“P ensavo potessimo aiutarci a vicenda. Ma questa è una gara”, piagnucola Spencer, l’ingegnere informatico, il concorrente 299, responsabile dell’eliminazione dei suoi compagni in seguito a un errore di valutazione. “Per Dio… Smettila di piangere,” lo rimprovera Brighton, il cinico atleta universitario, “la compassione è da deboli”. Ma Spencer, il timorato di Dio, finisce persino per vomitare mentre i biscotti al caramello e le mini cariche esplosive diventano emblemi di una disastrosa sconfitta. Le prime sequenze di Squid Game – The Challenge non hanno conquistato la Gen Z, che il novembre scorso, su TikTok, ha accolto con tiepido entusiasmo i primi cinque episodi, ritenendoli non all’altezza di quanto visto nella serie del 2021. Tuttavia, The Challenge non è la seconda stagione della serie Netflix, ma il ritorno del reality show sul palcoscenico digitale con una gara vera – britannica – ispirata alla fiction coreana.
Il divino assume la forma di un enorme salvadanaio sferico, il cui vuoto si riempie con la pioggia di mazzette da diecimila dollari.
Sul set allucinatorio dominato dalla imponente bambola Younghee, il Lacrimosa di Mozart e la voce di Nat King Cole accompagnano le tute verde acqua, numerate dall’1 al 456, mentre si agitano durante l’incedere di “Semaforo rosso, semaforo verde”, una versione di “Un, due, tre… Stella!” al cardiopalma. Il divino assume la forma di un enorme salvadanaio sferico, il cui vuoto si riempie con la pioggia di mazzette da diecimila dollari: l’enorme sfera di plastica è il centro di un microcosmo di sofferenza e gioia, è un punto di fuga estatico, l’ossatura di una sinistra sinfonia tessuta dalle scelte umane.
A differenza del dramma coreano che ispira il tutto, in The Challenge i concorrenti non combattono per emergere da un debito finanziario ma per sfuggire alla monotonia dei lavori “normali”, come Lorenzo, l’italiano a Londra in cerca di una vita fuori dalle regole aziendali. Esperire temporaneamente cosa voglia dire vivere autenticamente – fuggire la noia – sentire la pressione di un’esperienza-limite che sia quanto più vicina alla paura della morte. Ma ironicamente, il reality ha in parte dato loro l’opposto di ciò che desideravano. Quando sono comparse le notizie relative alla brutalità delle riprese del reality, i debunker hanno subito pensato a una cinica quanto scontata strategia di marketing. Ma dopo aver letto le interviste di alcuni dei concorrenti si ha la sensazione che se Netflix decidesse di divulgare l’intero girato otterrebbe uno spettacolo molto più disturbante della noia infinita trasmessa in The Challenge.
I figli della società del benessere sono stati costretti a esperire la realtà che devono sobbarcarsi tre miliardi di persone in condizioni di povertà.
Rimanere a lungo immobili nella stessa posizione, in spazi giganteschi, inospitali e inumani, al freddo, con cibo scadente, dovendo compiere gli stessi gesti più e più volte. I figli della società del benessere, invece di calarsi nei panni degli ultimi per un paio d’ore, sono stati costretti, per oltre sette ore e con pose da 10 a 15 minuti ciascuna fino a circa 26 minuti, a esperire le sofferenze di un qualsiasi lavoro usurante, cioè la realtà che devono sobbarcarsi tre miliardi di persone in condizioni di povertà per ottenere la chance di rimanere a galla e non morire. “Questo gioco ha smesso di essere divertente, e non aveva più rispetto delle persone di una certa età”, leggiamo nelle interviste di alcuni survivors. “Immaginate di giocare (…) per sei ore (…). Non è un gioco. Si perde tutto il divertimento. Non si può chiedere alle persone di stare immobili al gelo indossando solo una tuta e due paia di calzini. Suvvia”.
I concorrenti del reality sono molto più simili ai VIP di Squid Game. Nella storia di Hwang Dong-Hyuk, è un gruppo transnazionale di miliardari, i VIP, a organizzare il gioco allo scopo di evadere da una noiosa e opulenta routine. I super ricchi che scommettono sui concorrenti del gioco sono uomini condannati al tedio della condizione animale, come simboleggiato dalle maschere ferine che cela la loro identità.
