondo stesso diventa ora, per noi, un fatto psichico. Il mondo non è più composto da eventi, è composto da una psiche diffusa, da una coscienza in cui siamo tutti immersi”.
Alla luce di queste trasformazioni – che riguardano appunto sia la fisicità sia la “psichicità” del domestico – risulta urgente ragionare su cosa significa “casa”. E in questo articolo vorrei provare a farlo partendo da un ambito culturale meno frequentato, ovvero quello della (cosiddetta) poesia (rimando a questo articolo per alcune riflessioni sul termine e sul contesto). Il tema della casa è del resto presente da tempo nella poesia, soprattutto – mi sento di azzardare l’ipotesi – da quando il racconto del privato ha assunto un ruolo importante nell’immaginario poetico, e cioè in parallelo all’ascesa della borghesia, per cui lo spazio domestico – come rifugio ma anche come area su cui si esercita un potere personale – rappresenta un punto saldo. Per l’Italia, gli esempi di Leopardi e Pascoli sono i più facili, ma sufficienti a inquadrare il discorso. Il tema ha poi attraversato tutto il Novecento (dalla“casa [con]giardino antico” del La Signorina Felicita di Gozzano alle Case di Umberto Fiori) e anche il nuovo millennio: penso a La casa esposta di Marco Giovenale, Appartamenti o stanze di Carmen Gallo, Progetto per una casa di Giulio Marzaioli… Vista questa persistenza, perciò, mi sembra interessante provare a osservare come viene affrontato il tema oggi, soprattutto tenendo conto della natura conflittuale, frammentaria e alterata del linguaggio della poesia.
Il primo dei tre libri che prendo in considerazione è Storie del pavimento di Gherardo Bortolotti (Tic Edizioni, 2019). Premessa per i lettori non abituali di poesia: parlare di poesia oggi non è solo parlare di versi. La prosa è già da tempo (duecento anni, quasi) parte integrante delle scritture poetiche e ha visto una significativa evoluzione negli ultimi decenni, in Italia soprattutto attraverso il volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009) a cui lo stesso Bortolotti ha partecipato. Benché associato al contesto poetico, il lavoro di Bortolotti non è quindi in versi, e si muove, per di più, in una zona grigia tra prosa in prosa e narrazione, come dimostra il suo ultimo libro, Tutte le camere d’albergo del mondo (hopefulmonster, 2022), composto da prose sostanzialmente affini a quelle “poetiche” ma pubblicate nella collana di narrativa Pennisole curata da Dario Voltolini. Affiancare questi due libri permette quindi di farsi un’idea sulla regione indefinita occupata dalla scrittura di Bortolotti e anche di notare – tornando al tema dell’articolo – come l’elemento architettonico agisca all’interno della sua scrittura. Entrambi i libri hanno infatti a che fare con il domestico, e lo affrontano in un modo di cui qui mi interessa evidenziare il portato immaginifico, in certo senso epico. Aprendo all’inizio Storie del pavimento si legge:
17 febbraio 1790
Negli anni che precedettero l’inverno, gli angoli della stanza videro le nostre ombre diventare più tenui. Dall’alto, tra le linee incrociate delle piastrelle, i Grandi ci guardavano accamparci tra le briciole di pane, tra i gomitoli di polvere e di fibre generiche. Uscimmo dai muri, nella profondità del pomeriggio. Nella trama del tempo conquistammo il corridoio.
Fin dall’inizio il lettore è proiettato in un universo altro, la cui estraneità ci è trasmessa soprattutto dall’ambientazione settecentesca e dall’alterazione delle dimensioni, per cui ci muoviamo”tra i gomitoli di polvere” sotto lo sguardo dei “Grandi”. Il primo punto è un richiamo a Viaggio intorno alla mia camera di Xavier De Maistre, che, uscito nel 1794, si incentrava proprio su un paradossale “viaggio” negli angoli di una stanza. Da qui si nota la matrice intertestuale del libro di Bortolotti; ma la datazione serve anche a costruire le Storie come un diario di viaggio, composto da brevi prose su Paolino e sulla sua esplorazione del pavimento, cioè di uno spazio fortemente ristretto, dove”accadono cose rasoterra, ai confini del rappresentabile per insignificanza” (Gilda Policastro).
