L’ Intelligenza Artificiale impatterà sul 40% delle professioni a livello globale, secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale. La diffusione delle fonti rinnovabili invece sta cambiando il modo in cui viene consumata l’energia, favorendo l’autoproduzione da piccoli impianti, magari gestiti da comunità energetiche. Le nuove tecniche di editing genetico rendono possibili applicazioni rivoluzionarie tanto in ambito agricolo, con lo sviluppo di colture più resistenti a un clima siccitoso, quanto in ambito medico, dalla terapia genica ai vaccini a mRNA. Le tecnologie quantistiche promettono calcoli esponenzialmente più veloci dei computer classici, sistemi di comunicazione non intercettabili, sensori capaci di raccogliere dati per comprendere e gestire sistemi complessi come il traffico o il cervello. Elon Musk ha da poco avviato la fase di sperimentazione umana di Neuralink, impresa che mira a permettere di controllare dispositivi digitali con un chip installato nel sistema nervoso.
La lista potrebbe proseguire. Alcune applicazioni possono preoccupare, preannunciare l’avvento di una società distopica, altre danno speranza per un futuro migliore. L’umanità non si è mai trovata a gestire così tanta innovazione tecnologica tutta in una volta e circa la metà della popolazione mondiale, quasi 4 miliardi di persone in 64 diversi Paesi, nel corso di quest’anno dovrà decidere da chi farsi governare. In un mondo attraversato da sfide epocali, le elezioni del 2024 saranno anche un referendum globale sull’innovazione.
A tal riguardo sono interessanti i dati raccolti dall’ultimo Edelman Trust Barometer, agenzia di consulenza che da oltre 20 anni monitora i livelli di fiducia nei confronti di istituzioni, imprese private, media, organizzazioni non governative, nuove tecnologie. Il sondaggio ha coinvolto 32.000 persone in 28 Paesi, dall’Argentina agli Emirati Arabi, dalle democrazie occidentali alla Cina, e ha trovato che la maggior parte delle persone è convinta che l’innovazione tecnologica non sia gestita e regolamentata in modo adeguato, che la società stia cambiando troppo rapidamente e in un modo che non va a vantaggio di tutti, ma solo dei più ricchi. Questi risultati si sommano a una serie di tendenze che il rapporto ha evidenziato dall’inizio del nuovo millennio: discredito delle autorità, disordine informativo (o infodemia) e polarizzazione delle opinioni.
In un mondo attraversato da sfide epocali, le elezioni del 2024 saranno anche un referendum globale sull’innovazione.
Nell’attuale crisi di fiducia, anche l’innovazione tecnologia e le promesse dirompenti che la accompagnano rischiano di finire sotto una cattiva luce, a meno che non vengano governate a dovere. “La critica nei confronti dell’innovazione può essere però anche utile”, sottolinea Federico Neresini, sociologo della scienza dell’Università di Padova, “perché illumina aspetti che inizialmente non erano stati considerati dai suoi sostenitori, evidenzia meccanismi di esclusione o di svantaggio ai quali non si era pensato, pone in discussione il sostegno preconcetto dell’innovazione basato sulla convinzione che il nuovo corrisponda necessariamente al meglio per tutti”.
Ciascuna tecnologia emergente, biologica o informatica che sia, ha il proprio dominio di applicazione: dall’impatto sul mondo del lavoro alla lotta al cambiamento climatico. Un tratto che le accomuna tutte è però la distribuzione dei benefici, che dovrebbe essere sempre la più ampia ed equa possibile. Governare l’innovazione dovrebbe significare puntare a questo e tuttavia, quando la politica si pronuncia sulle grandi sfide scientifiche e tecnologiche del nostro tempo, spesso non si dimostra all’altezza della sfida. L’esempio nostrano dell’opposizione alla cosiddetta “carne sintetica” è solo l’ultimo caso di una controversia scientifica che è stata strumentalizzata sul piano politico e brandita come vessillo identitario di partito. Secondo il rapporto dell’Edelman Institute, la maggioranza degli intervistati (53%), e addirittura i due terzi in Stati Uniti e Cina (67%), ritiene che la scienza sia eccessivamente politicizzata e che i governi abbiano troppa influenza sulla ricerca scientifica e sull’innovazione che produce (59%).
“I dati sembrano consolidare ciò che alcuni studiosi di scienze sociali sostengono da un po’ di tempo, e cioè che la diffidenza nei confronti della scienza – o almeno una componente molto importante di questa diffidenza – non riguarda tanto la scienza in quanto tale, ma piuttosto il fatto che la scienza viene vista come parte dell’establishment e che la conoscenza scientifica è spesso utilizzata per legittimare scelte politiche anche molto discutibili”, commenta Neresini. Quando l’innovazione, che di per sé non avrebbe colore politico, diventa preda della battaglia elettorale o degli interessi di parte, le informazioni vengono distorte, la tematica si polarizza e diventa terreno fertile per il proliferare di disinformazione.
Nell’attuale crisi di fiducia, anche l’innovazione tecnologia e le promesse dirompenti che la accompagnano rischiano di finire sotto una cattiva luce.
