L a scorsa primavera è uscita una serie televisiva di Scott Z. Burns intitolata Extrapolations. Il titolo rimanda al fatto che in ogni puntata si estrapolavano gli effetti del riscaldamento globale nel prossimo futuro: la prima puntata era ambientata nel 2037, la seconda nel 2046, e così via fino all’ultima, l’ottava, nel 2070. Extrapolations racconta vite, vittime e protagonisti dell’inasprirsi della crisi climatica. Tutto quello che si perde, i sempre meno che si salvano, e che si salvano sempre peggio. Ciò che non cambia mai, nemmeno di fronte ai disastri più disarmanti, è l’approccio ottuso dei gruppi dominanti: accumulo, guadagno e sviluppo perdono senso in maniera via via più plateale, eppure sembra che le loro menti non riescano a uscire da questa prigione ideologica, anche quando è quella stessa mentalità a spingere loro stessi e il mondo intero verso l’autodistruzione.
Del resto proprio l’economia è fra le poche scienze sociali (forse l’unica?) che non sembra più di tanto mettere in discussione i propri assunti. Lo diceva bene Mark Fisher: la necessità dello sviluppo viene percepita come postulato fondamentale e autoevidente, il sistema capitalistico come insostituibile. Ma ora che la fine del (nostro) mondo sembra un’ipotesi meno strampalata rispetto a qualche anno fa, da più parti comincia ad affiorare la necessità di immaginare la fine di questo apparentemente insostituibile capitalismo.
Cominciamo ricordandoci che il capitalismo non è sempre esistito: ancora oggi permangono anfratti del mondo che la sua luce abbagliante non arriva a illuminare. E ci sono idee, o almeno germi di idee, che ogni giorno cercano di farsi strada tra le sue maglie. Sapere che delle alternative ci sono, che nella lunga storia prima del capitalismo sono state la norma, che resistono pur su minuscola scala, che prendono forma nella testa di filosofi ed economisti – sapere tutto questo è importantissimo. Se non è sempre stato così, allora magari non sarà così per sempre.
L’economia è forse l’unica tra le scienze sociali che non sembra mettere in discussione i propri assunti.
Certo trovare modelli economici alternativi in grado di funzionare su larga scala, in un mondo abitato da otto miliardi di persone, è difficilissimo. Sappiamo però che è questo sistema economico ad aver causato il disastro climatico in cui viviamo. Il capitalismo è fatto di accumulo di risorse, di sovrapproduzione, di rifiuti, di colonialismo, di territori, di specie ed esseri umani trattabili come scarti: insomma, in qualche modo, il capitalismo è la crisi climatica. Non per niente il termine “Capitalocene”, nell’accezione conferita da Jason W. Moore, definisce la nostra epoca riferendosi al “deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro”.
In Extrapolations si ha la percezione di una mentalità, di un modo di ragionare, inscritto in questo sistema, nel quale siamo imprigionati e, anzi, nel quale è imprigionato proprio chi avrebbe il potere di cambiare la situazione. Sembra che soltanto chi il potere politico o economico di cambiare le cose non ce l’ha, ossia i movimenti giovanili e le classi più vulnerabili, riesca a vedere il disastro per quello che è, e ad avere una scala di priorità congrua alla dimensione del riscaldamento globale. Il personaggio di Don’t look up (2021) che vuole trarre profitto dalla distruzione dell’asteroide è l’archetipo perfetto di quella mentalità imprigionante, ma l’idea stessa di green economy ha a che fare con l’incapacità di tirare la testa fuori dalla sabbia. Come ha scritto Jaume Franquesa, docente di antropologia economica negli Stati Uniti:
l’idea che la crescita sia positiva, che sia un fine in sé, è ancora molto presente. E per sostenerla ci inventiamo fallacie come la crescita green. L’idea di crescita green si basa sull’ipotesi che si possa scindere la crescita economica dalla pressione sulle risorse ambientali. Ad oggi, questa teoria non è supportata da alcuna letteratura. Al massimo possono esserci momenti di separazione relativa, in cui la crescita diventa meno intensiva. […] Ma una separazione assoluta in cui la crescita economica prende una direzione, e la pressione sulle risorse un’altra, non è documentabile, non è reale.
