N el panorama contemporaneo, assistiamo a un paradosso: da un lato, l’Occidente si tinge sempre più di ateismo, mentre dall’altro cresce il fascino per spiritualità alternative e pratiche sciamaniche. Se da un lato il materialismo dei consumi e della tecnologia regna sovrano, dall’altro si avverte un crescente bisogno di evadere da questa gabbia. La ricerca di una “salvezza” individuale e immediata spinge molti a esplorare sentieri alternativi, spesso mescolando in maniera eclettica diverse tradizioni e rituali.
Come sottolinea Stefano De Matteis nel suo libro Gli sciamani non ci salveranno, questa ricerca di spiritualità può sfociare in un “doppio gioco” di appropriazione e banalizzazione delle pratiche sciamaniche. Da un lato, si tende a mercificarle, trasformandole in prodotti da consumare; dall’altro, le si svuota del loro significato originario, adattandole a una sensibilità occidentale spesso individualista e superficiale.
Emerge quindi la necessità di un approccio più consapevole e rispettoso di queste antiche tradizioni. Occorre evitare di ridurle a mere curiosità esotiche o a strumenti per la fuga dalla realtà. Piuttosto, dovremmo impegnarci a comprenderne la complessità e il valore intrinseco, per attingere alla loro saggezza e applicarla alla nostra vita in modo autentico e profondo.
Ho avuto la fortuna di conoscere Stefano De Matteis. Il nostro primo incontro è avvenuto tra gli scatoloni di una fiera a Più libri più liberi a Roma ed è proseguita con il lavoro fatto insieme ad altri editori per la fondazione di Odei, l’osservatorio dell’editoria indipendente che tra le altre cose ha dato vita alla fiera book pride. Oltre all’editoria e la nostra amicizia ci lega l’antropologia, quella disciplina olistica che studia l’essere umano in tutte le sue sfaccettature, dalla biologia al comportamento sociale, dalla cultura alla religione. In altre parole, l’antropologia cerca di rispondere alla domanda fondamentale: cosa significa essere umani?
Difficile da dire, sicuramente siamo esseri alla ricerca di senso. L’homo sapiens, fin dalla sua comparsa sulla Terra, ha sempre manifestato un’esigenza che va oltre la mera sopravvivenza materiale. Da sempre, infatti, l’essere umano ha avvertito il bisogno di una cultura spirituale e simbolica che desse un senso alla sua esistenza, al suo rapporto con il mondo e con l’ignoto. È proprio questa profonda necessità che ha spinto l’uomo a creare riti, miti, religioni e forme d’arte che, attraverso simboli e significati, hanno cercato di rispondere alle grandi domande universali: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Con queste riflessioni in mente, ho avuto il piacere di dialogare con Stefano.
Lo sciamano è il rappresentante di un mondo estraneo più che marginale, abile nell’oscillare tra la ricchezza dei suoi ornamenti e la povertà di un drop out, ma sempre accompagnato dal tamburo che utilizza per le pratiche magico-religiose dedicate alla guarigione o per attivare i viaggi fuori dal corpo. Nello stesso tempo, è capace di gestire la scena rituale come un attore provetto, un giocoliere o un prestidigitatore che guida a suo piacimento lo sguardo e l’attenzione dei suoi clienti-spettatori in modo da agire sulla loro emotività psicofisica e, grazie al suo grande carisma, operare su di essi per portare a termine le operazioni che gli sono state richieste: dalle guarigioni, alle protezioni, alla risoluzione di controversie sociali. Ha familiarità con l’occulto e con le trame profonde della vita, ma è anche un operatore dell’immaginario, conoscitore dei soggetti e dei contesti e, soprattutto, un grande stratega delle occasioni, per cui mai chiedergli una danza della pioggia a ferragosto…Iniziamo semplici (si fa per dire) ma essendo un dialogo tra due antropologi trovo importante chiarire almeno a tratti cosa sia lo sciamano e lo sciamanesimo.
Nel tuo libro sostieni che ci sono vari modi di essere sciamani e che molto spesso noi occidentali alla ricerca di una “salvezza” dalla via breve e individualista: attraverso un doppio processo di appropriazione e banalizzazione, mercifichiamo e riscriviamo le pratiche e le prassi sciamaniche.
