F in dalla giovane età, O’Connor era agitata da una passione per i pennuti: celebre il caso della gallina da lei allevata in grado di camminare all’indietro, prodigio che quando aveva cinque anni richiamò attorno a lei televisione e giornalisti: “a cinque anni feci un’esperienza che mi ha segnato per il resto della vita” (anche se, nella tragica, ma naturale, oscillazione tra vita e morte che abiterà ogni sua storia, la gallina “poco dopo morì, e non c’è da stupirsene”).
Nel 1953, quando si è oramai stabilita nella fattoria di Milledgeville, ribattezzata “Andalusia”, dove trascorrerà il suo tempo tra i libri e gli animali da cortile (alleverà tacchini, quaglie, fagiani, galline e anche alcune specie esotiche), e ha scoperto che i dolori che ammorbano il suo corpo non sono sintomi dell’artrite ma, proprio come è accaduto a suo padre, del lupus eritematoso diffuso, Flannery O’Connor ricomincia a dipingere (“dipingo soprattutto polli, faraone e fagiani. Mia madre dice che vado forte. Preferisce vedermi dipingere che scrivere” annota), attività che abbandonerà solo quando il dolore della malattia sarà così forte da impedirle di tenere il pennello in mano.
Tra i quadri che dipinge in questo periodo c’è un autoritratto a cui è molto affezionata e che crede particolarmente riuscito, tanto da consigliare a editori e riviste di utilizzarlo al posto di una sua fotografia: raffigura la scrittrice, già colpita dalla malattia che aveva iniziato, a causa dei medicinali, in particolare le massicce iniezioni di cortisone, a modificare i lineamenti del suo volto, con un cappello di paglia poggiato sulla nuca che ricorda un’aureola e con al suo fianco, avvolto in una sorta di abbraccio, un pavone.
Per un lettore di O’Connor, che manovra con la fantasia il deposito di schegge delle sue opere e della sua vita, questo autoritratto funziona come un perfetto marchingegno in grado di restituire i vettori della sua opera per la presenza invisibile ma evidente della malattia (lo stesso paradosso del lupus, dormiente ma pronto sin dalla diagnosi infausta del padre – e dalla sua morte quando la scrittrice aveva solo quindici anni – a emergere tragicamente), per l’immagine del pavone (animale-totem, la cui prima coppia O’Connor acquista nel 1952 per poi averne così tanti da non poter evitare di inciampare tra le loro code ogni volta che esce di casa), animale che rimanda alla religione (“Nella simbologia medievale rappresenta la Chiesa: gli occhi sono gli occhi della Chiesa. Il pavone rappresenta la Trasfigurazione, di cui è senz’altro uno dei simboli più belli” scrive in una lettera del 1955) così come fa quel cappello di paglia che sfuma nell’immagine dell’aureola, rimando a quell’universo religioso: O’Connor era cattolica in una zona di protestanti, che è un elemento senza il quale l’intera sua opera non potrebbe essere del tutto compresa.
O’Connor era cattolica in una zona di protestanti, che è un elemento senza il quale l’intera sua opera non potrebbe essere del tutto compresa.
Nata nel 1925 in Georgia, nel 1943 si iscrive alla State University of Iowa ed è lì che “compone” il suo primo libro di racconti, un libro che per anni resterà in potenza visto che si tratta della sua tesi di laurea. In questi racconti, i primi sei che compongono la raccolta Il geranio e altre storie, già si presentano quelle matrici che saranno gli assi attorno a cui ruoterà ogni sua storia, ovvero, come scrive in una lettera la poetessa Elizabeth Bishop, “il ripetersi della situazione, zio-nipote o padre-figlio, in tutte le sue atrocità”, che non significa strettamente un coinvolgimento fisso di questi elementi, piuttosto una relazione, sempre molto stretta, tra i protagonisti o tra i protagonisti e un oggetto o un’idea, che viene trasfigurata e dotata di un valore gnomico e decisivo; come l’aprirsi di una rivelazione che, molto spesso, profetizza quella sensazione di incomprensione e complessità che avvolge ogni relazione con la realtà.
