I n Costruire il nemico, Umberto Eco denunciò l’impiego di stereotipi discriminanti per la costruzione di un nemico sociale, e il ruolo di primo piano assunto in queste operazioni dalle teorie cospirative. Non sarebbe sfuggita al suo umorismo, vasto quasi quanto la sua erudizione, l’ironia di un tale livello di sclerosi stereotipale, quale è quello ormai raggiunto dal formato, di cui fu uno dei più noti interpreti, della denuncia anticospirativa. La confutazione standard del complottismo segue questo canovaccio: (1) interpretazione del fenomeno come una specie di malattia psico-culturale; (2) dimostrazione della sua irrazionalità e conseguente pericolosità; (3) enumerazione dei crimini negati, giustificati o direttamente commessi da complottisti. Le implementazioni del canovaccio si distinguono le une dalle altre soprattutto per il tono: obiettivo, umoristico, sarcastico, indignato, disgustato. Da qualche anno ha iniziato a diffondersi un atteggiamento diverso, che rifiuta il punto (1) come frutto di un razionalismo scientista, dogmatico e autoritario (Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto lo chiama “ratiosuprematismo”), con argomenti teorici, etici e pragmatici.
A livello teorico, si cerca di mostrare che le radici vaste e profonde del fenomeno vanno ben al di là della patologia di una parte della società. Considerazioni etiche impongono un ripensamento della tendenza a modellare lo stereotipo del complottista come un montaggio di una pluralità di disturbi mentali, a partire da una generica indigenza culturale, passando dalla paranoia e arrivando alla schizofrenia, spesso con la guarnizione della crisi della religione nel mondo moderno: Eco stesso, in un altro intervento, lo ribadì intrecciando la diagnosi di Karl Popper sullo “stile cospirativo” con quella di Richard Hofstadter sullo “stile paranoico” (imperdonabile, evidentemente, dei milieu complottisti, in primo luogo la mancanza di stile): la parte più irritabile e ignorante del popolo, perso Dio, diventa pazza e pericolosa. In Anarcoccultismo, un saggio che è insieme una antropologia anarchica e una critica antropologica dell’anarchismo, Erica Lagalisse interpreta questo dumping sulle classi lavoratrici del punto di vista cospirativo come un metodo delle élite intellettuali borghesi per mantenere il controllo politico dopo aver ceduto terreno sulle rivendicazioni femministe e postcoloniali.
A livello pratico, che è forse quello più decisivo al momento, ci si è resi conto che la reazione ratiosuprematista non è molto meno dannosa del problema che vorrebbe contrastare, perché non fa altro che fomentare una corsa al rialzo tra posizioni sempre più estreme, la dialettica degenerata tra complottisti “irrazionali” e debunker “razionali”.
È un esempio di questo approccio che si potrebbe definire comprensivo un articolo del 2021 di Matteo Pascoletti, che conclude: “Se la depoliticizzazione della vita associata offre un fertile terreno alle narrazioni complottiste, c’è prima di tutto bisogno di agire su quel terreno, e di recuperare il senso di relazioni complesse; “politica” significa prima di tutto “comunità”. Non possiamo considerare il complottismo come una malattia da curare, o qualcosa di esterno da cui non essere contaminati, proprio perché le relazioni umane autentiche non funzionano così.”
Credo che l’invito a comprendere sia da accogliere senza riserve. Rimane però aperta la questione su come si traducano in pratica le “relazioni autentiche nelle comunità”. Per me significa prima di tutto, a livello terra terra, parlare con gli amici senza trattarli da matti quando cominciano con quei discorsi. Tuttavia, la comprensione rimane astratta (e può scivolare a sua volta nel paternalismo), se non si adotta un piano di discorso comune, cosa che di solito non avviene, perché non siamo abbastanza comprensivi da essere disposti a rischiare di mettere in crisi la nostra razionalità. Che è quello che invece accade se uno si mette seriamente a perseguire la comprensione, e si chiede: “Cosa succede se non smetto solo di trattarli da matti, ma smetto di pensare che sono matti?”. In altre parole: “Cosa ho in comune io con i complottisti?”.