Cominciamo dalla prima: le culture native sono state troppo spesso oppresse o definitivamente soppresse; oppure reinventate e riutilizzate per i “nostri” interessi. Nel libro metto a punto il concetto di contromodernità come una sorta di sistema di pensiero che ha caratterizzato o sostenuto le più orribili pratiche del potere politico e militare. Senza andare troppo lontano prendiamo un esempio ancora cocente, quello del mito della razza per come è stato utilizzato dal nazismo e dal fascismo che reggeva sulla rielaborazione di mitologie fasulle o maneggiate e su una simbolica fintamente atavica che faceva da fondamento e da alibi per le atroci azioni messe in atto. Considero anche il lavoro di uno dei classici dell’antropologia, Marcel Mauss, che nel famosissimo Saggio sul dono, sulla base di una filologia a dir poco discutibile, offre una interpretazione del pensiero nativo maori, incarnato dalle riflessioni di Tamati Ranapiri, trasformandolo in un elemento costitutivo della lunga marcia verso il progresso della modernità. È importante riflettere su questi passaggi, come ha fatto ad esempio Marshall Sahlins, per capire come il pensiero occidentale si costruisce sull’alterità nativa e come la ingloba, addomesticandola.
A ben guardare, con lo sguardo ravvicinato dall’etnografia, parliamo di cose che respirano un’area di famiglia con l’imperituro successo di Tolkien – libri, film, siti, traduzioni… – oppure con la diffusione capillare e più recente del maghetto Harry Potter inventato dalla Rowling. Potremmo anche aggiungere che tutto questo si impasta con i consumi e le abitudini attuali che viaggiano sui binari privilegiati, e anche costosi, del naturismo, dell’esaltazione del bio, fino al trionfo dei masterchef vegani… che comunque porta lontano dall’occidente, visto come insufficiente a rispondere le domande dell’oggi, e che spinge a cercare forme di spiritualità alternative, a restare affascinati da religioni fai da te, quasi tutte rette sulla centralità dell’individuo, perdendo di vista il contesto e la ramificazione sociale e culturale che le circonda. È interessante sottolineare che parliamo di una mercificazione occidentale che si regge sulla negazione dell’Occidente: è la nuova strategia del potere tardo capitalista che vende e divora se stesso.
A tutto questo segue l’ultimo passaggio: le culture native continuano a parlarci e a dirci altro: il caso di Tamati Ranapiri prima citato è ancora una volta significativo. Il vecchio saggio tiene a sottolineare che il pensiero maori si regge su alcune questioni fondamentali: dalla natura non si può solo prendere, non è un pozzo senza fondo, così come è considerata dall’Occidente, ma una fonte inestimabile che va non solo curata e custodita ma anche alimentata con pratiche di protezione e di restituzione. E poi, altra cosa fondamentale, il circuito degli scambi tra le persone non può essere retto dalla regola dello sfruttamento: nessuno può arricchirsi sulle spalle di altri uomini. Si capisce facilmente che elaborazioni come queste sono state o obliate o rielaborate, “alleggerite” in formule sottoposte a profilassi che funzionassero bene per l’Occidente.
Però mi viene da citare il nostro collega e per me maestro James Clifford che dice che di fatto tutto è il frutto di una continua ibridazione e che la purezza di ogni modello culturale è una finzione, tu come ti poni nella relazione tra sincretismo e appropriazione? Sono due cose bene diverse dal mio punto di vista.
Clifford pone questioni molto serie agli antropologi, che ci obbligano a guardare da vicino e, nello stesso tempo, a studiare ramificazioni, variazioni e declinazioni. Su base comparativa. È vero che tutto si regge su un fondamentale scambio performativo, ed è quello su cui lavoro da tempo, applicandolo alle culture popolari, alle forme religiose, ai processi di globalizzazione. Lo sappiamo bene: i frutti puri impazziscono. Ma tutti questi processi non dobbiamo confonderli con una sorta di melting pot, di brodo culturale dove tutto si mescola e di cui si perdono le tracce… Al contrario il mondo è pieno di “frizioni”, come dice la Tsing, i processi trasformativi producono o nascono da conflitti: per anni la vecchia antropologia ha letto il mondo come un sistema di processi prescrittivi, ha immaginato che le società modellassero e “producessero” secondo schemi prestabiliti; oggi sappiamo che le capacità performative delle donne e degli uomini sono un dato imprescindibile. Per parafrasare un famoso libro, non esiste solo “il pensiero selvaggio”, esiste anche la strategia dei “selvaggi”.