Il rapporto che O’Connor nelle sue opere intesse con il reale è sempre complicato e animato da quello spiccato senso religioso che adombra ogni suo istante di vita come afflato perpetuo (“eroica come una santa” l’ha definita una volta lo scrittore Robert Lowell, che la conobbe e rintracciò in lei una vita “impavida, alacre, acre, accanita, splendida e inappariscente”), evidente nel fare antropologico che guida uno sguardo lanciato alla ricerca del sacro dentro un mondo che ne ha dimenticato la fattura e la necessità e che esplode nello scontro tra luce e oscurità in cui sono coinvolti i suoi personaggi. Si può quindi dire che, in nuce, i primi racconti di O’Connor contengono l’intero suo universo, come dimostra per esempio Il geranio incentrato su un uomo che, ormai anziano, lascia la campagna del Sud degli Stati Uniti dove ha sempre abitato e segue la figlia a New York: all’interno di uno spaesamento geografico ed esistenziale, che deve aver vissuto anche O’Connor, tanto legata alle sue terre da costruire nelle sue opere alcune immagini che segneranno qualsiasi idea a venire su quei luoghi così intrisi di sacro e peccato, l’uomo passa le sue giornate a osservare un geranio sul davanzale.
Quest’oggetto, con cui si crea un rapporto assoluto ed esclusivo, diventa per l’anziano protagonista una sorta di correlativo oggettivo della sua sorte futura, inchiodato in un luogo da cui non può muoversi, tra le mani, così come il geranio che avrà una sorte ben definita, di un destino che manipola il suo futuro e su cui lui non può, in alcun modo, intervenire. Il geranio del racconto omonimo è quindi la prima irruzione del divino, di un elemento rivelatorio dentro la quotidianità stanca dei personaggi che abitano i suoi racconti.
Se nell’esperienza letteraria di O’Connor gli aspetti biografici si legano indissolubilmente al versante letterario, questo è vero in prima istanza per la sensibilità religiosa della scrittrice, certamente in difficile accordo con i risvolti materialistici dell’universo letterario del primo Novecento, e che dona al suo sguardo un’angolatura eccezionale che si ripete in molte delle situazioni che racconta (“Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica. È un fatto, tanto vale dirlo a chiare lettere” scrive nel 1955 in una lettera). La nascita all’interno di una famiglia cattolica e in un luogo, la cosiddetta Bible Belt, “un Sud infestato da Cristo”, dove la religione ha un valore decisivo in qualsiasi aspetto dell’esistenza, sociale, politico e culturale, non è però aritmeticamente simbolo di una fede cieca e inoppugnabile.
La sensibilità religiosa della scrittrice non si accordava di certo ai risvolti materialistici dell’universo letterario del primo Novecento.
O’Connor racconta infatti di essere, sin dai suoi primi ricordi, orgogliosamente testarda e ribelle, ragione di attriti nel rapporto con la madre Regina, moralista, attaccata alle apparenze della buona famiglia e fervente religiosa, che voleva fare di lei una perfetta “lady del Sud” e che, dalla morte del padre e per la penuria di frequentazioni a causa della malattia, sarà la sua principale interlocutrice, la persona che ascolterà e leggerà le sue opere mentre nascono (scrive O’Connor in una delle sue lettere, dopo l’incontro con un’amica, rivelando la loro distanza: “la presenza materna non contribuisce certo a sciogliermi la lingua: forse alcune delle tue domande avrebbero potuto ottenere risposta migliore se ti avessi ricevuta nel pollaio”).
Ecco quindi che la presenza ingombrante di vicende famigliari e di relazioni dissestate si unisce naturalmente alla riflessione religiosa, l’esperienza quotidiana si mescola con illuminazioni improvvise e metafisiche, le storture e le sofferenze diventano interpretabili attraverso un concetto di “grazia” di ascendenza giansenista (“tutti i miei racconti parlano dell’azione che la grazia esercita su un personaggio”), in generale si stratificano in ogni narrazione più livelli di significato che hanno a che fare con aree simboliche diverse. Cosa significasse essere una scrittrice cristiana lo ha spiegato la stessa O’Connor in più occasioni, sottolineando come non si tratti solamente di una ricerca dell’apparizione del soprannaturale all’interno della realtà (“Tutti credono, e i cattolici non sono da meno, che il cattolico scrittore di narrativa si impegni a usarla per provare la verità della Fede, o quantomeno l’esistenza del soprannaturale”), quanto invece di una ricerca tra le sue maglie nella direzione di un paradosso che rivela, attraverso il mezzo letterario, gli stessi misteri insondabili della fede:
Lo scrittore di narrativa così scopre, se mai giunge a scoprire qualcosa, che non spetta a lui modificare o modellare la realtà in favore della verità astratta. Lo scrittore imparerà, forse più velocemente del lettore, a essere umile di fronte a ciò che è. Ciò che è, solo quello deve affrontare; il concreto è il suo mezzo; e capirà, da ultimo, che la narrativa può trascendere i propri limiti solo mantenendosi al loro interno.