Nella realtà dominata dal pessimismo capitalista, la noia rende animali sia i carnefici che le vittime.
I VIP concepiscono lo Squid Game come una benedizione non solo per loro ma anche per i concorrenti, i rifiuti della società, in qualche modo la loro stessa ombra, perché permette loro di ottenere una liberazione dalla stessa noia da cui loro vogliono evadere. Nella realtà dominata dal pessimismo capitalista, la noia rende animali sia i carnefici che le vittime ed è solo un gioco in cui è possibile morire o diventare ricchissimi il mezzo per sentirsi vivi, umani. La serie sudcoreana appartiene a un genere che ha storicamente criticato i media e l’intrattenimento, il survival death game.
L’idea che dietro l’intrattenimento vi sia qualcosa di perverso e che i media funzionino da distrazione per il lavoratore e anestetico per tollerare è centrale in Battle Royale, il romanzo giapponese di Koushun Takami, un vero e proprio tripudio gore di violenza visiva. Nel libro, un governo autoritario, La Grande Repubblica dell’Asia Orientale, sorteggia ogni anno una classe delle medie per condurla su un’isola in cui vengono costretti ad ammazzarsi in diretta nazionale. L’unico vincitore viene celebrato come un eroe al suo ritorno. Nella serie di Hwang Dong-Hyuk non esiste un governo distopico e lo Squid Game non è una sorta di deviata istituzione per disciplinare la popolazione: si distacca dunque dal gusto del pubblico giapponese per un elemento caratteristico di opere come Battle Royale, proponendo una visione piatta della disuguaglianza sociale che risulta più simile ad Hunger Games, la serie letteraria di Suzanne Collins.
Stephen King è stato probabilmente il primo autore ad articolare nel genere survival game sia la critica alla diseguaglianza economica che al mezzo televisivo, criticando nello specifico la pornografia voyerista del reality show.
Non è secondario che Hwang Dong-Hyuk sacrifichi la critica ai media: il survival a cui prendono parte i protagonisti non viene trasmesso pubblicamente – come invece accade nei precedenti del genere – ed è fruibile soltanto agli organizzatori. Nei survival sono sempre dei governi autoritari a organizzare questi giochi truculenti per spettacolarizzare la punizione del dissenso, come in L’uomo in fuga, il romanzo in cui Stephen King immagina una società con una povertà diffusa, in cui le persone sono costrette a prendere parte a reality e concorsi a premi in cui si muore per davvero, essendo la partecipazione a uno di questi show televisivi l’unica possibilità di sobbarcarsi le spese mediche, ad esempio. King è stato probabilmente il primo autore ad articolare nel genere survival game sia la critica alla diseguaglianza economica che al mezzo televisivo, criticando nello specifico la pornografia voyerista del reality show. L’Uomo in fuga scandaglia i media come anestetici dell’empatia. Più lo spettatore viene nutrito con la violenza profilattica dei media, più diventa insensibile alla violenza reale. Per superare l’assuefazione degli spettatori l’intrattenimento si vede costretta a sostituire alla rappresentazione la realtà, dovendo intensificare l’esposizione mediatica alla violenza. I concorrenti – aspiranti sicari e prede umane – non stanno “giocando”, le loro azioni dentro il programma TV hanno delle conseguenze reali, in esso le persone muoiono sul serio. In L’Uomo in fuga la finzione mediatica è giunta a negare se stessa.
Nella distopia brandizzata da Netflix, il survival parla come le opere distopiche ma è in realtà parte dello spirito sul quale L’Uomo in fuga voleva metterci in guardia.
