T utto ha inizio su un taxi, con un passeggero logorroico, intento a raccontare un monologo sul fatto che avrebbe dovuto rimanere alla fermata dell’autobus. Se l’avesse fatto la sua vita sarebbe cambiata, naturalmente in meglio. Nella cascata di storie in libertà, parla di Tolstoj e Frank Zappa, di tutto e il suo contrario: forse è un regista, desideroso di mettere in scena qualcosa di memorabile, forse un mitomane. A interpretarlo è Richard Linklater, nell’incipit del suo primo lungometraggio distribuito nelle sale. Il film è Slacker, del 1991, destinato a diventare un manifesto della Generazione X, e quella comparsata iniziale, davanti alla macchina da presa, sa di dichiarazione di intenti. È nato uno storyteller, come il nostro ama definirsi: “Non ho mai smesso di osservare la vita. Ero sempre il tipo che, anche durante un party, si domandava: ‘Cosa significa tutto questo? Cosa c’è dietro, qual è il livello nascosto?’. Probabilmente ero già uno storyteller”.
Un osservatore dei comportamenti altrui, ma non un voyeur. Un cinefilo all’ultimo stadio, ma non un nerd. Semmai un jock: sportivo, campione mancato di baseball (non giocò in Major League solo per un problema medico), texano fin nel midollo. Questo americanissimo coacervo di contraddizioni è uno dei registi più amati e meno compresi in circolazione. Nessuno si sa spiegare come l’autore di Boyhood o Prima dell’alba sia lo stesso di Newton Boys o dello sciagurato remake di Che botte se incontri gli Orsi, ma sono tutti figli suoi, sia i romance che hanno fatto sognare generazioni che i film da notte degli Oscar, così come i fallimenti annunciati o i campioni d’incassi per famiglie come School of Rock.
Chiamarla una “carriera eclettica” è un eufemismo: solo due anni fa ci ha regalato un tenero e peculiare Apollo 10 e 1/2, nostalgico racconto semi-autobiografico sull’infanzia e su un impossibile allunaggio, girato con la tecnica del digital rotoscoping (recuperatelo su Netflix, ne vale la pena). Un camaleonte del cinema che sembra non stancarsi mai di osservare l’umanità e di investire in progetti folli – al momento è alle prese sia con un film in bianco e nero e in francese su All’ultimo respiro che col progetto di un musical che porta avanti da anni. Un tipo così curioso nella sua ricerca gnoseologica da spingersi, talvolta, un tantino più in là. Ad esempio, fino a ospitare nel proprio scantinato un sospettato di omicidio (poi condannato) come Bernie Tiede, dopo averne romanzato la nera vicenda esistenziale in Bernie. In quel caso, Jack Black trasformava in commedia una bizzarra storia di amore e morte nella profonda provincia texana, dove i giudizi morali seguono canoni a noi sconosciuti.
Un film che si fa beffe dei rigidi moralismi odierni e riflette sui mali della contemporaneità, nascondendo l’indagine psicologica sotto una coltre di risate.
Questa bussola etica, così aliena da risultare a tratti sconcertante, è anche alla base di Hit Man, ultimo film di Richard Linklater: una crime romantic comedy che alla prima di Venezia mise d’accordo tutti o quasi. In parte piacque per una sceneggiatura irresistibile, ma soprattutto perché è un film che si fa beffe dei rigidi moralismi odierni e riflette sui mali della contemporaneità, nascondendo l’indagine psicologica sotto una coltre di risate. Risate colpevoli, a volte, che possono quasi sfociare nell’insensibilità di chi osserva le debolezze umane con il cinismo dell’entomologo. Ma il cinema di Linklater è anche questo, significa ripensare la realtà con l’ingenuità di un ragazzone texano e la curiosità intellettuale di un europeo. Hit Man fa ridere e fa sognare, ma fa anche riflettere, senza mai rinunciare a intrattenere. La storia deriva da una faccenda di cronaca su un infiltrato della polizia, Gary Johnson, che si fingeva sicario per attirare potenziali clienti, illuderli di poter soddisfare i loro desideri omicidi e, infine, farli arrestare.
In una società che ha scriteriatamente barattato la realtà con la sua percezione, ha ancora senso mettere le briglie all’Id?