Il primo rapporto sui limiti dello sviluppo uscì già nel lontano 1972 per conto del Club di Roma e individuava nella crescita economica la principale causa di deperimento degli ecosistemi, inquinamento e scarsità di materie prime. A stilarlo fu, fra gli altri, Nicholas Georgescu Roegen, economista e matematico che concentrò buona parte dei suoi studi sul legame fra attività economica e consumo di risorse naturali. Roegen ragionava perlopiù in termini generazionali, ritenendo lo sfruttamento incontrollato di risorse “una dittatura del presente sul futuro” per l’impossibilità di distribuire equamente le risorse esauribili fra generazioni presenti e generazioni future.
Se non è sempre stato così, allora magari non sarà così per sempre.
Fu un allievo di Georgescu-Roegen, l’accademico e analista del dipartimento Ambiente della Banca Mondiale Herman E. Daly a proporre un modello concreto di economia alternativa che potesse provare a risolvere (anche) il problema dell’allocazione intergenerazionale delle risorse. Per essere stato tra i fondatori dell’economia “ecologica”, Daly venne definito “il più importante economista di cui probabilmente non avete mai sentito parlare”, e non a torto. La raccolta di articoli Verso un’altra economia. Scritti per un futuro sostenibile (Carocci, 2023) mostra chiaramente come per Daly non solo la crescita infinita in un mondo finito sia impossibile, ma anche che la crescita smette di essere desiderabile ben prima di avvicinarsi a un pericoloso esaurimento delle risorse.
Con l’aumentare della produzione e del consumo l’utilità marginale dei beni prodotti e consumati diminuisce, e si ottiene al contrario una “disutilità marginale”. Superata una certa soglia, insomma, la crescita diventerebbe addirittura “anti-economica”: per Daly il concetto di “sviluppo sostenibile” è perciò un ossimoro in termini e la fiducia cieca nel mito della tecnologia come panacea a tutti i mali, capace di eliminare alla radice qualsiasi forma di scarsità materiale, non è altro che un’illusione. Ciò che proponeva Daly era l’approdo a una steady state economy, ossia un’economia di stato stazionario in cui la produzione di beni, i consumi, la popolazione e il tasso di occupazione restino costanti nel tempo. Si tratterebbe di trovare un giusto equilibrio fra questi fattori, con un margine più ampio di assestamento per i paesi più poveri e una stabilizzazione fra l’input di risorse naturali prelevate dall’ambiente e l’output di scarti che eviti perdita di biodiversità e inquinamento, e dia il tempo agli ecosistemi di rinnovarsi: l’opposto dell’approccio estrattivista che di norma guida le scelte di governi e grandi aziende.
In questa prospettiva stazionaria di non-crescita, l’economia potrebbe allora occuparsi di obiettivi più virtuosi, sani e concreti, come un’equa redistribuzione e la fruizione di beni immateriali. Questo stato stazionario si raggiungerebbe in seguito a un periodo di ridimensionamento dell’economia e ha a che fare solamente con gli aspetti materiali: la conoscenza, la ricerca, le arti possono continuare a crescere senza limiti. I critici alle tesi di Daly si sono soffermati sul rendimento decrescente delle risorse minerarie, il quale porrebbe un problema di giustizia intergenerazionale tanto in un’economia in crescita quanto in una stazionaria, così come sulle preoccupazioni di stampo neomalthusiano per la sovrappopolazione che sembravano caratterizzare il pensiero suo e di Georgescu-Roegen.
Per Daly la crescita smette di essere desiderabile ben prima di avvicinarsi a un pericoloso esaurimento delle risorse.
Pochi anni prima che i due economisti formulassero le loro teorie per un’economia alternativa, fu pubblicato The population bomb (1968) di Paul e Anne Ehrlich e in alcuni Paesi cominciavano i tempi delle politiche di contenimento della popolazione, con malcelate derive neocoloniali e classiste. In realtà l’impatto ambientale è in larga parte indipendente dalla dimensione della popolazione umana: il World Inequality report uscito nel dicembre 2022 indica come il 10% più ricco della popolazione mondiale emetta da solo il 50% della CO2 totale. La vera questione, insomma, è lo stile di vita della società di consumi in un’economia di tipo capitalistico. Questo non vuol dire che la popolazione debba crescere all’infinito, anzi: a livello mondiale sta già rallentando e presto raggiungerà il suo picco, per poi diminuire. Ma per ripensare l’economia e raggiungere uno steady state si dovrebbe partire innanzitutto da una drastica riduzione dei consumi più inquinanti e dunque della CO2 emessa da quel 10% di classe agiata.
