P artiamo alla volta di Santa Brigida, una piccola frazione di Pontassieve gentilmente adagiata sulle colline della val di Sieve, immersa nell’omonima riserva naturale. La riserva è stata creata per tutelare una pianta estremamente rara, che in Italia cresce esclusivamente in quella zona: il cisto laurino, un arbusto altissimo con i suoi caratteristici fiori dai grossi e delicati petali bianchi. Gli scalpellini li chiamavano i “Fiori della Madonna”, e li portavano alle loro fidanzate e mogli. Quando le cave erano in attività ce n’erano un po’ ovunque, in particolare vicino agli scavi. Oggi purtroppo è quasi scomparso per i rimboschimenti di conifere e per quel processo che ora viene chiamato con accezione positiva rewilding, mentre prima si chiamava “abbandono”.
I versanti delle colline sono ricoperti di faggeti, castagneti e roverelle, venati di vigne, olivi, strade di campagna. Qua e là si possono vedere castelli e mulini, come se l’attività dell’uomo nel corso dei millenni si fosse delicatamente stratificata sul territorio. Pettini di torrentelli, ruscelli e rivoli d’acqua scendono lungo le pendici finendo talvolta in laghetti e suggestive cascatelle. Su, vicino alle fredde sorgenti, sul lato settentrionale delle colline, nascoste qua e là nell’ombra del bosco, ci sono delle antiche costruzioni di pietra ormai in disuso chiamate burraie. Assomigliano molto alle casette a cupola degli hobbit, per metà scavate nel terreno, con una finestrella tonda e una porticina con l’arco talmente basso che per passare bisogna chinarsi. Venivano utilizzate per la produzione e la conservazione del burro quando non esisteva il frigo e i versanti migliori erano pascolati da vacche.
Facciamo sosta in una piazzetta del centro, lì vicino c’è una grotta minuscola che profuma d’incenso, con l’accesso sbarrato, davanti ci sono ceri e mazzi di fiori. È il luogo dove dicono che Santa Brigida si sia rifugiata in eremitaggio. Non lontano noto cespugli di lavanda in fiore, visitati da calabroni. Proseguiamo fino a quando Flavio mi mostra uno stanzino angusto e spoglio che ha adibito a negozio per la vendita al dettaglio. Raggiungiamo poi un gruppo di vecchie case, molto alte, in pietra serena. Sono costruite seguendo l’andamento naturale della collina, quindi hanno un ingresso sulla strada al pian terreno e un ingresso sul giardino al terzo piano. “Una volta si usava così”, dice Flavio. “Le case si adattavano alle caratteristiche del terreno”.
Ben presto mi accorgo che il lupo non è mai scomparso dall’Appennino, tutt’altro: aleggia tra le chiacchiere dense di storie come un fantasma.
Entriamo in una di queste abitazioni e io comincio a esplorarla: presto mi ritrovo in un ampio salone con una tavola di legno molto lunga, in un angolo c’è un grande camino acceso. Dopo poco comincia ad arrivare gente. La sala lentamente si riempie di tre o quattro generazioni della famiglia Giannetti, oltre a molte altre persone, e mi ritrovo con mia sorpresa ospite al compleanno della sorella, tra risate e bambini che corrono, lo sfrigolio della cipolla e gli aromi che riempiono l’aria. Flavio racconta agli altri come ci siamo conosciuti e perché sono qua, per cui ritorna fuori la storia della morte del suo cane Nebbia. Ognuno dei presenti ha qualche altro assalto di lupo da raccontare, vittime tra le pecore e i cani, brutti spaventi. Ben presto mi accorgo che il lupo non è mai scomparso dall’Appennino, tutt’altro. Aleggia tra le chiacchiere dense di storie come un fantasma, negli ululati lontani della notte, trasportati dal vento, o nel furioso latrare dei cani a fondovalle.
È sopravvissuto al secondo dopoguerra con il suo piano di eradicazione portato avanti con veleno, trappole e fucili per opera dei lupari, che però, per proprio tornaconto, hanno mantenuto sempre qualche animale, di solito femmine, per non dover porre fine all’esercizio della loro arte. In generale sono intervenuti sugli animali più pericolosi e sui predatori seriali; così facendo hanno forgiato il carattere schivo dei lupi di oggi. Di solito se incontri un lupo, infatti, è lui a scappare. Ma non sempre. Per i lupi troppo abituati alla presenza umana c’è un termine tecnico, “confidente”, che mantiene in questo caso il significato arcaico di “baldanzoso”, “sicuro di sé”. Sono loro il problema. I lupi baldanzosi. Poi c’è un altro problema: i lupi ibridi, nati dall’incrocio tra lupi e cani. In quel caso il problema è doppio. Da una parte sono una minaccia per la sopravvivenza del lupo appenninico come specie; dall’altra sono molto confidenti, e quindi non temono l’uomo.