Anche in The Challenge siamo al cospetto della celebrazione di un’idea di successo che deve passare prima per una forma di sacrificio pubblico che oscilla tra l’umiliazione e il puro masochismo. Successo e sopravvivenza, si specchiano, essendo proiezioni di una semplice equazione: sopravvivere oggi significa poter ripagare i propri debiti, vivere pienamente vuol dire invece prevalere, lasciandosi dietro una scia di morti sociali. Nella distopia brandizzata da Netflix, il survival parla come le opere distopiche ma è in realtà parte dello spirito sul quale L’Uomo in fuga voleva metterci in guardia. Pur riconoscendo la totale assenza di morale del gioco, il concorrente di The Challenge, che è anche un fan di Squid Game, ritiene il gioco più equo della società in cui vive, concordando pertanto con l’ideologia generale della serie, che presenta il gioco come un microuniverso dove ognuno è uguale all’altro e non può ottenere alcun vantaggio, né formare vere alleanze per superare le sfide, a differenza di ciò che accade nella vita di tutti i giorni, dove il gioco del quotidiano è ricco di imbroglioni e furbi che si avvantaggiano di alleanze segrete e intrecciano relazioni corporative.
Le intenzioni di Hwang Dong-Hyuk si ispirano a storie poco popolari in occidente come quelle di manga come As God Will e Liar Game, da cui il regista coreano prende l’idea di un gioco mortale che ha a che fare con i debiti delle persone e che viene retoricamente utilizzato come un’allegoria atta a rendere visibile la realtà della Corea del Sud, dove la classe dei super-ricchi mantiene la propria ricchezza rendendo sempre più complicata la vita delle moltitudini meno abbienti.
I partecipanti del reality vogliono incarnare pienamente l’ethos del gioco originale, accettando la logica perversa della sua economia.
Contrariamente a qualsiasi altra storia del genere survival death game, in Liar Game il gioco non è il sadico divertimento di un gruppo di milionari in giacca e cravatta ma il cinico tentativo di un gruppo di hacker rivoluzionari anonimi che vuole divulgare le immagini delle sfide come documentario verità sulla natura perversa della società. Se nella serie Hwang Dong-Hyuk la componente politica sovversiva di Liar Game è solo vagamente accennata in The Challenge è scomparsa totalmente, al punto che, come il Front Man dello Squid Game originale, che è un concorrente della precedente edizione, i partecipanti del reality non si immedesimano con Gi-Hun ma vogliono incarnare pienamente l’ethos del gioco originale, accettando la logica perversa della sua economia. Se alla fine del serial coreano ci troviamo davanti a una morale stucchevole che inaridisce la genuina provocazione del survival death game, il reality di Netflix può essere letto come la deriva della distopia verso la teodicea dello status quo. The Challenge ci dice che viviamo in una società ingiusta, dove se falliamo è colpa nostra, colpa della nostra ingenuità o della nostra eccessiva empatia – come Gi-Hun il protagonista di Squid Game, padre squattrinato e marito divorziato, che non rifiuta quando può di aiutare il prossimo.
Lo streaming a pagamento vuole sfruttare come una miniera la depressione temporale in cui è scomparso il futuro.
Scrivendo delle derive “californiane” della narrativa sci-fi attraverso l’analisi delle ultime stagioni Netflix di Black Mirror, volevo evidenziare come la fantascienza mainstream stia diventando la pubblicità dell’ideologia di Palo Alto e del capitalismo libertario delle e-corporation. Scrivevo ironicamente che “L’attualità, dominata dagli algoritmi stratificati” – gli algoritmi di deep learning usano strati multipli per estrarre progressivamente informazioni di alto livello dai dati di input – “e dalla tecno-magia della Silicon Valley, è già terribilmente spaventosa ma lo diventerà ancora di più se a produrre le narrazioni sci-fi del futuro saranno colossi come Netflix”, e oggi, con The Challenge, è evidente che questo momento sia una realtà indiscutibile.
Lo streaming a pagamento vuole sfruttare come una miniera la depressione temporale in cui è scomparso il futuro. È come se la distopia Netflix volesse ricreare nella psiche dello spettatore un prosieguo delle misure di contenimento adottate dai governi durante la pandemia Covid. Non bisogna dimenticare che Squid Game e la stessa Netflix hanno beneficiato delle paranoie e dei nuovi stili di vita determinati dalla pandemia. Il successo del reality e di serie come Squid Game, più che dall’appeal del reality show, dipende dal lavorio sotterraneo di format assolutamente privi di creatività come i lunghissimi gameplay, che hanno abituato il pubblico a guardare altre persone giocare, modalità di fruizione compulsiva di contenuti che è esplosa con la quarantena, dove lo schermo è diventata l’unica superficie di esperienza del mondo.