Il concetto di “decrescita” proposto da Serge Latouche e anticipato dallo stesso Georgescu-Roegen ha forse il suo peccato originale nel nome scelto e nel non essersi saputo raccontare. Un peccato che negli ultimi trent’anni ha avuto due principali effetti: il primo è stato quello di dare all’ecologismo un’aura di mesta sobrietà, un volto grigio e austero, ben poco invitante. Il secondo effetto è stato quello di aver creato una diffidenza di classe verso l’ecologia in chi a mala pena stava arrivando ad avere il giusto e già aveva l’impressione di dovervi rinunciare, perché proprio sulla rinuncia sembrava essere posto l’accento. E mentre gli studi degli economisti decrescisti enfatizzano al contrario la necessità di un ripensamento globale delle attività economiche, la narrazione che voleva ridicolizzare la decrescita si è sempre concentrata sugli aspetti individuali.
Al di là del nome sfortunato e della narrazione derisoria che spesso se ne è fatta, quello di decrescita è un concetto denso, che propone un’inversione rispetto al modello economico capitalista. Se Keynes, fra le espressioni più “gentili” del capitalismo, riteneva che solo allargando sempre più la torta si sarebbe potuto dare da mangiare a tutti, Latouche sostiene invece la necessità di ripensare prima di tutto la dieta delle nostre società. Perché la torta non si può allargare all’infinito e, anche se si potesse, le disuguaglianze economiche e materiali resterebbero inalterate. È a partire da una civiltà fondata sulla giustizia sociale e su un rapporto armonico con la natura, o meglio dentro la natura, che si può raggiungere una maggiore equità sociale. Il benessere non dipende esclusivamente dalla crescita materiale, quanto invece da cooperazione, cura e anche autonomia nella gestione di molti aspetti della vita di ciascuno. In una società di questo tipo si porrebbero tetti condivisi nell’utilizzo delle risorse, diminuendo ogni anno le emissioni globali di gas serra o l’uso di energia non rinnovabile e assicurando a tutti un accesso equo alle risorse necessarie per condurre una vita soddisfacente.
Mentre gli economisti decrescisti promuovono un ripensamento globale delle attività economiche, la narrazione che voleva ridicolizzare la decrescita si è sempre concentrata sugli aspetti individuali.
Il reddito di base dovrebbe garantire un livello di vita dignitoso insieme all’accesso all’assistenza sanitaria, al cibo e all’alloggio, e potrebbe essere finanziato da schemi di “reddito climatico” che tassano le emissioni di carbonio e redistribuiscono le entrate lì dove possono produrre maggiore utilità sociale. Di proposte che vanno in questa direzione ce ne sono diverse: la campagna Tax the rich di Oxfam mostra che tassando i redditi multimiliardari si potrebbero ottenere dai 13 ai 15,7 miliardi di euro all’anno. Andrea Fumagalli, economista dell’Università di Pavia, parla invece di un basic income digitale, ossia una tassazione delle piattaforme online per “ripagare” il lavoro inconsapevole degli utenti che forniscono, al momento gratuitamente, i dati di cui le piattaforme stesse si nutrono. Non si tratta di misure che ribalterebbero il sistema economico vigente, ma magari potrebbero lanciare dei ponti verso prospettive più solide di post-crescita in cui ripensare alla base il rapporto con la natura.
Il concetto sudamericano di buen vivir compie un movimento ancora più radicale: propone una concezione del tutto diversa del rapporto tra esseri umani e ambiente e da lì approda a una diversa economia. Qui non si parla più di risorse a disposizione dei bisogni umani, ma piuttosto di scambi fra specie ed elementi naturali. E tutti, elementi naturali compresi, godono degli stessi diritti. Nel 2008 in Ecuador alcuni principi del buen vivir, che ha le sue radici nelle culture indigene, sono entrati nella costituzione, portandosi dietro una prospettiva comunitaria e pluralista, un forte coinvolgimento dei cittadini nelle scelte economiche e il riconoscimento di valori diversi rispetto a quelli prevalenti nelle economie liberali.
Non per niente proprio in Ecuador, nell’agosto 2023, è stato vinto un importantissimo referendum in cui si chiedeva alla popolazione se preferisse estrarre petrolio dal Parco nazionale Yasunì o invece lasciarlo sotto terra. E la maggioranza ha votato per non servirsi di quella risorsa: il guadagno economico che avrebbe tratto il Paese da quel petrolio passava in secondo piano rispetto all’importanza di lasciarlo al suo posto. Il fatto che il governo non stia rispettando il volere popolare è quasi secondario: non in termini climatici, ovviamente, ma in termini culturali. Il punto, lì, sta nella rivoluzione di pensiero insita in questa scelta. Testimonia la forza di comunità che vivono con regole e priorità lontanissime dall’estrattivismo e dall’imperativo della crescita.
