P oco prima di togliersi la vita (nel febbraio del 1942), Stefan Zweig raccoglie e pubblica le sue memorie con un libro celebre dal titolo Il mondo di ieri, raccontando così la fine di un’epoca: l’Impero austro-ungarico, l’Europa del XIX secolo, Vienna e la straordinaria temperie culturale e artistica che la contraddistingue. Negli stessi anni, Karl Polanyi pubblica un’opera di fondamentale importanza, La grande trasformazione (1944), nella quale ricostruisce l’affermazione del modo di produzione capitalistico, quella, nell’Ottocento, delle dottrine economiche liberiste; col conseguente crollo determinato dalla Grande Guerra, dalla crisi economica esplosa nel 1929, dall’avvento dei fascismi. Sia Zweig che Polanyi, che condividono la “fuga senza fine” dal nazismo, ritengono la catastrofe bellica del 1914-1918, e gli eventi successivi, un punto di non ritorno: l’esaurimento della modernità europea e l’inizio di un mondo caotico e tenebroso.
La fine della Seconda guerra mondiale, con i “Trenta gloriosi” avviati dal New Deal rooseveltiano (dal 1933) e dal rapporto Beveridge (1942), sembravano una pagina nuova, capace di superare la diagnosi e le previsioni fosche di Zweig e Polanyi. La svolta neoliberale degli anni Settanta del Novecento, l’implosione del blocco sovietico, la globalizzazione economica, in un primo tempo, parevano aver posto fine alla storia, conquistando benessere diffuso e pace. Ma la macchina si inceppa già con la crisi della New Economy, nel 2000, con l’attentato terroristico alle Torri gemelle del World Trade Center di Manhattan, nel 2001, con la guerra globale a trazione americana che, dall’Afghanistan (2001), si è poi spostata in Iraq (2003), in Libia (2011), in Siria (2011). La crisi, oltre a essere bellica, si fa quindi finanziaria ed economica, a partire dal 2007-2008; infine pandemica, dal 2020. Con le parole di Adam Tooze, viviamo in un mondo segnato dalla “policrisi”, ovvero da un insieme intrecciato di crisi che si protraggono e si aggravano indefinitamente.
Nel suo Convenzioni e governo del mondo (ed. Quodlibet, 20 euro), e alla luce del “caos sistemico” nel quale siamo immersi e sinteticamente suindicato, Massimo De Carolis torna dunque all’origine del problema. Pur facendo spesso riferimento a Polanyi, e avendo ben presente la diagnosi appena richiamata di Tooze, De Carolis si affida ad Antonio Gramsci e ai suoi Quaderni del carcere. La nozione gramsciana di ‘interregno’, che indica la “crisi di autorità” della classe dominante, e si manifesta con la morte del vecchio ordine alla quale non si accompagna la nascita del nuovo, è stata negli ultimi anni a più riprese utilizzata per descrivere il presente: da Ulrich Beck a Étienne Balibar, in ultimo da Nancy Fraser. De Carolis introduce una novità importante, “l’interregno, inaugurato dalla catastrofe della Grande Guerra, da allora non si è mai arrestato”; tanto che, per qualificarlo, occorre intenderlo “secolare”. Esplicito il riferimento a un’altra nozione, anch’essa degli anni Trenta, di Alvin Hansen, ma rilanciata nel dibattito successivo al 2007-2008: la “stagnazione secolare”. Secondo Oliver Blanchard espressione, quest’ultima, in grado di dar conto di una prolungata bassa crescita, stagnante appunto, a fronte di denaro facile garantito dalle banche centrali. Ma cosa intende, più precisamente, De Carolis con interregno secolare? L’insicurezza cronica generata da dispositivi di governo nei quali politica ed economia, potere e valore, si intrecciano fino a rendersi indistinguibili e che, invece di ridurre la complessità, la aumentano, fomentando incertezza e volatilità.
De Carolis, però, non si limita ad afferrare il nostro tempo col pensiero. Per farlo al meglio, dell’interregno secolare vuole cogliere la genealogia. Si tratta allora di indagare la natura profonda della modernità occidentale, del delicato e per molti versi sorprendente equilibrio originato dall’affermazione degli Stati-nazione e dell’economia di mercato, dalla separazione e al contempo dalla combinazione di popolo e società civile, autodeterminazione collettiva e libertà individuali.
