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gni anno, puntuali, le classifiche. La narrazione è la solita: un luogo dinamico, ricco, desiderabile. Un’autentica occasione: il mercato del lavoro lombardo è un polo di attrazione a livello nazionale e, negli ultimi decenni, internazionale, stando al Rapporto Lombardia 2023 – pigro e ingrato chi pensa il contrario. A parlare bastano i dati: Milano si riconferma tra le prime dieci nella classifica sulla qualità della vita stilata dal Sole24Ore, la Brianza si distingue per operosità e ricchezza, la regione traina l’economia nazionale rappresentandone il 20% del PIL.
È sufficiente per ignorare i problemi globali che la interessano? Secondo un’intervista rilasciata a Milano Correre da Manfredi Catella, presidente del gruppo immobiliare COIMA, leader nell’investimento, sviluppo e gestione di patrimoni immobiliari per conto di investitori istituzionali, c’è troppo pessimismo: dovremmo gloriarci, anzi, del fatto che la Lombardia è una regione che riesce ad attrarre gli investimenti. Eppure, a volerle vedere bene, le classifiche, esistono anche ben altri primati. Dimenticarsi “dei deboli, dei fiacchi e dei vinti che levano braccia disperate” (G. Verga, Introduzione al ciclo dei vinti, Treves, 1881) è facile, forse troppo. Da qui la necessità di rivalutare Milano, cuore pulsante dell’illusione, e un’intera regione che fino ai suoi confini risulta ammalata per scongiurare pericolose proiezioni che, noi per primi, speriamo fallaci.
Più che una città, un prodotto di consumo
Milano capitale morale, della finanza, dell’economia, della moda, del design. Nell’immaginario comune la città è l’emblema di quelli che ce l’hanno fatta. Anzi, di più: l’unico luogo plausibile al farcela, soprattutto dopo la campagna Expo 2015 che ha ripulito la città dal caratteristico grigio di nebbia e asfalto per far risaltare ancora meglio la sua attrattività (si veda L. Tozzi, L’invenzione di Milano, Cronopio, 2023). Campagna che, a quanto pare, ha dato i suoi frutti, tanto che, a dieci anni di distanza, durante la settimana del Salone del Mobile (se n’è parlato su Fanpage), ci si può permettere di triplicare un affitto già caro, consapevoli che ci sarà chi è disposto a pagare.
Ma “Milano non è la verità” – ce l’hanno raccontato gli Afterhours in tempi non sospetti (L’inutilità della puntualità, 1999): è una vetrina che mostra più che fornire, la cui vera missione sembra essere quella di promuoversi incessantemente al solo scopo di scalare le classifiche e confermare quello che, a oggi, sembra un postulato incontrovertibile: l’intramontabile aspirazione a essere cilindro di questo – ingolfato – motore. “Qui non ho diritto di non essere felice, di non sentirmi vivo nella mediocrità che mi propini” (Afterhours, Milano circonvallazione esterna, 1999): è il sacrificio la cifra di milanesi disposti a tutto, anche a una deliberata omertà, pur di sancire il trionfo del contenitore che li ospita. È questo il luogo della forma, così intoccabile da diventare marchio di fabbrica.
Il sacrificio è la cifra di milanesi disposti a tutto, anche a una deliberata omertà, pur di sancire il trionfo del contenitore che li ospita.
Lo aveva intuito per tempo Bianciardi, esule in questa “città della non vita” (Oreste Del Buono in L. Bianciardi, Aprire il fuoco, Rizzoli, 1976), ne troviamo conferma nella spicciola quotidianità giacché, spogliati della divisa, ci ritroviamo a dover riconoscere un punto non poco dolente: qui – a meno di esser ricchi – si sta male, così tanto, che “avere una data di scadenza è un modo per andare avanti, per cercare di spremere vita in più” (S. Valenti, Cronache della sesta estinzione, Il Saggiatore, 2023). Vorremmo delle stime precise e successive all’anno 2021, ultima attestazione dei soli suicidi riusciti (di cui alla Lombardia va l’ennesimo – triste – primato) e non di quelli tentati, ma le rilevazioni non vengono più effettuate a livello nazionale. Sarà un caso, poi, che la regione non partecipi, dal 2017, alle rilevazioni del Passi (nato in risposta all’esigenza di monitorare il raggiungimento degli obiettivi di salute fissati dai piani sanitari nazionali e regionali) che monitorano le condizioni di salute dei cittadini per evitare, temiamo, altre misere medaglie.