Oggi il protagonista delle storie è l’uomo visibile, una variante dell’uomo comune, i cui occhi sono costantemente velati dalla telecamera dei dispositivi hi-tech con cui esperisce la realtà.
Oggi il protagonista delle storie è l’uomo visibile, una variante dell’uomo comune, i cui occhi sono costantemente velati dalla telecamera dei dispositivi hi-tech con cui esperisce la realtà – per questo su TikTok gli utenti hanno potuto confondere il reality con la seconda stagione della serie. Nell’intrattenimento diventa centrale un nuovo tipo di pubblico, il meta-pubblico degli spett-attori, la marea di adolescenti tardivi, a cui vendere un immaginario standardizzato, che produca nuova merce per il cosplaying nel costante avvicinamento della finzione alla realtà. La fauna mediatica di The Challenge non vuole più solo ascoltare e vedere storie, ma viverle in prima persona, esperirle come simulazioni reali.
Quest’uomo senza altri attributi se non la propria immagine è condannato dalla sua condizione di privilegio alla visibilità, a essere costantemente deposto tra le mani dell’Altro, che egli vuole compiacere, soddisfare e da cui pretende di essere adulato. Quest’uomo non è più un soggetto del suo piacere ma un oggetto nelle mani dell’Altro, in questo caso le produzioni che si nascondono dietro format come The Challenge. L’uomo visibile è sempre sull’orlo di precipitare nella maggioranza meno abbiente. Restare in bilico – né ricco, né povero – più povero del protagonista anonimo di Invisible Man di Ralph Waldo Ellison, che era identificato dal colore nero della propria pelle, dal passato di schiavitù dei suoi avi e dalle 1693 lampadine riposte nel buco in cui si è costretto a vivere. Queste caratteristiche che rappresentano la cifra della sua condizione di emarginato, sono anche le fondamenta su cui la maschera di Ellison può edificare la sua identità e realizzare la sua condizione di invisibilità. L’uomo visibile non ha nulla a cui aggrapparsi, la sua visibilità è un velo che copre il nulla.
L’uomo invisibile, maschera dello stesso Ellison, ha dovuto scoprire lungo il corso della sua vita e a sue spese il segreto della sovranità politica, la capacità del potere di produrre umani, che seppur vivi è come se non lo fossero. Egli, in quanto “nero”, prende atto dopo l’adolescenza e la giovinezza, di essere invisibile – “Ero e tuttavia non ero visto” – è come se i bianchi fossero ciechi e incapaci di percepire la sua figura almeno fintantoché non avesse dato sfogo alla sua rabbia e alla sua animalità.Gli invisibili vengono percepiti dalle classi benestanti solo quando si rendono protagonisti tra i fasti dello spettacolo, che risalta la brutalità della vita dei diseredati del debito al fine di trarne godimento esotico per il pubblico dell’intrattenimento. L’uomo visibile è così il genuino abitante della borgata, sempre in bilico tra legalità e illegalità, oppure è il narcisista psicopatico nelle cui gesta la classe abbiente intravede il riflesso del proprio sadismo. Gli ultimi, gli invisibili della società del debito, non hanno altre determinazioni se non il marchio d’infamia con cui circolano nello spazio pubblico, sono NPC di cui si attende il glitch che ne risalti la bizzarria.
Solo rimanendo al loro posto i neri americani avrebbero potuto sperare di raggiungere la parità dei diritti.