De Carolis parla di “interregno secolare”: l’insicurezza cronica generata da dispositivi di governo nei quali politica ed economia si intrecciano fino a rendersi indistinguibili, fomentando incertezza e volatilità.
Pensatori della crisi per eccellenza, decisivi per cogliere i limiti del congegno istituzionale moderno e per illuminarne dunque i tratti essenziali, secondo De Carolis sono: Carl Schmitt e John Maynard Keynes. Entrambi, seppur da prospettive politiche molto diverse, osservano lo sgretolamento della linea divisoria tra Stato e mercato, popolo e società civile; sgretolamento generato dal «pluralismo istituzionale», per un verso, dallo sviluppo dei «mercati organizzati dei titoli di investimento» (azioni, obbligazioni, ecc.), per l’altro. Processi, continua De Carolis con invenzione concettuale rilevante, che alimentano la “fermentazione della massa”, imponendo quest’ultima come (s)oggetto di riferimento tanto della politica che dell’economia. Indubbiamente, con la Grande Guerra e la catastrofe che essa porta con sé, l’irruzione della massa nella storia è accelerata. Ma è proprio la sua emergenza a far balenare “la catena di artifici grazie ai quali lo Stato e il mercato hanno potuto sostenersi a vicenda per tre secoli, a dispetto della loro apparente opposizione”.
Stato-nazione e mercato autoregolato, secondo De Carolis, hanno una comune natura convenzionale, che viene resa stabile e duratura proprio dalla scissione connettiva dei due ambiti. Per spiegare quest’ultima affermazione, occorre in primo luogo chiarire cosa si intende per convenzione. De Carolis ricorre a David Hume e al suo Trattato sulla natura umana (1739): “elementare forma di coordinamento tra agenti dotati di ragione”, la convenzione è una convergenza semplice e spontanea perché manca di promesse. In assenza di convenzioni, in particolare senza proprietà privata, secondo Hume non c’è patto politico, e quindi governo, che tenga. Usando Hume e in generale l’Illuminismo scozzese (Ferguson e Smith), De Carolis rilegge in modo critico e originale il contrattualismo moderno, quello che da Hobbes arriva fino a Rousseau e Kant. A questo proposito, il confronto con Schmitt si fa fecondo: il contratto che fonda popolo e sovranità, quindi lo Stato e la legge, pretende consenso e dunque non può che essere a sua volta fondato sulla “normalità” dei comportamenti e dei rapporti sociali, sulle istituzioni che da sempre innervano tali rapporti.
Ma proprio ciò che rende possibile il contratto sociale, la formazione del sovrano e la vigenza delle leggi, proprio le convenzioni, cioè, sono massimamente caduche e variabili. Scrive infatti De Carolis: a ben guardare, dunque, le dinamiche convenzionali sono segnate da una profonda
ambivalenza. Da un lato, assicurano il terreno basilare per ogni forma stabile di legame sociale. Dall’altro, marcano un margine ineliminabile di libertà soggettiva, una specie di principio di anarchia e quindi anche di imprevedibilità e di incertezza.
La fragilità in questione viene trattata, nella modernità occidentale, dall’affermazione dello Stato-nazione. Il contratto che costituisce il sovrano e il popolo, e che elimina la rissosità dello stato di natura e della moltitudine, garantisce la sicurezza dei contraenti, liberi così di dedicarsi, industriosi, agli affari economici. Vi è dunque mercato efficiente perché lo Stato, quanto meno entro i propri confini, tutela la proprietà privata; garantita con la spada e con la legge la serenità dei contraenti, che da sudditi (Hobbes) divengono cittadini (Rousseau), il commercio può dare il meglio di sé. Antidoto alla precarietà delle convenzioni è anche il mercato, inteso però come autoregolato (Smith): solo eliminando i residui feudali (regime della proprietà fondiaria, corporazioni dei mestieri, ecc.), arginando l’iniziativa politica e legislativa, la libera concorrenza dei soggetti economici può esprimersi al meglio e generare equilibrio. Le crisi rivoluzionarie che costellano la modernità, che ne definiscono il ritmo, rompono a mano a mano l’idillio: in primo luogo, dividendo secondo le linee di classe, di razza e di genere, l’unità del popolo; in secondo luogo, imponendo agli Stati liberali legislazioni di carattere sociale (i prodromi del Welfare State). La competizione coloniale e imperialistica fa il resto: la sicurezza interna degli Stati-nazione si combina con la rissosità dello scenario internazionale; il mercato, sempre meno autoregolato, ha bisogno di eserciti e potenza militare per poter davvero prosperare. È così che il pluralismo istituzionale, per esempio l’affermazione delle organizzazioni sindacali, da un lato, dei monopoli e dei cartelli industrial-finanziari, dall’altro, comincia a logorare la separazione tra politica ed economia che aveva tenuto a bada l’ambivalenza delle dinamiche convenzionali. La Grande Guerra, con la coscrizione di massa e l’impiego distruttivo di tutta la forza industriale accumulata nel secolo XIX, completa tragicamente il processo.