Io invece ci metto qualche tempo a prendere confidenza con l’ambiente, a inserirmi senza sembrare troppo un’intrusa. Lascio parlare per un po’ i padroni di casa, poi dopo aver ascoltato alcuni discorsi mi faccio coraggio e intervengo anche io: “secondo me la specie del lupo era stata nettamente sottostimata, sia per numeri che per capacità di adattamento; intendo la prima stima ufficiale, quella di Zimen e Boitani del 1974, che attestava la presenza di 100-110 lupi in tutto l’Appennino”. Ora mi guardano tutti, in silenzio. Devo avere fatto colpo. “Pensa che nello stesso periodo”, interviene di slancio un ragazzo magrolino che si è unito al gruppo subito dopo di me, “era uscita un’analisi sulla mortalità del lupo effettuata da Luigi Cagnolaro, se non erro allora era direttore del Museo civico di storia naturale di Milano… Va be’, comunque metteva in evidenza che la popolazione si era attestata su una porzione decisamente più ampia dell’Appennino, con numeri di almeno quattro volte superiori. La deduzione veniva da un dato incontrovertibile: il ritrovamento delle carcasse di lupo”.
Sono loro il problema, i lupi baldanzosi. Poi c’è un altro problema: i lupi ibridi, nati dall’incrocio tra lupi e cani.
“Ma è dopo che viene il bello”, lo interrompe un signore di mezza età, tozzo e dalla pelle scura. Sembra un tronco intagliato, ha la voce altisonante e la sicurezza di chi si muove nel proprio campo. “Per il Ministero dell’Ambiente questa popolazione, già sottostimata, è rimasta quasi stabile per decenni, in maniera assolutamente poco coerente con quanto si osservava in campagna”. “Cioè?”, chiedo. Il signore tozzo si alza in piedi, come per un’arringa: “basta considerare il fatto che nel […] 2016 per i ricercatori del Ministero eravamo ancora fermi a circa 800 lupi in tutta Italia, mentre da ricerche fatte sul campo dalle università toscane emergevano altri dati. Solo per questa regione si contava una popolazione minima di almeno 500 animali! È grazie a questa sottostima sistematica dei lupi che sono stati finanziati progetti di conservazione per diverse decine di milioni di euro”.
[…] Ben presto siamo tutti occupati a mangiare. Seduto a capotavola, Flavio mi racconta delle difficoltà di tirare su un’azienda, del calore che emana il corpo delle bestie, dell’odore di humus vicino al bosco, del rispetto dei tempi della natura, e di quelli della “melma burocratica”. “Come quei boscaioli che hanno rischiato multe salate per aver ripulito un pezzo di bosco dai rovi e scoprire, qualche tempo dopo, che erano stati stanziati fondi perché altre persone facessero lo stesso lavoro”. Il ragazzo magrolino seduto vicino a noi sospira, poi con aria rassegnata dice: “gli ambienti aperti stanno scomparendo, comprese molte specie di uccelli a rischio di estinzione! Ma la normativa forestale è ancorata a una visione arretrata, di quando il bosco era saccheggiato dai mezzadri. Ci rendiamo conto?”.
[…] Il lupo, frattanto, è una presenza costante, che si presenta e ripresenta durante la conversazione, nel piccolo gruppetto di persone di cui faccio parte anch’io. “L’altro giorno a una ragazza hanno quasi ammazzato il Rottweiler”, racconta uno di loro. L’aria si fa tesa, parlano di altri attacchi dei lupi, all’inizio maldestri e insicuri, ma poi sempre più intelligenti ed efficaci. Non c’è voluto molto perché smettessero di avere paura delle luci, dei suoni, delle grida e persino dei cani e delle recinzioni elettrificate. Sempre più confidenti, hanno cominciato ad avventurarsi ancora più vicino alle abitazioni umane. Un signore racconta amareggiato che ogni giorno bisogna controllare che non ci siano nuovi animali sbranati. Qualche volta il lupo azzanna una pecora e se ne va, lasciandola agonizzante al suolo, finché non viene divorata dalle larve di mosca carnaria, che agiscono dall’interno.
Mai, nei ricordi degli anziani o nelle pagine ingiallite dei libri, si era udito di lupi che vagavano per la pianura, o che osavano avvicinarsi al mare.