Il giorno della sua laurea, la maschera di Ellison aveva tenuto un’orazione in cui eleggeva l’umiltà a essenza stessa del progresso. Solo rimanendo al loro posto i neri americani avrebbero potuto sperare di raggiungere la parità dei diritti. “Fu un grande successo. Mi lodarono tutti e mi invitarono a tenere quel discorso durante una riunione dei bianchi importanti della città. Fu un trionfo per la nostra comunità tutta”. In Ellison ‘i poteri forti’ non hanno un connotato mitologico. “C’erano tutti i pezzi grossi della città” e non appena entrato, viene subito invitato al ‘battle royal match’ tra alcuni compagni di scuola, “prevista come parte dell’intrattenimento”. Il primo Battle Royal della letteratura è la sadica trovata di un gruppo di bianchi e ricchi statunitensi ai danni di un nutrito gruppo di studenti afroamericani, costretti a uno scontro all’ultimo sangue sul ring, nudi e bendati. Alla fine dell’incontro, il protagonista perde con il possente vincitore e dopo l’umiliante raccolta del denaro da un tappetino elettrificato, gli viene finalmente concesso di recitare la sua orazione sull’umiltà come virtù imprescindibile per la conquista dei diritti civili. Egli riceverà sì una borsa di studio per una prestigiosa facoltà per soli neri ma dopo la fine del suo percorso scolastico scoprirà che le lettere di raccomandazione ottenute dai professori sconsigliavano la sua assunzione in qualsiasi posizione lavorativa. Sarà in quella e in numerose altre occasioni che ricorderà in maniera nitida ma ancora senza comprenderla, la maledizione che il nonno aveva scagliato sulla sua famiglia prima di spirare. Il vecchio si era rivolto al padre del protagonista e agli altri uomini della famiglia con queste parole: “Non te l’ho mai detto ma la nostra vita è una guerra e per tutti i miei santi giorni io sono stato un traditore, una spia nel campo nemico fin da quando gettai via il mio fucile, all’epoca della Ricostruzione.”
Il condizionamento disciplinare si trasforma in una sorta di sindrome di Stoccolma che affligge non solo le comunità afroamericane tacciate di collaborazionismo con i bianchi, ma anche i Nazionalisti neri.
A ogni nuovo successo nella società dei bianchi, il protagonista ripensava agli strali del nonno: “Devi vivere con la testa nella bocca del leone. Voglio che (…) li porti a morte e distruzione a forza di consensi, che ti lasci ingoiare da loro fino a farli vomitare o scoppiare”, e si sentiva in colpa e a disagio. “Sembrava che stessi seguendo il suo consiglio mio malgrado. E a peggiorare le cose c’era il fatto che ero amato da tutti per questo. Mi lodavano gli uomini più bianchi della città, quelli proprio immacolati. Ero considerato un modello di condotta, proprio com’era stato mio nonno”. Il condizionamento disciplinare si trasforma in una sorta di sindrome di Stoccolma che affligge non solo le comunità afroamericane tacciate di collaborazionismo con i bianchi, come la Confraternita del romanzo, ma anche i Nazionalisti neri, fondamentalisti che nella loro cecità e ricerca della purezza si rivelano formazioni incapaci di liberare alcunchè visto che sono rallentate dalle catene del rancore, che li lasciano agire come i loro persecutori e nemici.
Decenni avanti rispetto alla battle royal, il protagonista sarà costretto a rivivere lo stesso trauma a causa della rivolta finale che vedrà contrapporsi proprio le due formazioni politiche che sono stati luoghi schizofrenici della sua formazione come afroamericano discendente di schiavi, unito e disunito ai bianchi come le dita in una mano. Quel momento animalesco che aveva fatto da battesimo del sangue al suo ingresso in società, ritornava adesso come costante della condizione subalterna, avvelenata dall’odio e dall’amore che si covano per i propri carnefici. In Invisible Man non è la noia a trasfigurare gli uomini in bestie, come in Squid Game, ma la rabbia e la fedeltà, segno di come vi siano due modalità di essere animale: la bestia domata e la bestia selvaggia. Il survival ha poi scelto di inscenare la seconda via di metamorfosi, il concorrente a differenza degli altri trova la propria bestia feroce e riesce a uscire dagli schemi del gioco. Oggi Squid Game e ancor più The Challenge ci suggeriscono di essere animali obbedienti, ligi alla legge del padrone che non deve più ricorrere né alla frusta né alla zolletta di zucchero per ottenere sottomissione. Come in Squid Game, in Invisible Man non ci sono governi totalitari, né concorrenti obbligati dalla loro indigenza a partecipare a crudi e futuristici reality show dove si muore sul serio. L’uomo invisibile è uno strano doppio dell’omonimo libro di H.G Wells; non siamo nell’ambito della fantascienza: in Ellison il superpotere del protagonista non è una metafora ma una condizione reale di minorità in un paese occidentale, quello che per molti è stato – ed è – il paradiso delle opportunità.