La particolarità dello sciamanesimo che ho incontrato in Italia sta nel fatto che offre una via di salvezza dagli orrori del mondo unicamente nell’affermazione del Sé, nelle strategie individuali di miglioramento e nell’esaltazione di un individualismo che non si confronta con l’altro, vicino o lontano che sia. Che non mette in atto nessuna pratica collettiva e condivisa…Perché gli sciamani non ci salveranno? Forse perché nel modo in cui “noi” rileggiamo lo sciamanesimo (depolicitizzandolo) diventa totalmente digeribile nella società del tardo capitalismo che ci opprime quotidianamente?
Si tratta di un atteggiamento che oggi è rafforzato dal turismo etnico, che ha preso il posto degli zoo umani di un tempo: una volta le esposizioni universali importavano forme di vita “altre” per mostrarle ai benestanti-benpensanti in modo che la loro superiorità venisse confermata a colpo d’occhio. Oggi si paga per andare a vederli “a casa loro”: una frase che evoca la peggiore politica degli ultimi anni. Mi riferisco a un fenomeno che ha una portata culturale molto ampia: non è un caso che gli sciamanic tour siano richiestissimi. In un mondo di piccola borghesia diffusa, di livello culturale mediocre ma con discrete disponibilità economiche, ci si distingue dalle “masse” che vanno a Sharm el-Sheikh, scegliendo mete “culturali”, i Dogon o gli sciamani, tanto che differenza c’è? Il mondo oggi è uno zapping vissuto in presa diretta. E poi, come se non bastasse, a queste forme di esistenza unitamente alla parola vengono tolti i contenuti. Inoltre tutto ciò che c’è di cruento, di violento, di sacrificale è epurato. “Selvaggi” sì, ma educati!
Il tuo libro però non è solo sul nuovo sciamanesimo… ma anche una critica all’occidente capitalista alla deriva… ho capito male?
L’idea di un uomo non separato dall’ambiente, ma immerso in esso e in relazione con le soggettività che lo circondano, apre a una visione olistica del mondo. In questa prospettiva, l’essere umano non è un dominatore della natura, ma un membro interconnesso di una rete di relazioni. Come ci ricorda Lévi-Strauss, le società indigene ci offrono un esempio di questa relazione simbiotica con l’ambiente. Un indio dell’Amazzonia, ad esempio, possiede una conoscenza vasta della flora e della fauna che lo circonda. Egli è in grado di identificare migliaia di specie vegetali e di spiegarne l’utilizzo medicinale, alimentare o rituale, come incrementatore dell’attenzione e delle visioni. Questa profonda conoscenza deriva da un’interazione diretta e quotidiana con la natura. L’indigeno non separa sé stesso dal mondo che lo circonda, ma si percepisce come parte integrante di esso.
In questa visione olistica, la dicotomia uomo-natura non esiste: l’uomo è natura e la natura è uomo. Le culture indigene possono insegnarci molto su come vivere in armonia con la natura. La loro conoscenza profonda dell’ambiente e il loro rispetto per tutte le forme di vita possono essere una fonte di ispirazione per costruire un futuro più sostenibile e rispettoso del pianeta. La visione olistica dell’uomo e dell’ambiente ci invita a ripensare il nostro rapporto con la natura. In un mondo dominato dalla tecnologia e dall’antropocentrismo, riscoprire la nostra interconnessione con il pianeta è fondamentale per costruire un futuro più equilibrato e armonioso.
Il primo: quasi tutte le società tradizionali hanno incarnato un rapporto di conoscenza e anche d’uso con il mondo circostante, con l’ambiente che gli sta intorno, retto da conoscenze tramandate ripensate grazie a nuove sperimentazioni, che vengono diffuse grazie alla comunicazione orale. Anche da noi un tempo era così: l’Italia fino alla seconda guerra mondiale era un paese contadino e affamato. Personalmente vengo da una famiglia povera e mia nonna materna, che non ho conosciuto, era nativa delle campagne dell’area vesuviana e aveva “passato” alla figlia un sapere fatto di rimedi e di cure naturali. Ad esempio quando qualcuno aveva mal di denti, non potendoci permettere il dentista, mia madre preparava impacchi con foglie di scarola bollita che forse, grazie al potassio e alla vitamina A, alleviavano il dolore anche se non avevano una funzione curativa. Erano tanti i rimedi casalinghi, alla portata di tutti. Molti di questi avevano una funzione anche preventiva: ad esempio con la fine dell’inverno il corpo era considerato come un ricettacolo grassi dovuto ai cibi invernali, andava quindi “pulito” per affrontare la “stagione”, cioè l’estate, e quindi maggio era il mese delle purghe e dei digiuni…
In più c’è un aspetto pratico, del saper fare, di quello che Lévi-Strauss chiama “bricolage”, come se ogni indio fosse un principiante geniale che sa trattare la materia della foresta o delle praterie.