Proprio questo è accaduto anche con la recente “rivolta dei trattori”. A dispetto della complessità delle problematiche sollevate, a partire dal ripensamento della catena di valore di una filiera alimentare che oggi tende a penalizzare i piccoli produttori e favorire la grande distribuzione organizzata, le proteste sono state intercettate dalla strumentalizzazione delle Destre in chiave anti Green Deal, con le elezioni europee di giugno ormai in vista. Gli agricoltori tuttavia dovrebbero essere i primi a preoccuparsi del riscaldamento globale, anziché delle politiche volte a contrastarlo: nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, pubblicato a gennaio dal governo italiano in carica è riportato che il calo della resa agricola nel 2050 costerà all’Italia dai 12,5 ai 30 miliardi di euro di mancata produzione.
Stando ai dati dell’Edelman Trust Barometer, nelle democrazie occidentali sarebbe proprio l’elettorato di destra quello più diffidente nei confronti dell’innovazione tecnologica. Eclatante è il caso degli Stati Uniti, dove ben il 53% dei conservatori risulta contrario alle nuove fonti di energia, all’IA, alla medicina basata sui geni e al cibo geneticamente modificato, mentre lo è solo il 12% di chi vota a sinistra. In Italia gli stessi valori sono rispettivamente del 32% e del 8%, in Germania del 47% e del 27%. Risultati analoghi vengono riscontrati da un altro recente studio, guidato da Viktoria Cologna dell’Università di Zurigo, che ha raccolto il parere di più di 70.000 persone in 67 diversi Paesi.
È difficile però stabilire quanto la tendenza al misoneismo sia dettata dal conservatorismo come valore identitario dell’elettorato di destra e quanto invece da una classe politica che soffia deliberatamente sul fuoco della polarizzazione, estremizzando informazioni e posizioni in ottica di schieramento elettorale. Secondo lo studio di Cologna, nelle democrazie occidentali potrebbe essere predominante il secondo fattore. Negli ultimi anni le destre e i populismi hanno saputo intercettare e capitalizzare, più delle sinistre, il sentimento di risentimento di quella parte della società civile che si sente più marginalizzata. I dati dei sondaggi sembrano indicare che anche l’innovazione oggi corre il rischio di venire inquadrata nello stesso schema.
Sembra essere proprio l’elettorato di destra quello più diffidente nei confronti dell’innovazione tecnologica.
Dal sondaggio dell’Edelman Institute emerge che, quando si tratta di valutare l’attitudine verso l’innovazione, la figura dello scienziato è quella che gode di maggior fiducia, con 74 punti su 100. Anche lo studio di Cologna conferma che la fiducia nella scienza è rimasta elevata (3,62 su 5) a livello globale, persino dopo lo stress test della pandemia da Covid-19. Allo stesso modo, i dati dell’Eurobarometro, un sondaggio periodico della Commissione Europea, confermano che gli europei vedono di buon occhio la scienza e la tecnologia. Le ragioni dell’esitazione nei confronti delle novità tecnologiche non sembrano dunque avere a che fare direttamente con una generale sfiducia nella scienza, ma piuttosto con le capacità gestionali e le competenze di decisori e amministratori, ritenute spesso insufficienti. “Non di rado la diffidenza da cui deriva l’esitazione verso la scienza e la tecnologia”, commenta Neresini, “si può interpretare come una reazione rispetto a cambiamenti di cui si intuisce la portata ma dai quali ci si sente esclusi”.
L’Edelman Trust Barometer mostra anche che solo un’altra categoria gode, in cima alla classifica, dello stesso favore degli scienziati: le “persone come me”. Il dato è rivelatore del sentire comune e sembra dire che dell’innovazione ci fidiamo solo se è vagliata da figure competenti e solo se viene utilizzata in modo etico, cioè se va a vantaggio della maggioranza delle “persone come me” e non di pochi privilegiati. Se questa richiesta, che è fortemente politica, viene disattesa da una una classe dirigente politica e imprenditoriale opportunista, la crepa si trasforma in un crepaccio, la diffidenza prende il sopravvento e la fiducia in una società che cambia viene erosa rapidamente.
In tutto questo, un ruolo connettivo fondamentale lo svolge la comunicazione e in particolare quella operata dagli esperti, di scienza e tecnologia soprattutto. La pandemia da questo punto di vista è stata un esperimento comunicativo senza precedenti, e ci ha insegnato qualcosa. In quell’occasione è stata introdotta e adottata in tempi record un’innovazione biotecnologica dirompente come i vaccini a mRNA, poi premiati nel 2023 con il Nobel per la medicina a Katalin Karikó e Drew Weissman. I dati raccolti in Italia dalla società Observa nell’Annuario scienza, tecnologia e società 2021, hanno mostrato quanto il capitale di fiducia di cui gli scienziati godevano a inizio 2020 sia stato dilapidato durante il primo anno di pandemia da una comunicazione spesso confusionaria, competitiva e conflittuale, condotta su tutti i media: giornali, social e soprattutto talk show televisivi. Fortunatamente il danno non è stato irreparabile, come testimoniano gli alti tassi di adesione spontanea alla vaccinazione e come mostrano i nuovi dati dell’Annuario 2024, che attesta la fiducia nella scienza attorno al 90%, analogamente a quanto avviene in altri Paesi europei, come la Germania.