Diventata impossibile un’epica macro, nel mondo esterno, reale, l’agency è ricercata nello spazio domestico, e precisamente nel suo livello meno noto, meno significato.
La casa, in questo Bortolotti, è quindi sottoposta a un’inversione di prospettiva: si porta in primo piano il secondario, l’infimo, il trascurato, e solo così diventa possibile una “microepica”, come la definisce Cortellessa, che benché micro, benché ironica e giocosa, mantiene una certa attrazione per la scoperta e per l’avventura tipicamente, appunto, epica. Il suggerimento dunque è: diventata impossibile un’epica macro, nel mondo esterno, reale, l’agency è ricercata nello spazio domestico, e precisamente nel suo livello meno noto, meno significato. Si tratta a tutti gli effetti della contro-storia di De Maistre: se quello riusciva a costruire un’epica “grande”, a figura intera, nonostante la restrizione nella stanza (dovuta a un arresto), qui si risponde con la storia di ciò che per tradizione non è epicizzato, dello spazio che circonda la figura intera e non può ambire a esserlo. Una dialettica tra costrizione e narrazione che è d’altronde anche al centro di Tutte le camere d’albergo del mondo, le cui prose dal gusto calviniano raccontano di un “protagonista, che potremmo chiamare Gherardo” e dei romanzi che questo personaggio immagina (ma non scrive!) a partire da situazioni architettonicamente sottolineate, “sulla soglia della camera” o “davanti all’ascensore”.
Questa connessione tra architettura e virtualità la ritroviamo in Altre stanze di Vanni Santoni (Le Lettere, 2023), in merito al quale lo stesso Bortolotti, autore della prefazione, parla di “esempio riuscitissimo […] nella gestione di tutte quelle spinte centrifughe e allo stesso tempo innovative che caratterizzano un’epoca di transizione”. Con Bortolotti Santoni condivide infatti il legame alla tradizione di mise en abyme letteraria che ha grandi riferimenti in Calvino e Borges, a partire dal fatto che il libro, estratto di 198 testi da un progetto più ampio e sviluppato in rete (999 rooms), si presenta in doppia versione: testo originale in inglese e auto-traduzione dell’autore. Una traduzione che per di più viene presentata come “guida alla lettura” e non come traduzione letteraria, dunque come traduzione paradossalmente depistante, fedele e infedele allo stesso tempo. Proprio il continuo scambio tra orientamento e disorientamento è infatti il cuore concettuale del libro, i cui testi appaiono dunque in questa forma:
Room 1
Room 1 is filled of water.
Stanza 1
La stanza 1 è piena d’acqua.
Formalmente, le stanze di Santoni possono essere molto diverse fra loro, tanto nella struttura (prosa o poesia, più o meno lunghe) quanto nello stile (passaggi più minimali si accostano ad altri più retorici, denotazioni a immaginazioni: “Nella stanza 34 i cani vengono decapitati con le mannaie”). È l’essenzialità dell’esempio riportato – comune alla maggior parte dei testi, che tracciano una semplice descrizione degli ambienti (“La stanza 27 è un enorme cristallo sognante”, “Questa stanza è una baracca lurida”…) – a esprimere però il carattere fondamentale del libro: si tratta di oracoli stralunati, indicazioni tra il puntuale e l’ironico, e costituiscono la spinta orientante del libro. Per contro, come rilevato da Bortolotti, Altre stanze sembra ricalcare le strutture videoludiche, portare il lettore in un’area labirintica e non euclidea in cui ci si muove non linearmente, ci si perde, si interagisce per aprire nuove porte. Se in Bortolotti, quindi, la casa è lo spazio di una trasognata (e unica possibile) epica dell’infimo, in Santoni l’architettura è mutevole, contraddittoria, e il viaggio al suo interno non può che portare a uno smarrimento frattale. Sia per Bortolotti che per Santoni si tratta quindi di capovolgere lo spazio domestico, sull’asse della gerarchia architettonica per il primo, su quello dell’orientamento per il secondo. In questo modo si ottiene un effetto weird di fisheriana memoria, con ciò che dovrebbe essere familiare che diventa estraneo e irriconoscibile. Su questa strada, un altro e più radicale ribaltamento lo troviamo in Avventure e disavventure di una casa gialla (L’arcolaio, 2023) di Francesco Deotto. L’Inventario sommario dei blocchi maggiori che apre il libro, infatti, riporta testi del tipo:
Cinque grandi blocchi
accompagnati da delle discrete
(quanto confuse) formazioni
di piccoli blocchi.