Attualmente sto riflettendo molto sugli scritti di Simone Weil che ha elaborato, secondo me, una straordinaria antropologia. Anche a riguardo di questi temi dice cose fondamentali: muove da un presupposto indiscutibile quello, secondo cui, “la vita sarà tanto meno inumana quanto più grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire”. Ecco: pensare ed agire. Che nei mondi tradizionali, lontani o vicini, sono collegati e che non devono rappresentare un’esclusiva per dei tecnici selezionati, ma dovrebbero riguardare tutti i componenti dei sistemi sociali. Infatti, aggiunge Weil, “il tipo più bello di lavoratore cosciente che sia apparso nella storia è l’operaio qualificato”. Chi diventa un esperto, gestisce un sapere, è quel principiante geniale, come tu dici, che sa trattare con competenza una materia, anche se questa non è più quella delle foreste, ma della vita delle società avanzate.
L’importanza del lavoro manuale diventa un discorso essenziale, anche perché nel suo ragionamento la Weil mette in atto un ribaltamento dei ruoli: ci spiega che non importa ciò che l’uomo produce, ribadisce che il lavoro manuale deve sì diventare il valore supremo, ma non certo per ciò che produce “bensì per il suo rapporto con l’uomo che lo esegue”. Ritorna ad essere fondamentale la dimensione umana che caratterizza le nostre azioni e costruisce il nostro fare. E, proprio in questo, torna a mettere al centro l’importanza del pensiero che nasce e vive collegato all’azione: la riflessione è un “obbligo”, che ci permette di costruire “maggiori possibilità di controllo sull’insieme della vita collettiva”, il tutto con l’obbiettivo finale di raggiungere una “maggiore indipendenza”.
In questa pratica del fare e dell’agire, in contesti come quelli cui ci stiamo riferendo, possono più facilmente prendere corpo capacità sciamaniche? Lo sciamanesimo è intrinsecamente legato alla natura. Immergersi in ambienti naturali selvaggi e “incontaminati” permette di connettersi con le energie e gli spiriti che li abitano, favorendo l’apertura a stati di coscienza sciamanica. Come sai e descrivi, molte pratiche sciamaniche includono danze, canti e rituali che richiedono movimento fisico e ripetizione. Questi atti possono facilitare l’entrata in trance, uno stato di coscienza alterato in cui è possibile accedere a mondi spirituali e dialogare con le entità che li abitano.
Spesso, se non sempre, lo sciamano si avvale di una profonda conoscenza del mondo naturale e di una sviluppata sensibilità percettiva. L’immersione in contesti selvaggi permette di affinare l’acuità sensoriale, aprendo la percezione a dimensioni sottili e invisibili. Di fatto affrontare le sfide fisiche e psicologiche che si presentano in contesti selvaggi può contribuire a rafforzare la resistenza mentale e fisica, qualità indispensabili per uno sciamano. Spesso, le pratiche sciamaniche si svolgono all’interno di comunità di apprendimento e condivisione. La connessione con altri praticanti e la guida di un maestro esperto possono facilitare lo sviluppo delle capacità sciamaniche…
Ma, a parte questo, bisogna ragionare ancora su di un altro aspetto: mia madre aveva sì ereditato da mia nonna delle conoscenze tradizionali, ma questo non faceva di lei una fattucchiera o una medicine woman, una donna medicina, come si usa dire oggi. Non basta il sapere generico a trasformare una persona in una figura importante e imponente come uno sciamano. C’è bisogno di un processo di riconoscimento, che è incastrato in un una costellazione culturale ben precisa e che spesso si realizza grazie a un sistema rituale spesso complicato, si rifà a mitologie condivise che permette ai soggetti di raggiungere il punto massimo nella legittimazione che sta nella condivisione pubblica dell’autorità sociale e culturale che gli viene riconosciuto. Da questo punto di vista è necessario rileggere il famoso dialogo tra l’antropologo Victor Turner e Muchona detto il Calabrone, per entrare nel vivo delle relazioni, e vedere il tutto dalla doppia prospettiva emica (il punto di vista degli attori sociali) ed etica (quello del ricercatore), secondo lo schema elaborato da Kenneth Piche.