Stato-nazione e mercato autoregolato, secondo De Carolis, hanno una comune natura convenzionale, che viene resa stabile e duratura proprio dalla scissione connettiva dei due ambiti.
Schmitt e Keynes agiscono, pensano e scrivono, al pari di Gramsci, agli albori dell’interregno secolare, innovando la scienza politica e quella economica. E lo fanno entrambi, sottolinea De Carolis in due capitoli del libro particolarmente incisivi (il terzo e il quarto), dando pieno risalto all’ambivalenza strutturale delle convenzioni. Schmitt, sottolineando il peso del consenso nella costituzione dello Stato-nazione moderno, lega quest’ultimo alla decisione sovrana, quella che decide sullo “stato di eccezione”. Contro chi vede nello Stato solo l’ordinamento normativo e procedurale, Schmitt afferma il primato del ‘politico’, definendolo a partire dalla coppia amico-nemico. Se la decisione sovrana è decisione politica per eccellenza, la decisione politica è quella che riguarda la guerra contro la minaccia esistenziale posta in essere dallo straniero.
Keynes invece coglie, come nessuno, il peso fondamentale delle aspettative, della fiducia e delle convenzioni, nelle dinamiche economiche in generale, in quelle finanziarie in particolare. Quanto più si separano proprietà e amministrazione delle aziende, e quanto più si sviluppando i mercati organizzati dei titoli di investimento, tanto più si impone il “feticcio della liquidità” – leggi, della “revocabilità” degli investimenti. L’accesso di massa alla borsa, che avviene per la prima volta negli Stati Uniti negli anni Venti, favorisce fino a renderlo irreversibile il carattere convenzionale del mercato (il conformismo degli investitori), facendo presto emergere in primo piano la fragilità intrinseca delle convenzioni, il ruolo della speculazione. Giustamente, però, De Carolis non si accontenta di descrivere i fenomeni che più concorrono alla crisi di panico del 1929 e alla successiva Grande Depressione.
Seguendo con sagacia le mosse teoriche più ardite di Keynes, mette piuttosto in luce l’instabilità cronica di un’economia, come quella delle società più avanzate, segnata dal peso insostituibile del denaro. La moneta stessa vizia, come una sorta di “opacità costitutiva”, l’equilibrio di mercato, generando continue crisi, dalle recessioni alle vere e proprie depressioni. Il motivo, in un passaggio cruciale della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), lo chiarisce Keynes stesso: fino a quando è aperta all’individuo la possibilità di impiegare la sua ricchezza nel tesaurizzare o nel prestare
moneta, l’alternativa di acquistare beni capitali reali non può venir resa abbastanza attraente (specialmente per chi non li amministra egli stesso e conosce molto poco su di essi), se non organizzando mercati nei quali quei beni possano essere facilmente realizzati in moneta. Se il denaro fosse semplicemente unità di conto e mezzo di scambio, problemi non ce ne sarebbero, ma il denaro è anche, e soprattutto, riserva di valore, per questo il ruolo dei mercati finanziari è sempre più preponderante, con esso l’instabilità dell’economia e della società tutta.
Anche Keynes, come noto, e come De Carolis spiega, risponde all’ambivalenza delle convenzioni, alla loro fragilità, attraverso lo Stato. Se Schmitt indica la strada dell’autoritarismo e dell’espansione imperialistica, Keynes tenta di riformare il capitalismo, saldando liberalismo e socialismo. Lo Stato di Keynes diviene investitore diretto, aumenta l’occupazione e la “propensione al consumo”, genera fiducia e sollecita dunque l’ottimismo spontaneo degli “animal spirits”, così alimentando il primato dell’intraprendenza dei soggetti economici (gli imprenditori, i capitani d’industria) sulla speculazione finanziaria. Mentre il pensiero di Schmitt incrocia, in vario modo, la catastrofe nazista, quello di Keynes si afferma, in Occidente, dopo la Seconda guerra mondiale e per circa un trentennio, finendo poi schiacciato dalla controrivoluzione monetarista e neoliberale di Milton Friedman e Friedrich von Hayek, di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher – al centro, la controrivoluzione, del precedente libro di De Carolis, Il rovescio della libertà (2017).