“È tuttavia inferiore al 50% la percentuale di cittadini che ha fiducia negli scienziati che intervengono pubblicamente”, ha sottolineato a Radio3Scienza Massimiano Bucchi, sociologo della scienza all’università di Trento e fondatore e curatore dell’Annuario. “Questa sovraesposizione degli esperti a lungo andare crea disorientamento, confusione, dissonanza, non si capisce se parlano a titolo personale, su argomenti di cui sono competenti, o se intervengono a nome delle istituzioni. I cittadini hanno elevata fiducia nella scienza, ma ci sono aspetti critici a cui bisogna prestare attenzione, soprattutto nella comunicazione, perché nel lungo periodo possono avere un impatto su questa stessa fiducia”.
Non si tratta soltanto di promuovere la comprensione pubblica della scienza, ma di far sì che la cittadinanza possa partecipare al governo dell’innovazione e alla distribuzione dei suoi benefici.
Inoltre il sentimento di diffidenza può non essere esclusivamente unidirezionale. “C’è anche un pregiudizio da parte degli scienziati, che spesso ritengono che la comunicazione della scienza sia una cosa che si può improvvisare, a patto che si conosca la materia dal punto di vista tecnico”, aggiunge Bucchi. “Di nuovo, la pandemia ci ha mostrato che la comunicazione pubblica non si improvvisa. Se poi si hanno pregiudizi nei confronti dei pubblici a cui ci si rivolge, si rischia di cadere in quella che Robert Merton chiamava la profezia che si auto-adempie: se parto dal presupposto che sono tutti ignoranti, perché impegnarsi in una comunicazione di qualità? La comunicazione della scienza è una professione con una sua dignità che deve lavorare con il mondo della scienza e con i cittadini per far sì che questo rapporto di fiducia sia alimentato in modo positivo e non sia una fiducia data per scontata”.
Ampliando il discorso di Bucchi, che riguarda primariamente l’alfabetismo scientifico, all’innovazione tecnologica, una lezione da tenere a mente è che non è sufficiente impartire nozioni a un pubblico trattato come una tabula rasa: ciascun individuo filtra le informazioni in base agli aspetti culturali, valoriali e identitari che lo caratterizzano. Occorre invece allargare la partecipazione della cittadinanza a tutte le fasi di produzione dell’innovazione, da quella iniziale di decisione delle tecnologie da perseguire a quella finale sulle modalità di utilizzo. In questo senso quella che avrà luogo nel 2024 è una partita non soltanto elettorale, ma democratica, nel senso più profondo del termine. Il giornalista Pietro Greco chiamava questa sfida, centrale per le sorti della società presente e futura, “costruzione di cittadinanza scientifica”: non si tratta soltanto di promuovere la comprensione pubblica della scienza, ma di rendere la popolazione parte attiva e consapevole dei cambiamenti sociali innescati dall’avanzamento della conoscenza, e di far sì che la cittadinanza possa partecipare al governo dell’innovazione e alla distribuzione dei suoi benefici.
Sempre secondo Greco, tre grandi tendenze hanno segnato il secolo scorso: l’espansione della democrazia, l’espansione della scienza e il passaggio a un’economia incentrata sulla conoscenza come valore aggiunto. Nell’attuale contesto storico, la cittadinanza scientifica va interpretata quindi come una richiesta di nuovi diritti da parte della popolazione, che reclama una piena partecipazione alla “società della conoscenza”. Non esiste una ricetta semplice per soddisfare questa crescente domanda di partecipazione, che in larga parte non trova ad oggi adeguata risposta. In un intervento alla biblioteca del Senato nel 2018, lo stesso Greco sosteneva che c’è bisogno “di una più profonda comunicazione e integrazione fra ricerca scientifica e cultura democratica sia nel senso che la scienza deve recepire le domande di benessere, dignità e felicità che salgono dalle grandi masse dei ‘nuovi arrivati’, sia nel senso che quelle domande devono organizzarsi nel quadro della moderna civiltà democratica e nel fondamentale rispetto della scienza”.
Nel rapporto tra comunità scientifica e classe politica si giocano molte delle sfide più attuali del nostro tempo. L’innovazione è un fenomeno che va gestito con uno sguardo di lungo termine, persino intergenerazionale. Piegarla all’orizzonte e al tornaconto di una campagna elettorale può far guadagnare qualche voto, ma alla lunga erode la fiducia della società sia nei confronti dell’innovazione stessa sia nei confronti di chi sarebbe chiamato a governarla. Le scelte degli elettori in questo 2024 saranno quindi anche una misura di quanto questa sfida è stata raccolta e affrontata, e di quanto capitale di fiducia è ancora riposto nelle capacità di rappresentanti ed esperti di governare gli epocali cambiamenti in corso nella società globale.