La cultura può essere un regolatore potente degli eccessi dell’economia.
La cultura può essere un regolatore potente degli eccessi dell’economia. In Uganda, ad esempio, vivono alcune comunità di pescatori secondo la cui cosmologia qualsiasi tipo di accumulazione è da ritenersi addirittura deprecabile: l’eccesso è visto come qualcosa di sinistro, e ciò che avanza (in termini di ricchezze o di denaro) viene ridistribuito all’interno della comunità. Non importa come: si può condividere un raccolto, offrire da bere a tutti o regalare soldi a degli estranei, pur di non avere più del necessario. Il mondo, se lo rileggiamo attraverso questo codice interpretativo, ci appare allora ben più abbondante di come ci sembrava: è l’eccesso di desiderio a rendere “scarsa” la natura. Se ciò che ci preoccupa, parlando di decrescita, è che dovremo avere “meno”, l’unica risposta possibile è cambiare punto di vista e accorgerci che abbiamo già più di quel che ci serve.
Basta uscire dalla logica capitalistica del desiderio infinito e della fretta di sfruttare tutto ciò che è disponibile, perché il mondo appaia ricchissimo. All’economia della scarsità a cui siamo abituati, che porta ad accumulare proprio perché le risorse appaiono insufficienti, si contrappone un’economia dell’abbondanza, secondo cui c’è tutto quello che ci serve ed è inutile o anche dannoso tenere per sé qualunque eccedenza. Il fatto che nel tempo presente esistano concezioni dell’economia così opposte a quella occidentale, mostra come sia possibile pensare e pensarsi al di fuori del capitalismo. È sufficiente cambiare gli indicatori per rovesciare, o almeno rimescolare, le stime di benessere tra i Paesi del mondo.
Il caso più famoso è quello del Buthan: un Paese che è riuscito a guidare la modernizzazione mantenendola sotto controllo, con piani urbanistici severissimi che impediscono scempi ambientali ed estetici, e un’opposizione consapevole al primato del prodotto interno lordo come indicatore del grado di benessere di ogni nazione. Fin dagli anni Settanta, com’è noto, il Buthan ha adottato al posto (o al fianco) del PIL l’indicatore di “felicità interna lorda”, FIL o GNH (Gross National Happiness). È una differenza profonda, di visione del mondo e priorità: la felicità interna del paese conta più della crescita economica. La FIL si misura secondo quattro linee principali: uno sviluppo socio-economico equo e sostenibile, buona amministrazione, tutela dell’ambiente, promozione e difesa della cultura. Fra le variabili del benessere del Paese troviamo allora il grado di istruzione o la percentuale di territorio coperto di foreste (per legge, in Buthan, deve essere almeno il 60% e oggi raggiunge il 70%), la qualità dell’aria, la tutela dell’ecosistema, il grado di salute dei cittadini e di biodiversità dell’ambiente, l’uguaglianza, la libertà di pensiero, la vitalità della comunità, le relazioni sociali, il benessere psicologico, la cultura.
È sufficiente cambiare gli indicatori per rovesciare, o almeno rimescolare, le stime di benessere tra i Paesi del mondo.
In molti ritengono la felicità interna lorda uno specchietto per le allodole per migliorare l’immagine del Paese all’estero (per quanto il turismo sembri scoraggiato da tasse di soggiorno altissime) e reputano il governo del Paese più vicino a un regime che a una democrazia. Eppure, uscendo da quella gabbia mentale di cui parlavamo all’inizio, la FIL è chiaramente un indicatore più realistico dello stato di salute di una nazione. E non deve essere certo facile ragionare per livello di felicità in un mondo in cui tutti intorno ragionano per livello di produzione.
Il buen vivir è un insieme di pratiche e una visione del mondo profondamente situata. Non è sempre replicabile altrove, si fonda su una spiritualità con una storia e un’appartenenza ben precise. Lo stesso vale per il caso ugandese, ma raccontarlo altrove è importante. Le storie si raccontano per questo: non necessariamente per imitarle, o per appropriarci di una visione del mondo che non ci appartiene. Le storie si raccontano per scoprire che anche la nostra, di visione del mondo, è solo una fra le tante possibili. E se ascoltando altre storie ci rendiamo conto che la nostra è sporca, rotta, ferita, allora le storie altrui possono aiutarci a vedere il mondo con altri occhi.