Ivan Carozzi
/ IMMAGINE: Julie Mehretu, Conversion (S.M. del Popolo/after C.), 2019-2020, Courtesy: l'artista e Marian Goodman Gallery.
16.4.2024
Calcolo e atmosfera
La pittura di Julie Mehretu.
Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di "Figli delle stelle" (Baldini e Castoldi, 2014), "Macao" (Feltrinelli digital, 2012), "Teneri violenti" (Einaudi Stile Libero, 2016) e "L'età della tigre" (Il Saggiatore, 2019).
L’
ultimo imperatore etiope, Hailè Selassié, venne ucciso con un cuscino premuto sul volto, in una notte del 1975, come Jack Nicholson nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma mentre per Nicholson, paziente psichiatrico lobotomizzato, si era trattato di un atto di clemenza, nel caso di Selassié si trattò di un omicidio politico, seguito alla presa del potere da parte dell’esercito.
All’epoca dell’omicidio di Selassié viveva ad Addis Abeba una bambina di nome Julie, nata nel 1970. Il padre, Hassafa Mehretu, insegnava geografia economica all’università. La madre, Doree, era un insegnante montessoriana di origini statunitensi. Nel 1977 la famiglia Mehretu fece le valigie e partì per gli Stati Uniti. Partirono prima la madre insieme ai tre figli (due sorelle e un maschio); ottenuto il visto, li raggiunse il padre. Oggi Julie Mehretu vive a New York, ad Harlem, ed è un’artista visiva capace come pochi di rappresentare con la pittura il brusio, l’opacità, il ritmo, il mutamento e l’intrecciatura tecno-sociale che oggi avvolge ogni ambito della vita umana.
Nel caos apparente si percepisce un ulteriore piano spirituale. C’è una forza che spinge, preme e si espande. Quella vitalità, quell’improvvisazione e quella libertà che in passato hanno fatto parte dell’espressionismo astratto, ma anche del free jazz.
Per farsi un’idea basta imbattersi in una sua tela del 2007, Black City. Tre metri di altezza per poco meno di cinque metri di larghezza. È sufficiente un’occhiata perché la nostra memoria visiva, il nostro inconscio ottico, riconoscano in Black City qualcosa di famigliare. Accanto alla levità di nubi e aloni, impalpabili e cangianti come pennacchi di fumo, scopriamo in filigrana la ripetizione di linee, griglie sottili, parallelogrammi e parallelepipedi. Si è parlato spesso dell’influenza del rendering e del disegno tecnico sulla pittura di Mehretu, ma più che all’architettura, io penso, guardando Black City e altre tele di Mehretu, all’azione dell’algoritmo, con il suo potere illimitato di mappatura e di calcolo di ogni aspetto della vita.
Nel caos apparente si percepisce un ulteriore piano spirituale. Dal quadro affiora altro. C’è una forza che spinge, preme e si espande. È una melodia che affiora per frammenti e s’irradia da un punto all’altro della tela. Può capitare di fronte ai quadri di Mehretu di riscoprire quella vitalità, quell’improvvisazione e quella libertà che in passato hanno fatto parte dell’espressionismo astratto, ma anche del free jazz. Jason Moran, pianista e compositore, ha definito Mogamma, una serie di quattro quadri di Mehretu, una partitura musicale, con un andamento simile a A Love Supreme, il celebre disco di John Coltrane. “Tutte le composizioni musicali iniziano con un ritmo, ma Mogamma inizia con un botto. Immagina di ascoltare il capolavoro in quattro parti di John Coltrane A Love Supreme, del 1964, ma non un pezzo dopo l’altro, tutti insieme simultaneamente. Riconosciamo l’alba, l’esplosione, la preghiera, la confusione, la chiarezza, l’inspirazione e l’espirazione”.