Cosa succede se non smetto solo di trattarli da matti, ma smetto di pensare che sono matti?
Prima di proseguire, è necessario delimitare il perimetro del termine “complottista”. Wu Ming 1 sostiene che non andrebbe usato proprio, con due argomenti: “Evitare il termine ‘complottista’ […] veniva chiamato complottista chiunque non si accontentasse delle narrazioni ufficiali, delle parvenze immediate, delle argomentazioni autoassolutorie del potere. Inoltre il termine ‘complottista’ metteva sullo stesso piano il propagandista a tempo pieno e l’occasionale fruitore di propaganda, chi preparava l’intruglio e chi lo beveva, il manipolatore e i manipolati”.
Il primo argomento mi convince: serve a contrastare un uso improprio e contundente. Il secondo meno: se anche in questo caso c’è un uso improprio, cioè chiamare complottista chi ai complotti non ci crede ma li confeziona a uso propagandistico, l’antitesi manipolatore/manipolati è meno chiara. Da un lato, si mescola con una dimensione ulteriore, quella della quantità di impegno (tempo pieno vs consumo occasionale), dall’altro, se le narrazioni complottistiche hanno una natura partecipativa, la distinzione tra manipolatore e manipolati non è così ovvia. Molto del lavoro creativo viene fatto da gente che non è sul libro paga di nessuno. Il manipolatore è una figura che si aggancia a un hub di narrazioni cospirative e lo adatta a fini propagandistici. Il suo lavoro è meno la creazione di contenuti che quello di favorire lo sviluppo di terreni di coltura, di monitorarli costantemente e di sostenere la viralizzazione dei loro migliori prodotti.
Di conseguenza, accolgo la prima argomentazione e non adopererò “complottista” come etichetta affibbiata a una persona, tuttavia non mi farò scrupoli nel riconoscere un atteggiamento o quantomeno un momento complottista in chi articola una conspiracy fantasy in una maniera in qualche modo sincera. Non intendo una opposizione binaria tra chi ci crede e chi non ci crede, ma un vastissimo campo di possibilità: chi suppone, chi spera, chi ipotizza, chi teme, chi trova divertente, e così via. Resta esclusa proprio la figura del manipolatore, cioè chi pur creando contenuti non ci crede affatto. Con ciò voglio riconoscere non solo il fatto che una modalità di pensiero complottista effettivamente esiste – alcuni la usano sempre, altri mai, la maggioranza solo a volte –, ma anche il fatto storico del vero e proprio hackeraggio della subcultura complottista che è stato operato in questi anni dai manipolatori di cui La Q di Qomplotto e altri di cui ci occuperemo fanno una ricostruzione.
Fatte queste premesse, posso ripetere la domanda in forma ancora diversa: come si manifesta il mio complottismo? Domanda inquietante, perché riduce la distanza critica. Chi analizza il complottismo si deve porre come non complottista, perché chi allucina complotti non è in grado, per definizione, di analizzare. Non si può contemporaneamente tuffarsi nell’abisso e osservare il paesaggio dall’alto. Sono approcci incompatibili. Di conseguenza, l’atteggiamento comprensivo cerca di rispondere più rapidamente possibile, per non pensarci più. Risulta qui esemplare, di nuovo, Umberto Eco: “Cercare di capire l’altro significa distruggerne il cliché, senza negarne o cancellarne l’alterità. Ma siamo realisti. Queste forme di comprensione del nemico sono proprie dei poeti, dei santi o dei traditori”.
Siamo sicuri che sia proprio quella che viene misurata nei laboratori dei cognitivisti, la razionalità che una volta disattesa genera il complottismo?