Cinque grandi blocchi
disomogenei praticamente
sotto ogni punto di vista.
Per forma, età, disposizione,
stato di conservazione,
aspettative di sopravvivenza
(e di rilancio), ambizioni,
appetibilità, eccetera.
Qui vediamo come la parte della casa che nella nostra esperienza si dà come implicita, trasparente – ovvero la sua ossatura, impalcatura – viene portata alla luce ed esposta. Scrive Coccia: “Sono gli oggetti a ospitare il nostro corpo […] a impedirci di scontrarci con la superficie squadrata, perfetta, geometrica della casa, a proteggerci dalla sua violenza. La scatola-casa è, da un punto di vista tecnico, una forma di deserto, una struttura puramente minerale.” Attraverso un verso asettico e inventariale, in Deotto si compie esattamente la reificazione e devitalizzazione dello spazio-mondo della casa, ora spogliato e proprio per questo visibile nella sua inquietudine.
Ciò che sembra dare forma alla lingua e all’immaginario di questi libri è proprio l’assenza dello spazio-casa come qualcosa di conosciuto nella sua interezza, di linearmente esperibile o di confortevolmente neutrale.
Questo meccanismo si rafforza ulteriormente quando andando avanti scopriamo che la casa al centro del libro è in realtà l’“Hospital de Rilhafoles”, primo “ospedale psichiatrico del Portogallo […] dismesso nel 2011” ma di cui oggi non è stato ancora deciso il destino definitivo. Le sezioni che seguono l’Inventario, perciò, disegnano tre Ipotesi di futuro, che sono, rispettivamente, delle palazzine, del bombardamento, del nuovo ospedale. All’autopsia della casa corrisponde dunque la rilevazione di un vuoto, che è un vuoto abitativo (e non a caso Deotto chiama casa un ospedale), come se il ribaltamento su cui si regge il libro portasse alla luce, anche, la traslucidità della casa, il suo essere passata da neutralità confortante a oggetto che si vede, scheletro, dispositivo non chiaro. Del resto il libro si chiude con questo passaggio profetico e rassegnato insieme: “come se fosse possibile un mutamento radicale del mondo e della società, un mutamento tale da metterne in questione le forme di produzione e di consumo, delle istituzioni pubbliche e private, l’apertura a un ripensamento profondo del modo di rapportarsi tra umani, e col pianeta, tra viventi, con le generazioni future e passate, col mondo minerale, e pure con sé stessi”. Ciò che sembra dare forma alla lingua e all’immaginario di questi libri, insomma, è proprio l’assenza dello spazio-casa come qualcosa di conosciuto nella sua interezza (Bortolotti), di linearmente esperibile (Santoni) o di confortevolmente neutrale (Deotto). Inutile dire che non ho la pretesa di costruire una teoria generale a partire da tre rapide letture. Ma una delle possibilità della poesia è quella di assediare il senso, allentarlo, farlo detonare, e qui mi sembra che tutti e tre i libri ruotino attorno allo stesso buco nero, attorno al punto in cui dovrebbe esserci una casa – stabile e ospitale per statuto – ma non c’è. Non è una teoria generale ma un sintomo sì: di una fase storica e culturale in cui il certo diventa precario, il trasparente opaco.