Si sta male, quindi, ma meglio non dirlo: la retorica del valore aggiunto lombardo ha sempre la meglio – l’obiettivo è la capitalizzazione di fondi altrui, spesso internazionali, non il benessere della popolazione. Sono tanti i problemi in Lombardia, a partire dalla negazione del diritto a un abitare dignitoso tra avventurose mansarde e camerette condivise. Comprare casa per lavoratori di reddito medio è un’utopia: l’aumento del costo degli immobili negli ultimi due anni supera di quasi cinque volte quello nazionale. Perfino l’umiliazione di un monolocale che nei suoi quindici metri quadrati non rispetta i requisiti minimi previsti dalla legge (l’articolo 3 del decreto ministeriale del 5 luglio 1975 prevede che la dimensione minima di un’abitazione per una persona non debba essere inferiore a ventotto metri quadri) può essere, a Milano, un’occasione scontata a soli 143 mila euro. Attenzione, non siamo in Duomo, ma in Città Studi, il quartiere degli studenti, l’ennesimo pronto alla riqualifica in un comune che, tra piani casa inadeguati e di rigenerazione al solo obiettivo di attirare investimenti, può affidarsi prettamente a un’operazione di cosmesi che nasconda le crepe della struttura.
“Siamo nel territorio di un marketing puro” (come scrive sempre Lucia Tozzi) che, scongiurando il divario inammissibile e non capitalizzabile tra “centro” e “periferia”, esalta le peculiarità e le opportunità di ciascun distretto bugiardamente o meglio sfruttando ogni leva pubblicitaria possibile, a partire dal naming. NoLo (North of Loreto) è stato il primo nel 2018, nato a emulazione di SOHO perché affermare di vivere a NoLo suona innegabilmente meglio che vivere in viale Padova. Un’operazione di rebranding di successo che ha generato una tendenza di nomi nati per essere accattivanti – NoCe (North of Cenisio), SouPra (South of Prada), NaPa (Naviglio Pavese), BAM (Biblioteca degli Alberi di Milano) – non tanto per chi ci vive, ma per chi ci deve investire.
Da qui parte la marginalizzazione che relega verso una periferia obbligata chi non è abbastanza reattivo, al fine di fare spazio a quegli ultra-high net worth individual, i super ricchi, per intenderci, che, narcisistici promotori di una Milano da bere, da vivere, da instagrammare consumino il luogo nei suoi momenti ideali senza però incontrare le difficoltà dei residenti. Questa gente è qui per l’experience, non certo per abitarci. Conferma quest’impressione il The Wealth Report 2024: sono sempre di più quelli che, avendo una disponibilità superiore ai trenta milioni di dollari, decidono di investire su Milano attratti da incentivi formulati ad hoc (nel 2017, anno di introduzione della flat tax con la manovra dal governo Renzi, i ricchi che hanno trasferito la residenza fiscale in Italia sono stati 98 per passare a 549 nel 2020 e 1.339 nel 2021, secondo i dati del Guardian citati nel sopra indicato report di Knight Frank).
Si sta male, quindi, ma meglio non dirlo: la retorica del valore aggiunto lombardo ha sempre la meglio.
Immaginiamo, dunque, per sciagura o per fortuna, di avercela una casa e, in questa città, di doverci vivere: quello che troveremmo oltre la porta potrebbe non essere edificante. Milano abita male e fuma peggio: la polvere, qui, non è di sicuro sotto al tappeto. Tra le varie classifiche celebranti spunta un secondo posto molto poco pubblicizzabile: pare che ne soffochino parecchi per colpa dell’aria – più di 1.600 a causa del PM 2.5, più di 1.300 attribuibili al biossido di azoto ogni anno e non distribuiti così equamente sul territorio – con una lunga febbre che finisce per contagiare tutto quello che circonda il nucleo dell’organismo: la provincia, quella Milano che non può viversi, se la ritrova nei polmoni. Sembra quasi che da questa città, a essere lucidi e avere un minimo di istinto di conservazione, si debba solo scappare: è un luogo che “ti educa ad andartene”, come scrive Paolo Cognetti nel numero di The Passenger (Iperborea, 2022) dedicato alla città – e non è detto che una fuga in villette di provincia risolva qualcosa.