Raccontando, in apparenza, di Gary (Glen Powell), un medioman costretto dalle circostanze a fingersi un sicario, nella sostanza Linklater ci parla di una crisalide, in cerca di un costume adatto a spiegare le ali. Per evadere dalla vita toccatagli in sorte e poter finalmente scrivere il suo destino, Gary indossa una maschera e scopre che questa gli calza a pennello. Gary assume identità sempre nuove ed eccitanti, scopre zone di sé ignote, dimentica per un attimo una vita di compromessi e ambizioni frustrate. In una sequenza cruciale per rendere l’implicito esplicito, Gary traccia alla lavagna – un topos linklateriano, come ci insegna il malinconico epilogo del bellissimo Tutti vogliono qualcosa– la lotta tra Id e Superego, con il compromesso come unica soluzione accettabile. E se non fosse più così? In una società che ha scriteriatamente barattato la realtà con la sua percezione, ha ancora senso mettere le briglie all’Id? Per spingere a un parossistico estremo il suo assunto, Linklater sceglie il mito del sicario, raccontandolo come tale: una leggenda, una favola cinematografica, che si è servita di immagini talmente forti e immortali da divenire reale, riempiendoci la testa di silenziosi brizzolati di nome Vincent nella notte losangelina (Collateral) e di surreali aspiranti al titolo di N.1 degli assassini, come il Goro Hanada di La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki, qui ampiamente citato.
Il cinema ha lavorato così incessantemente sul nostro cervello da indurci a credere che l’assassino infallibile, il professionista solitario che intasca una somma e risolve scomodi problemi, esista davvero.
Ovviamente non si tratta di negare che là fuori esistano killer professionisti, si tratta di ridicolizzare – o “smontare” come dice Linklater – il concetto, inculcato dal genere noir, che rivolgersi a un sicario, per avvalersi dei suoi servigi, possa rientrare in una visione consumistica dell’esistenza, un po’ come andare dal droghiere per fare la spesa. La sedentarietà della comfort zone dell’uomo contemporaneo induce a usufruire di ogni servizio con un click e la collisione tra questa deriva capitalistica e la mitologia del killer infallibile e freelance, slegato dalla criminalità organizzata, presta il fianco a spunti narrativi dall’enorme potenziale.
Il cinema ha lavorato così incessantemente sul nostro cervello da indurci a credere che l’assassino infallibile, il professionista solitario che intasca una somma e risolve scomodi problemi, esista davvero. Ascoltando le reali registrazioni dei goffi tentativi di ingaggiare il sicario Gary, Linklater si è reso conto di come questi redneck spiantati credessero fermamente al mito dello hitman, al pari di bambini che attribuiscono a Babbo Natale la paternità di tutti i regali del mondo. Per convincere i suoi clienti Gary si serve di immagini riciclate o interpreta personaggi di altri film – come quando imita il Patrick Bateman di American Psycho ricalcando l’interpretazione di Christian Bale, introducendo un secondo livello di role playing. Giocare di ruolo, come quando si interpretava il chierico o il ladro a Dungeons & Dragons, è diventato una parte essenziale della nostra vita: ogni giorno, sin dal momento in cui abbassiamo gli occhi su uno smartphone, ha inizio il nostro role playing privato e in solitario. Diventiamo altro da noi per compiacere qualcuno, per illuderci di essere qualcun altro. Oppure per dimenticare chi siamo.
Ancora una volta Linklater sintetizza concetti complessi e intellettualmente stimolanti sotto forma di intrattenimento di genere, riuscendo a giocare su molteplici registri, e dimostrando di essere un clamoroso regista di attori.
Anche il sesso in Hit Man è una questione di role playing: per essere sexy Gary deve trasformarsi nel killer Ron, che seduce Madison (Adria Arjona) in un gioco di complicità carico di tensioni erotiche. Mai come in Hit Man Linklater lascia spazio a scene hot, citando esplicitamente Brivido caldo e la maniera anni 80 – un’oasi perduta che di libito fe’ licito – di mettere in scena l’erotismo. Un altro elemento di nostalgia inserito sottopelle e possibile solo nella dimensione recitativa dei due protagonisti, costantemente nei panni di altri (Gary di Ron, Madison di una femme fatale capace di tutto). Ancora una volta Linklater sintetizza concetti complessi e intellettualmente stimolanti sotto forma di intrattenimento di genere, riuscendo a giocare su molteplici registri, e dimostrando di essere un clamoroso regista di attori.
La sequenza centrale in cui Gary e Madison, complici e amanti, sono spiati dalla polizia e recitano una messinscena comunicando solo sul display di uno smartphone è un capolavoro di tempi comici costruito sulla specificità del dispositivo (carta e penna non potrebbero garantire la stessa rapidità). Ed è indicativo il fatto che la verità risieda nelle mute parole del virtuale e il falso in quel che i due umani si dicono a voce: Sherry Turkle non avrebbe saputo immaginare niente di meglio per raccontare la mutazione comunicativa dell’homo sapiens in La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale. Gary è un uomo del nostro tempo e quando ne comprende le chiavi interpretative vince la sua partita. Che si tratti di un lieto fine o di un’amara verità, o ancora di una distorta versione del sogno americano, è questione soggettiva, che rimane aperta alle diverse interpretazioni.