Le ferite da lupo sono tra le più difficili da curare. Inoltre un animale che subisce un attacco, anche se sopravvive, non pascola, rumina male, non produce più. […] Mai, nei ricordi degli anziani o nelle pagine ingiallite dei libri, si era udito di lupi che vagavano per la pianura, o che osavano avvicinarsi al mare. E non era mai successo di vedere un lupo in città. Ma i tempi sono cambiati. Non fa più notizia che i lupi, creature di boschi e montagne, varchino i confini invisibili tra umano e animale, aggirandosi per le strade di Santa Brigida. La notizia, ora, è che i lupi arrivano fino a Firenze, fino a Viareggio. “Vedete”, interviene Flavio, con uno sguardo che si perde oltre il suo piatto ormai vuoto, “si passa il tempo a stupirsi di cose che il lupo non ha mai fatto prima… andarsene a spasso in città o al mare. Come se fosse cambiato, diventato un’altra cosa. Ma non è forse l’uomo in verità a essere cambiato? È l’uomo che ha dimenticato il lupo”. “Che si metta per iscritto, succederà di sicuro, che prima o poi qualcuno verrà ammazzato”, interviene l’uomo tozzo che sembra un tronco.
[…] Non faccio in tempo a digerire che sono già seduta in macchina, con un branco di bambini al seguito, diretti verso l’azienda. […] Arrivati a destinazione ci accolgono odore di fieno e di stalla e tre grossi pastori abruzzesi, che scodinzolano goffamente in segno di saluto. Flavio li ha allevati così, abituati alle persone: “non vorrei mai che qualche escursionista di passaggio venisse aggredito dai miei cani”. Del resto anche Flavio ha un carattere molto mite, i vicini gli vogliono bene e i suoi clienti sono famiglie della zona che vanno da lui per comprare i prodotti e ritrovare quell’accoglienza rurale d’un tempo, che vale la gita. Poco lontano, galline bianche livornesi chiocciano e becchettano tra gli ulivi, bovini di razza Limousine ruminano pigramente. Passeggiando per la piccola fattoria, Flavio mi mostra i cavalli e il piccolo maneggio, i maiali che grufolano nel recinto e che si avvicinavano a noi, incuriositi. Durante il nostro giro, si assicura che gli animali abbiano cibo e acqua e che stiano bene, un modo per unire l’utile al dilettevole.
È ormai calato il buio quando riprendiamo la macchina. Mentre attraversiamo l’oscurità della campagna, la città sfavilla in lontananza facendo capolino tra una curva e l’altra. Ormai siamo soli, Flavio e io; è giunto il momento delle domande scomode. Prendo fiato: “sei preoccupato per il futuro della tua azienda?”. Scuote il capo, come preso da un suo pensiero, e dopo un po’ risponde: “questa situazione non è sostenibile… e la sostenibilità sta nella proporzione”. Stringe più forte il volante. “La pressione della città sulla campagna è intollerabile. Mi sento rispondere: ‘sei tu che sei andato ad allevare animali in casa dei lupi’, ma in realtà io sono nato qui, da generazioni abitiamo in questi luoghi”. Lo fa arrabbiare essere definito intruso a casa sua. Ma non è solo quello: “quantomeno dobbiamo poter vivere alla pari con gli animali. Va bene la convivenza, ma devo avere il diritto di difendermi”. La città invece sta imponendo un modello morale che nemmeno lei può permettersi. “Non possiamo lavorare tutti in ufficio o fare i ‘parrucchieri per cani’. Qualcuno dovrà anche produrre il cibo che mangiamo, no?”.
Chi vive in città è ancora convinto dell’esistenza di spazi selvaggi, e il lupo è la sublimazione dei valori positivi del naturale e della libertà.
Ci penso un po’ su, poi dico: “non è che questa mentalità alla lunga ci spingerà ad acquistare solo prodotti dall’estero? Come se fosse la cosa più etica, intendo. Sai, lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, scherzo. Cala il silenzio. L’irrequietezza è palpabile, così come la frustrazione di chi incassa senza potersi sfogare. La verità è che la città senza campagna non può esistere. Chi vive in città è ancora convinto dell’esistenza di spazi selvaggi, e il lupo è la sublimazione dei valori positivi del naturale e della libertà. Un informatico stressato avrà come screensaver un lupo, una pubblicitaria sfinita dai ritmi di lavoro prenderà come animale da compagnia un cane lupo cecoslovacco. Il lupo è un animale totemico, verso il quale proviamo una riverenza associata a un sussulto ancestrale, alla scarica di adrenalina, al cuore che batte a mille nel petto, all’emozione che ormai trascende la pura dimensione fisica. Forse per rammentarci che qualche volta siamo stati l’anello intermedio nella catena alimentare.