Lombardia canaglia: tradire le promesse
Se Milano non ce la si può permettere, bisogna pur raggiungerla: quasi due i milioni di spostamenti tra entrate e uscite dalla città. Una scelta di vita dettata spesso da impossibilità economico-abitative che grava, poi, su tutta la famiglia: i lombardi sono, infatti, pendolari sin da piccoli – il 37% di loro si muove ogni giorno per raggiungere la scuola o l’università. Le strade, ogni mattina, singhiozzano: il 60% di quei due milioni di spostamenti si concretizza in auto – dato che evidenzia, nella pratica, l’inadeguatezza dei trasporti pubblici. Sono 21 su 38 le linee di Trenord che non rispettano gli standard in un’offerta ferroviaria che non può non dirsi disfunzionale: “nella frustrante attesa di un mezzo sempre disponibile perché tu lo perda, e poi ti tocca aspettare mezz’ora il prossimo, ed è mezz’ora sottratta al sonno” scriveva Bianciardi ne La vita agra (Rizzoli, 1962) – il malessere paventato da Bianciardi il secolo scorso non sembra essere risolto.
Infatti, piuttosto che migliorare linee con infrastrutture a binario singolo – alcune nemmeno elettrificate – si preferisce che il traffico si riversi sull’asfalto. La regione, peraltro, propende per le autostrade, come la Bre.Be.Mi, rivelatasi un clamoroso fallimento a causa delle tariffe elevate, senza considerare che questa, Pedemontana Lombarda e Tangenziale Est Esterna di Milano occupano oltre mille ettari di suoli in precedenza agricoli, secondo Pendolaria 2023. Le conseguenze sul territorio non si fermano qui: secondo le stime aggiornate al 2021 dell’Agenzia Europea dell’Ambiente in Lombardia si sono registrate, in dieci anni, centomila morti premature solo per effetto del PM 2.5 sopra i limiti più cautelativi dettati dall’OMS. Il rischio, quindi, tra reiterati scioperi, frequenti soppressioni e inquinamento, è di perderci, se non il lavoro, di sicuro la salute.
Quando non ce la si fa più a sacrificare ore vitali in un abitacolo o avviluppati tra gente che “ti preme ti urta ti tocca” e magari “ti blocca” (E. Pagliarani, La ragazza Carla, Mondadori, 1962) semplicemente si abbandona, risvegliandosi da un’illusione tossica che ottenebra menti e desideri. Di casi, più o meno emblematici, ne spuntano continuamente: pensiamo a quel “tutti vanno via” che un tranviere di Viterbo, dimessosi dall’azienda di trasporti milanese ATM, ha espresso a Fanpage. Simone Domenici, il protagonista di questa fuga, si è allontanato dalla famiglia nella promessa di un sogno di riscatto, per ritrovarsi tra le mani solo un tetto di provincia e cento chilometri al giorno per il tragitto casa-lavoro. L’insostenibile pesantezza di questo territorio porta in situazioni come queste, sempre più frequenti, a vedere come liberatoria la fine di quella che, a conti fatti, sembra più una dipendenza che un contratto: “una lettera di licenziamento è una liberazione, perché ti annulla definitivamente e ti lascia libero di reincarnarti altrove”, scrive Demetrio Marra in Riproduzioni in scala (Interno poesia, 2019).
Se Milano non ce la si può permettere, bisogna pur raggiungerla: quasi due i milioni di spostamenti tra entrate e uscite dalla città.
Altrove, dunque, ma a una condizione ben precisa: scegliere di lavorare fuori Milano equivale quasi sempre a demansionarsi. Il “lavoro di pensiero” pare prerogativa di questa città, perché fuori il tessuto industriale richiede un’azione per lo più meccanica tra ingranaggi di un sistema che all’efficienza e all’innovazione preferisce batterie di più spensieratamente gestibili e sostituibili dipendenti dal contratto breve. La tanto celebrata meritocrazia è dimenticata all’interno di un settore secondario sì da podio, ma senza la capacità, se non di anticipare i tempi, almeno di rimanere al passo: non c’è traccia della rivoluzione 4.0 della cyber-fisica, né pienamente di quella robotica del 3.0.