La scorciatoia più frequente dell’approccio comprensivo è che ciò che abbiamo tutti in comune con i complottisti sono i bias cognitivi. Siamo tutti esseri umani e siamo tutti soggetti alle limitazioni e ai capricci della mente; limitazioni e capricci che ci rendono suscettibili a sbagliare sistematicamente previsioni e in generale a sostituire aspetti della realtà oggettiva con fantasie personali. La ricerca scientifica (psicologia cognitiva, neuroscienze) ha elaborato un vasto catalogo di illusioni tipiche, molte delle quali hanno a che vedere con l’incapacità della mente umana di modellare correttamente le probabilità, o più precisamente di modellare le probabilità in un ambiente cognitivo che non è più quello in cui e per cui la mente si è evoluta. Non abitiamo più in una “savana”, scrive Wu Ming 1, ma in una “società capitalistica – complessa e in overdose di informazioni – del ventunesimo secolo”.
Anche Leonardo Bianchi in Complotti! rifiuta di suddividere la società in un noi cittadini ragionevoli che sanno distinguere l’apparir del vero dalle superbe fole, e un loro “persone disturbate, ai margini della società, che vanno in giro con cappelli di carta stagnola in testa”. A supporto di tale scelta adduce una serie di ricerche incentrate sugli effetti dei bias.
Il ricorso ai bias mi pare un’arma a doppio taglio, perché proprio in virtù del fatto che pone tutti sullo stesso piano, può anche essere usata come giustificazione per sostenere che il popolo non sa governarsi perché afflitto dai bias. Inoltre, se è vero che indica una direzione di miglioramento nell’insegnare alle persone a riconoscere i propri bias, non è affatto chiaro come la consapevolezza di avere dei bias si traduca nella capacità o volontà di superarli (basti pensare al – prevedibilissimo – fallimento delle iniziative di correzione del bias razziale nella polizia statunitense). La determinazione dei metodi pedagogici più efficaci richiede ulteriore ricerca scientifica, che è senz’altro già in corso. Nel frattempo, una persona che si trova accusata (con tatto e gentilezza, certo) di essere “biassata” non ci vedrà un gran differenza con lo stigma psichiatrico, se non in sfumature statistiche soggettivamente inafferrabili.
Il problema di fondo del brandire l’arma dei bias è che se usata irriflessivamente non fa altro che dare una riverniciata cognitivista al solito ratiosuprematismo. Viene voglia, di fronte alle pur divertenti liste di fallacie, di chiedere: “Siamo biassati rispetto a cosa?”. Qual è la norma di logica e ragione rispetto a cui commettiamo costantemente errori grossolani? Siamo sicuri che sia proprio quella che viene misurata nei laboratori dei cognitivisti, la razionalità che una volta disattesa genera il complottismo? È quello che si sono domandati gli scienziati cognitivi Hugo Mercier e Dan Sperber in The Enigma of Reason: “La concezione standard della ragione è doppiamente enigmatica. Non è un meccanismo mentale ordinario ma un superpotere cognitivo che l’evoluzione – un tempo si sarebbe detto gli dèi – ha concesso solo agli umani. E come se questo non fosse già abbastanza un enigma in sé, vien fuori che il superpotere è difettoso. Le persone ne sono costantemente indotte in errore. La ragione: un superpotere difettoso? Sarà davvero così?”.
L’ipotesi di Mercier e Sperber è che la ragione ci sembra difettosa solo perché ne fraintendiamo l’utilità evolutiva, che non è direttamente connessa alla capacità di ragionare in sé (come potrebbe, se funziona così male?), ma ad altro: “Le argomentazioni razionali sono usate di norma nel perseguimento di obiettivi d’interazione sociale, e in particolar modo per giustificare se stessi e per convincere gli altri. […] La funzione della ragione è sociale”. A scanso di equivoci: ciò non significa che esiste solo la retorica: “Ne consegue che le motivazioni che diamo e ci aspettiamo dagli altri sono semplicemente commisurate a una qualche opinione dominante, a una nozione di razionalità culturalmente costruita, e che non ci si dovrebbe aspettare dalle motivazioni delle persone una razionalità nel senso oggettivo del termine? Niente affatto […]. Le persone ottengono la buona reputazione che cercano quando sono viste come fonti affidabili […]. In nessun modo potrebbero mantenerla a lungo senza il minimo di razionalità oggettiva che permette loro di operare inferenze cognitivamente valide e agire efficacemente”.