Da un punto di vista strettamente ecologico, i lupi, così come altri grandi predatori, sono sempre in equilibrio dinamico con l’ambiente in cui vivono. Almeno in un ambiente naturale. Ma nei contesti antropizzati, dove tutto da secoli è stato spinto alla massima produzione, la loro densità potrà essere molto più alta che in un bosco vergine. La loro ecologia comprenderà necessariamente risorse trofiche legate all’uomo, e il loro home range (cioè il loro spazio d’azione) comprenderà sempre più ambienti periurbani, simpatrici con l’uomo, cosa che infatti avviene in tanti posti d’Italia. Gli ambienti antropizzati offrono riparo, sicurezza, risorse. L’uomo non è più un pericolo per i lupi, lo temono sempre meno. E probabilmente gli ibridi potrebbero essere favoriti in questi ambienti rispetto ai lupi, per alcune caratteristiche fisiologiche e biologiche ereditate dai cani.
Ma noi cittadini siamo lontani dal lupo, siamo lontani dai processi vitali, siamo lontani dalle persone che vivono a contatto con questi predatori e dalle loro emozioni. E infatti uno studio del 2014 dimostra che l’attitudine favorevole nei confronti dei lupi e in generale dei grandi predatori è maggiore quanto maggiore è la distanza delle persone da essi. Ognuno ha legittimamente posizioni diverse, che sono legate al proprio vissuto, alla propria sensibilità. Ma cosa farei io se mi trovassi nella stessa situazione di Flavio? Cioè se abitassi nelle aree marginali e mi occupassi della produzione alimentare? Non credo sarei così speciale da cadere nelle estremità di una curva di Gauss. I dati che abbiamo sono distanti dalla realtà per fenomeni speculativi, e la normativa vigente risente del condizionamento degli animalisti, che di fatto si sono messi a sedere sulla valvola di una pentola a pressione che sta per scoppiare. C’è il rischio che la tutela e la conservazione del lupo vada a finire male.
Noi cittadini siamo lontani dal lupo, siamo lontani dalle persone che vivono a contatto con questi predatori e dalle loro emozioni
Per questo bisognerebbe quantomeno ascoltare le persone di campagna, conoscere le varie realtà e trovare un compromesso. Non considerare questi aspetti significa forzare le regole civili e innescare delle reazioni non governabili, mettendo quindi a repentaglio quell’obiettivo finale che corrisponde, secondo la Direttiva Habitat, alla “conservazione duratura della specie”. […] “Non voglio criminalizzare il lupo, per carità. Però neanche gli allevatori. Ci sono certe aziende che lavorano male, che gestiscono male la situazione, ma questo odio contro pastori e allevatori è ingiustificato”, ci tiene a specificare Flavio. “Non so se negli altri stati funzioni così, ma da noi non esiste la possibilità di difendersi. Così facendo, crei solo situazioni in cui la gente si fa giustizia da sola. La presenza del lupo ti manda fuori di testa, tutte le notti ti assale la preoccupazione di cosa può accadere. Anche se non succede niente hai pensieri e ansia continui. È questo che non capiscono”.
Ormai fuori dal finestrino non si vede più niente. È tutto completamente buio, fatti salvi ogni tanto i bagliori dei fari. “Ma esiste un modo per rendere la presenza del lupo accettabile per i pastori e gli allevatori?”, chiedo. Flavio sospira, poi si schiarisce la voce: “nessuno vuole andare nel bosco a sterminare i lupi. Dobbiamo però smettere di avere paura di dire le cose come stanno: i soggetti più problematici, troppo confidenti, che magari si avvicinano spesso alle zone antropizzate e si abituano quindi a predare bestiame domestico, devono essere eliminati. A maggior ragione se sono ibridi. Questa non è un’azione in contrasto con la salvaguardia della specie lupo, anzi, può addirittura favorirla”.
[…] È un peccato che invece di intervenire con rimozioni mirate, proteggiamo indiscriminatamente lupi e ibridi, spendendo così tanti soldi pubblici e finendo per minacciare di fatto la sopravvivenza della specie autoctona di lupo. Certo, l’ibridazione è un fenomeno sorto occasionalmente sin dall’origine stessa della domesticazione del cane, però ora che è in costante aumento la situazione è diventata allarmante non solo per le attività del territorio e il conseguente abbandono delle campagne, ma anche per la conservazione della specie del lupo e per la tutela della sua identità genetica. Alla fine della fiera il lupo rischia di fare la fine del cisto laurino: protetto e abbandonato a se stesso.
Un estratto da Salvare gli animali di Giulia Corsini (UTET, 2024).