“Ensemble”, inaugurata a Venezia il 17 marzo 2024, nelle sale di Palazzo Grassi, curata da Caroline Bourgeois, è la più grande mostra di Mehretu mai organizzata sul continente europeo. Raccoglie 17 opere della Collezione Pinault e i prestiti provenienti dalla collezione dell’artista, da musei internazionali e da collezioni private, ai quali si sommano altre trenta opere di Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Tacita Dean, David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin, tutti artisti amici di Mehretu. Un ensemble, appunto.
Durante l’intervista realizzata per la registrazione di un podcast [una serie di Chora Media promossa da Palazzo Grassi-Pinault Collection, raccontata da Sara Poma e scritta da Ivan Carozzi, Ndr], Mehretu ha raccontato della sua infanzia in Etiopia e della sua numerosa famiglia di nonni, zii, zie e cugini. Il nonno era un signore immancabilmente ben vestito, una specie di dandy, abituato a indossare abiti italiani. Nel 1977 l’Etiopia precipita in un periodo di violenze e di grande incertezza politica. Julie deve lasciare il paese e voltare pagina. Inizia così la sua vita negli Stati Uniti d’America. Cresce nella college town di East Lensing, in Michigan, dove il padre riprenderà a insegnare. Nel frattempo scade il mandato del presidente democratico Jimmy Carter. Seguono i due mandati di Ronald Reagan, in carica dal 1981 al 1989. Mehretu è esposta alle influenze della nuova cultura americana degli anni Ottanta, segnata dal debutto del canale musicale MTV e dalla sgargiante ascesa di artisti come Michael Jackson e Prince, anche se cresce circondata dai suoni dell’ultraprezioso e variopinto repertorio del jazz etiope.
Nella cronologia contenuta nel foglio di sala della mostra “Ensemble”, si trova qua e là conferma dell’importanza del suono e della musica nella formazione di Mehretu. Non si tratta, in realtà, di una semplice cronologia della vita di Julie Mehretu, ma di qualcosa di più significativo, che riguarda anche le vite degli altri sette artisti in mostra. Tra i fatti e gli eventi ricordati nella cronologia, troviamo l’apertura a Chicago di un club, il Warehouse, uno dei luoghi di nascita della house music, e una citazione di Drexciya, un duo di musicisti che tra il 1992 e il 2002 hanno contribuito alla storia e alla evoluzione della scena techno di Detroit.
Gran parte della pittura di Mehretu mostra un legame con alcuni campi del sapere scientifico, con certi cliché visivi della cartografia, della demografia e della statistica.
Mehretu comincia a dipingere negli anni Novanta e nello stesso periodo si trasferisce a New York. Fra i primi lavori troviamo un’opera dal titolo Timeline Analysis of Character Behaviour. Migration Direction Map. Si tratta di una sorta di cartografia dei flussi migratori. Gran parte della pittura di Mehretu mostra un legame con alcuni campi del sapere scientifico, con certi cliché visivi della cartografia, appunto, ma anche della demografia e della statistica, sempre placati, equilibrati da un movimento figurale portatore di una sottile vibrazione melodica. Gli anni Novanta sono l’epoca dell’affermazione e del radicamento della techno, della house music, dell’hip hop, ma sono anche l’epoca della presidenza Bill Clinton, del lancio sul mercato di Windows 95 e dell’ottimismo tecnologico legato alla prima diffusione di Internet. “Prima dell’arrivo dei cellulari, a New York si usavano i “beeper””, racconta Mehretu. I beeper – da noi teledrin – erano un apparecchio tecnologico precedente alla rivoluzione digitale, una scatolina che si poteva agganciare alla cintura dei pantaloni, usata per lo scambio di messaggi di testo e vocali.
Dopo i beeper sono arrivati i primi cellulari e poi i telefoni a conchiglia. Ho avuto, credo, il mio primo indirizzo e-mail alla scuola di specializzazione, nel 1995 o 1996. Alla fine degli anni ’90 a New York c’erano tutti questi servizi che ti consegnavano qualsiasi cosa in mezz’ora, anche se non era ancora niente di paragonabile a Uber. È stato un momento di incredibile progresso, c’era una grande fiducia nella globalizzazione, nell’interconnessione, nel mercato globalizzato.