Ecco perché nei racconti e nei romanzi di O’Connor, sempre obbediente al paradigma espresso e mai interessata a descrivere scene surreali o soprannaturali, gli universi descritti sono sempre, almeno all’apparenza, assai distanti da qualsiasi luce divina, una scarna illustrazione di personaggi grotteschi, crudeli, peccatori più o meno consapevoli di una possibilità di redenzione. All’interno di questo “realismo cristiano”, debitore di un afflato veterotestamentario, fa la sua comparsa, problematica, l’azione della grazia divina che, perfettamente in linea con il mondo di O’Connor e la narrazione biblica, agisce in maniera insondabile, irrazionale e anche con improvvisi sprazzi di cruda violenza (“La grazia apporta in noi un cambiamento, e il cambiamento è doloroso”).
Se c’è un’idea che continuamente ritorna nei racconti e nei romanzi di O’Connor è proprio che Dio agisce in maniera insondabile e misteriosa.
Quella di O’Connor è una ricerca attorno a una delle questioni religiose più complesse su cui possano riflettere gli esseri umani, ovvero quali siano le forme di questa manifestazione della grazia; e se in un universo abitato da figure crudeli, drop-out, profeti consapevoli delle loro menzogne, criminali e famiglie segnate da dolori e sofferenze, questa possa manifestarsi (la sua cultura tomista non poteva, in effetti, non farle credere nella presenza di Dio in ogni luogo).
Questo tipo di presenza enigmatica, questa interrogazione pungente sugli orizzonti dell’esistenza campeggia in tutta la sua imperscrutabilità in quello che è probabilmente il racconto più celebre di O’Connor, Un brav’uomo è difficile da trovare, dove le strade di un gruppo di criminali in fuga, capeggiati dal “Balordo”, si incrocia casualmente con un’inconsapevole famiglia che sta viaggiando in macchina: la vicenda finirà in un bagno di sangue, ma è incredibile, mentre uno a uno scompaiono tutti i membri della famiglia, il dialogo tra la nonna e il Balordo che si svolge con i rumori dei colpi di pistola in sottofondo. Un dialogo che si trasforma in una disputa teologica (nell’orizzonte di O’Connor nulla vi sfugge) chiusa da una battuta, del criminale, che abbraccia l’impossibilità di padroneggiare, fino in fondo, i fili della propria esistenza: “nella vita non esiste il piacere”.
Racconti, come ha scritto Joyce Carol Oates, “diretti e sfacciatamente melodrammatici”, “nei quali succede qualcosa di irreversibile”, come in La vita che salvi potrebbe essere la tua dove il protagonista, lasciata la moglie in un ristorante e in fuga con la sua macchina, sembra improvvisamente avvicinato dalla grazia divina (“Oh Signore! Rivelati a noi e lava via il fango dalla terra”); oppure in Brava gente di campagna dove un venditore di bibbie, tutt’altro che fedele al suo insegnamento, deruba della sua gamba di legno una ragazza che basa ogni ragionamento sul raziocinio: un atto riprovevole ma, più ci si addentra tra le spire del racconto, sarà proprio il truffatore ad accompagnarci alle porte della rivelazione divina.
Perché se c’è un’idea che continuamente ritorna nei racconti e nei romanzi di O’Connor è che Dio agisce in maniera insondabile e misteriosa, che la fede talvolta non è abbastanza (soprattutto quando questa scivola in una frenetica ricerca di conferme impossibili) e che la Grazia può agire in ogni momento e su ogni persona: ma se non viene riconosciuta le conseguenze possono essere catastrofiche.
Se in Brava gente di campagna e in altri racconti di O’Connor si assiste a un conflitto esistenziale tra fede e ragione, tra una fede autentica e una fanatica e oscurantista, questo campo di tensioni esplode in maniera emblematica nel romanzo Il cielo è dei violenti, pubblicato dalla scrittrice nel 1960 quando gli incubi della malattia abitavano stabilmente il suo corpo e le impedivano di camminare. Già il titolo, richiamo a un enigmatico versetto del Vangelo di Matteo dove l’evangelista racconta come tra la predicazione di San Giovanni Battista e quella di Gesù Cristo il cielo “fu preso a forza”, con la “violenza”, rende bene l’ambivalenza inarrestabile di ogni riflessione teologica di O’Connor sui luoghi della fede, su cosa significhi il “bene”, se per tutti questo abbia lo stesso valore e se quindi un’azione possa essere interpretata in maniera univoca, ma anche cosa potrebbe succedere se il cielo, cioè chi controlla il regno, agisse come un “violento”.