L’attualità dell’interregno secolare esibisce la convenzionalità radicale della condizione umana.
Schmitt e Keynes, seguendo strade diverse, e al di là della follia omicida (Schmitt) o dell’insuccesso (Keynes) delle loro proposte teoriche, hanno avuto il merito indiscutibile di svelare la natura radicalmente convenzionale del potere (politico) e del valore (economico), della legittimità del primo e della liquidità del secondo. Di più, attraverso l’originale interpretazione del loro contributo, De Carolis può compiere una mossa nel senso di ciò che Michel Foucault definiva “ontologia dell’attualità”: l’attualità dell’interregno secolare esibisce la convenzionalità radicale della condizione umana.
Le pagine finali del libro impegnano De Carolis sul terreno, sempre impervio, della prefigurazione politica, della proposta. Se nella modernità occidentale Stato e mercato dovevano costantemente misurarsi con due “antistrutture” (il riferimento è alla categoria antropologica proposta da Victor Turner), cioè popolo e società civile, che agivano come limite e forza frenante, nelle dinamiche dell’interregno potere e valore si sovrappongono, dando vita a “una ragnatela di centri di dominio” che costantemente sono al lavoro per prevedere e comunque organizzare le condotte, i comportamenti di massa. Nell’interregno gli argini saltano in aria, naufragando il popolo quanto la società civile: ciò vuol dire che il mondo è sempre sull’orlo della catastrofe – sociale, bellica, ambientale.
Quale può essere, allora, un’antistruttura all’altezza dei centri di dominio propri dell’interregno? La risposta di De Carolis è per un verso affascinante, per l’altro discutibile.
La massa, secondo la definizione dello stesso De Carolis, è una “moltitudine che si vuole popolo”, per questo cede alle sirene identitarie delle “democrazie illiberali” e dell’uomo forte al comando (da Orbán a Trump, passando per Putin e Modi); solo un’anti-massa, ovvero una moltitudine che rimane tale, attraverso pratiche di democrazia radicale e non rappresentativa, può tenere a freno la distruttività dei congegni istituzionali contemporanei, facendosi, di questi, antistruttura. Fin qui, tutto bene. La moltitudine in questione, infatti, seppur a volte fugacemente è senz’altro ben mostrata dai movimenti sociali che si battono contro le disuguaglianze, la crisi climatica, la violenza maschile sulle donne. Rilevando però le difficoltà dei movimenti, l’inefficacia che ultimamente li caratterizza, De Carolis invoca una governance globale finalmente responsabile, capace di far proprie le istanze dell’antistruttura, “congiungendo quindi la salvaguardia dell’umanità e della Terra alle esigenze di autogoverno che provengono dall’anti-massa”. Una governance che dovrebbe riproporre, su un terreno inedito ovviamente, il cosmopolitismo kantiano in combinazione con la macroeconomia keynesiana.
Nell’interregno gli argini saltano in aria, naufragando il popolo quanto la società civile: il mondo è sempre sull’orlo della catastrofe – sociale, bellica, ambientale.
È dunque chiamato in causa un riformismo liberale particolarmente illuminato, combattivo ed esigente, di cui, da quasi mezzo secolo, se ne sono perse le tracce nelle élite che dirigono economia, politica, stampa, cultura, ecc. A fare difetto alla diagnosi spesso impeccabile di De Carolis, ad avviso di chi scrive, è la sottovalutazione del movimento operaio e comunista e delle sue rivoluzioni, quelle vittoriose e anche quelle fallite: difficile comprendere Keynes, senza il suo riferimento continuo al pericolo rivoluzionario dietro l’angolo, almeno in Europa, dal 1917 e negli anni a seguire. Se dunque i movimenti radicali, correttamente individuati da De Carolis, non saranno in grado di articolare una rete fitta, globale e duratura di contropoteri, le spinte distruttive dell’interregno non incontreranno limiti, con una nuova guerra mondiale che, da possibilità astratta, rischia di farsi minaccia maledettamente concreta. La strada è decisamente in salita, il libro di Massimo De Carolis è però uno strumento importante per arrischiarsi nella camminata.