Qualche anno più tardi, nel 2007, Mehretu lavora a un murale, grande quanto un campo da tennis, nella sede centrale della banca Goldman Sachs, a Manhattan. L’opera, visibile anche dalla strada, viene realizzata con la collaborazione di una trentina di assistenti. Mehretu la definisce una “esplorazione dello spazio-tempo della globalizzazione”. Lo stile di Mehretu risulta particolarmente adatto a produrre una grande e potente sintesi pittorica del capitalismo finanziario, a tradurre in segni e macchie l’anima sempre più dislocata, volatile e rapida dei nuovi mercati telematici. L’astrattismo di Mehretu offre in questo caso una rappresentazione emozionante – né riconciliata, né conflittuale – dello smaterializzarsi del mondo, delle nazioni, dei mercati e della loro trasformazione in un vasto acquario risonante d’impulsi e segnali.
L’occhio di Mehretu sembra agire come un algoritmo che processa dati e immagini, ma il suo sguardo resta caldo, emotivo, umano. Da una parte ci sono calcolo ed esattezza, dall’altra foschia e atmosfera.
Dal 2010 a oggi Mehretu ha affrontato altri episodi cruciali della storia recente. I palazzi bunker di Saddam Hussein e la guerra civile siriana sono diventati fonte d’ispirazione per due opere, Chimera ed Epigraph, Damascus. In molti lavori di Mehretu le foto di cronaca vengono sfocate e modificate digitalmente o attraverso varie tecniche di stampa e incisione. L’artista sovrappone o cancella, utilizzando serigrafia, inchiostro, aerografo e pittura acrilica. Le immagini dei luoghi e della storia vengono, in un certo senso, processate, trasformate, opacizzate o sminuzzate. Fino a svanire. Da una parte l’occhio di Mehretu sembra agire come un algoritmo che processa dati e immagini; dall’altra il suo sguardo resta caldo, emotivo, umano. Da una parte ci sono calcolo ed esattezza, dall’altra foschia e atmosfera.
Mehretu conosce l’Italia da moltissimo tempo perché a suo tempo in estate il padre insegnava a Roma. Fra i ricordi delle estati romane di Mehretu, c’è un episodio che riguarda una doppia apparizione. Un giorno di molti anni fa, infatti, Julie era andata a visitare la famosa stele di Axum, il sottile e splendido obelisco di oltre venti metri di altezza, che si ergeva di fronte all’ex ministero delle colonie, poi sede della FAO, nella zona tra l’Aventino, il Circo Massimo e le Terme di Caracalla. L’elegante stele di Axum, costruita tra il I e il IV secolo A.C., era stata smontata e portata a Roma da Mussolini, nel 1937, a seguito dell’invasione dell’Etiopia. Anni dopo quel primo incontro con la stele, Julie si recherà ad Axum, per visitare la tomba del bisnonno, e lì, con sua grande sorpresa, si ritroverà di nuovo davanti all’obelisco, che il governo italiano aveva finalmente deciso di riportare in Etiopia e di restituire ai suoi luoghi d’origine.
Conversion (S.M. del Popolo/after C.) è il titolo di un altro dipinto in mostra a Venezia, realizzato fra il 2019 e il 2020. Anche in questo caso troviamo la traccia di un ricordo che porta di nuovo a Roma. Una volta finito il quadro, infatti, Mehretu racconta di aver osservato il modo in cui la luce giocava e irrompeva nel dipinto e di aver ripensato, allora, a La conversione di San Paolo, il grande quadro di Caravaggio che aveva visto un giorno entrando nella basilica di Santa Maria del Popolo. Gli sbaffi arancione e verde che balenano nel quadro ci proiettano invece nel nostro tempo e aggiungono altri indizi sulla natura dello sguardo di Mehretu e su ciò che i suoi occhi hanno via via selezionato, amato e registrato. Ricordano infatti i colori che le bombolette spray e gli aerografi hanno lasciato alla fine del Novecento sulle saracinesche dei negozi, sui muri delle città e sui vagoni delle metropolitane.