Il tutto con una gratificazione ingannevolmente remunerativa: vivere costa caro – siamo nella regione dalle maggiori spese a metro quadro e della vita – e lavorare paga poco: comparando il PIL pro capite a quello di altre corrispettive europee, la realtà trainante l’economia nazionale crolla al quarantacinquesimo posto. Nessuna sorpresa nel vedere quindi esplodere la richiesta di aiuti alimentari (secondi solo alla Sicilia) e il sovraindebitamento di persone costrette a erodere i risparmi familiari.
Impossibile pensare che case di fortuna, vite sui mezzi e lavori interinali possano generare gentilezze a casaccio e atti di bellezza privi di senso: in questi luoghi, infatti, risulta molto difficile parlare di comunità – intesa come gruppo di persone solidali e volte a aiutare il prossimo – mentre molto più esatto è il riferirsi a una community che fruisce di prodotti e servizi entro un’ottica prettamente individualistica, quando non diventa essa stessa un prodotto. Frutto di mancanze, questo, e non certo di una cattiveria autoctona: non sono mai abbastanza le scuole accessibili, in Lombardia, poche, secondo il rapporto annuale Istat 2023, anche le organizzazioni no profit in un contesto che di umanità avrebbe bisogno e che questa umanità se la vede negata sin dai banchi e dalle sedie: i rapporti umani sono per lo più valorizzati in base alle occasioni economiche offerte, il networking primeggia sull’amicizia.
California, here we come!
Utopistico pensare a una Lombardia che, con questi presupposti, si attesti nel futuro, prendendo in considerazione, in aggiunta, l’inverno demografico e l’invecchiamento della popolazione. Le previsioni Istat indicano che, proseguendo il trend attuale, tra meno di cinquant’anni la popolazione lombarda diminuirà del dieci percento circa rendendo insostenibili economia, welfare e situazione ambientale. Pensando alla narrativa, viene in mente la rappresentazione distopica degli anti-eroi di Turazzi in Prima della rivolta (Nottetempo, 2023): “se ne stanno tutti lì a sorseggiare i loro negroni mentre in pianura si schiatta” e quella deflagrata che Argentina tratteggia in molte delle sue opere.
Vivere costa caro e lavorare paga poco: comparando il PIL pro capite a quello di altre corrispettive europee, la realtà trainante l’economia nazionale crolla al quarantacinquesimo posto.
Potrebbe aiutarci a analizzare ciò che sarà il modello di una California simile dal punto di vista dei disagi da affrontare, ma differente nei tentativi della loro risoluzione. Da un lato, la realtà americana, infatti, ammette la propria fallibilità (embracing failure, lanciato a San Francisco nel 2009, è diventato un evento che si ripete ogni anno) e è pronta a riconoscere come nodali fatti qui colpevolmente ignorati (si pensi alla solitudine proclamata, per la prima volta nel 2024, emergenza sanitaria), dall’altro risponde puntando su un’innovazione che si sta rivelando salvifica.
Al contrario, la Lombardia, impreparata al problema, dimentica le galline del domani preferendo uova che consentano la mera sussistenza odierna: sul totale degli investimenti, quelli a contenuto innovativo sono una piccola parte, metà rispetto alla Germania e meno che in Francia. Se la pensassimo come una gara a lungo termine potremmo dire che, mentre gli altri corrono, noi saremmo a malapena alla camminata veloce, troppo impegnati a usare il fiato utile per una retorica che può nascondere, ma non risolvere, i problemi. Come il Saturno di Goya sembra che queste terre vogliano sopravvivere al solo prezzo del sacrificio dei propri figli e all’avvicendarsi di corpi estranei attratti da un solo presunto riscatto sociale: “i vincitori d’oggi […] avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani” (G. Verga, Introduzione al ciclo dei vinti, Treves, 1881).
Vista da lontano e con occhio lucido questa Lombardia – senza più un futuro commercializzabile – somiglia sempre di più alla Los Angeles di Mike Davis raccontata in City of Quartz (Verso, 2018), stagliandosi contro l’orizzonte come una discarica di sogni su cui aleggia il fumo di “un’innominata catastrofe”, come diceva Joan Didion in Slouching towards Bethlehem (Farrar, Straus and Giroux, 1968).