Nell’opera di O’Connor la religione non offre nessun messaggio edificante o consolatorio, ma partecipa allo svolgersi di vite feroci che rendono complessa la netta distinzione tra bene e male.
La storia di questo romanzo è esemplare quanto tragica, e vede opporsi proprio il fanatismo religioso e la razionalità, duplice visione del reale che abita la mente del protagonista Francis Marion Tarwater, cresciuto prima in mezzo ai boschi dall’invasato Mason Tarwater, che si crede un profeta e vuole fare di Francis il suo erede, poi dallo zio Rayber che vuole invece liberarlo dalle superstizioni religiose con cui è stato plasmato. Ma tutto accade nella testa del protagonista, dibattuto tra questi due fuochi. In questo romanzo O’Connor si avventura tra i risvolti più violenti e dolorosi delle sue storie, ma insiste anche sui rischi di un fervore religioso senza scopo che rimandava ai gruppi protestanti del Sud che stavano pian piano scivolando verso “strane sette che non ricordano neanche lontanamente il protestantesimo tradizionale”.
Anche in questo caso comunque, la religione non offre nessun messaggio edificante o consolatorio, ma partecipa allo svolgersi di vite feroci che rendono complesso distinguere nettamente tra bene e male: se il folle profeta Tarwater è animato da una coscienza oscura che sembra più intrecciata al peccato che alla salvezza, anche la natura di Rayber è divisa. Seppur mosso dai lumi della ragione, è animato da un sentimento di superiorità che sfocia nella superbia. D’altronde, “il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace”.
“Tutti i romanzieri sono essenzialmente indagatori e descrittori del reale, ma il realismo di ciascun romanziere dipende dalla sua comprensione dei limiti ultimi della realtà” ha scritto O’Connor: se “il mondo è determinato dai fatti” (Wittgenstein), ciò che distingue ogni scrittore non è tanto la sua parola, ma il suo occhio. E se ognuno, come anche dice la Bibbia, è chiamato nel mondo a rendere giustizia ai propri talenti (nel suo Diario di preghiera non a caso O’Connor scrive: “Per favore aiutami, caro Dio, a essere una brava scrittrice”) e se la scrittura diventa per l’autrice l’unico modo per agire nel mondo, si comprende bene l’attenzione e il puntiglio attraverso i quali O’Connor scruta e descrive il mondo dove si immerge per riconoscere gli incubi della realtà, e restituirli con i colori più vividi. Come nello spazio liminare che divide la fede e la razionalità, anche le sue storie sono ambientate nello spazio immobile e sospeso di un Purgatorio che non fa promesse né commina condanne, persistente simbolo di un peccato originale che unisce tutti, vittime e carnefici: “Il dovere dello scrittore è contemplare l’esperienza, non lasciarsene inghiottire”.
In un famoso pezzo che le venne chiesto per descrivere la sua passione per i pavoni, Il re degli uccelli, O’Connor oltre a ricostruire le origini di questo interesse e la presenza, solenne e sempre più ingombrante, dei volatili nella sua fattoria, sottolineava come non tutti siano davvero in grado di apprezzare e riconoscere la maestosità di questi animali, spesso semplicemente derubricati a fenomeni da osservare nel momento della “ruota”, del loro spettacolare movimento della coda. Per la scrittrice invece questi animali, per i riferimenti religiosi che li caratterizzano e per la simbolica muta annuale delle piume, testimonianza di una continua resurrezione, sono invece pure “intrusioni della grazia” nel “territorio del diavolo”, manifestazioni del divino nella secolarità.
Se si ripensa allora a quell’autoritratto fotografico di cui si parlava all’inizio, il pavone che fa bella mostra di sé al fianco della scrittrice rivela tutti i suoi aspetti simbolici. O’Connor ha raccontato di un suo sogno ricorrente in cui ha cinque anni ed è un pavone che sarà servito in una lunga tavola per la gioia dei commensali: “Urlo: ‘Aiuto! Aiuto!’, e mi sveglio. Poi dallo stagno, dal fienile e dagli alberi intorno alla casa sento che inizia quel coro giubilante: Lii-ooo lii-ooo, Mii-ooo mii-ooo! Iii-i-ouu iii-i-ouu! Iii-i-ouu iii-i-ouu!”. Sono i pavoni allora, con il loro “coro implorante”, a salvare O’Connor dalle spire dell’incubo, segno di quella grazia che improvvisa e implacabile abita ogni sua storia. La grazia di una realtà abitata da uomini e donne che in qualsiasi momento possono riscattare la loro esistenza o, quantomeno, renderla indimenticabile.