La ragione funziona benissimo nel contesto in cui si è evoluta per funzionare, che è sì “la savana” (in realtà più probabilmente un ambiente misto tra foresta e terreno aperto), ma non nella situazione di un ominide che riflette tra sé e sé scrutando l’orizzonte vuoto (“son predatore o son preda?”), bensì in quella di un gruppo di ominidi seduti in cerchio che discutono il modo migliore di raggiungere l’obiettivo comune dell’esser predatori e non prede. Mercier e Sperber argomentano in modo convincente che i cosiddetti bias sono prima di tutto perlopiù riconducibili a un unico bias generale, il Myside Bias – “Bias Partigiano” –, cioè la tendenza a tifare per se stessi e a darsi ragione molto più spesso di quanto diamo ragione agli altri, la pigrizia nel cercare motivi per cambiare idea vs l’impegno profuso nel rintuzzare le idee altrui. La tua pagliuzza, la mia trave, ecc. Ma fatto straordinario e con buona pace dei Vangeli, questo “Bias Partigiano” non è affatto un difetto, bensì un “modo efficiente per dividere il lavoro cognitivo […] in cui ciascun individuo si occupa solo di trovare argomentazioni per la propria parte e di valutare quelle degli altri”.
Cosa ho in comune con i complottisti? Cosa condivido con loro dal punto di vista culturale, quali sono i nostri obiettivi condivisi?
La stessa ricerca sperimentale suggerisce che quando un gruppo di persone è diversificato e ha un chiaro obiettivo comune, il risultato finale di una discussione è tipicamente migliore di quello che i singoli membri raggiungerebbero ragionando solitariamente. Non così quando le opinioni risultano troppo simili in partenza (la tendenza sarà a estremizzarsi a vicenda, ingigantendo gli errori iniziali); né quando non c’è un obiettivo condiviso (ci si dividerà in sottogruppi ciascuno con una posizione polarmente opposta agli altri). La natura dialogica della ragione fa sì che le cose vadano particolarmente male quando ci si prepara per una discussione che non avverrà mai: “Il ragionamento solitario non è problematico in sé per sé, ma lo diventa quando resta solitario […]. La modernità ci inserisce in ambienti che distorcono la nostra capacità di anticipare i disaccordi […]. Prima dell’invenzione della stampa e dell’avvento dei media moderni […] il modo con cui si apprendeva di una differenza di opinioni, e si provava a risolverla, passava attraverso un ripetuto scambio di argomentazioni che potevano essere previste, e ripassate mentalmente. Al giorno d’oggi siamo inondati di opinioni di gente che non incontreremo mai: editorialisti, presentatori tv, blogger”.
Possiamo certo mantenere il concetto di bias nel nostro armamentario anche dopo averlo ripensato come “ragione [che] può condurre a idee folli quando è usata fuori da un contesto argomentativo appropriato”, purché si tenga sempre a mente che non è che il sintomo di una mancanza di dialogo utile (con persone diverse da noi in vista di un obiettivo comune) e di un eccesso di discussione inutile (con persone simili a noi e/o senza un chiaro obiettivo).
Ora è possibile affinare la domanda una seconda volta: oltre ad alcune tare congenite alla specie umana che abbiamo visto non essere tali, cosa ho in comune con i complottisti? Cosa condivido con loro dal punto di vista culturale, quali sono i nostri obiettivi condivisi?
Un estratto da Mitologia del complottismo. Il Behemoth delle storie di Gregorio Magini (Tlon, 2024).