W asim Dahmash è nato a Damasco nel 1948, l’anno che segna un prima e un dopo nella vita di tutti i palestinesi e che coincide con l’espulsione forzata dalle loro terre (nakba). Anche la famiglia di Wasim, originaria di Lydda, dopo l’assedio della città, dovette fuggire verso la Siria. Sua madre, che scappando era rimasta ferita, iniziò la marcia con una pallottola nella gamba e un figlio in grembo. Arrivata a Damasco, passando per Amman, in ospedale le dissero che estrarre la pallottola avrebbe comportato la perdita del feto. Lei rifiutò di farsi operare, così dopo qualche mese partorì Wasim e la pallottola continuò a restare nel suo corpo per altri 25 anni. “Sono stato colpito prima ancora di nascere” dice Wasim con un mezzo sorriso, mentre versa il caffè nel salotto del suo appartamento romano.
La casa in cui ci troviamo è anche la sede delle Edizioni Q, che ha co-fondato nel 1999 a Roma, dopo oltre trent’anni di vita in Italia. L’Italia, racconta Wasim, lo ha accompagnato sin da bambino: a Damasco, nel quartiere in cui viveva chiamato “T’liani” per la presenza di una comunità italiana che vi si era stabilita a partire dal Cinquecento, e poi nelle cartoline che i suoi fratelli più grandi gli mandavano da Napoli, Genova, Venezia, dove facevano scalo le navi dirette in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Com’è stata l’infanzia di un rifugiato palestinese in Siria? “Io ho avuto il privilegio di non vivere da profugo, ma di appartenere a una certa classe sociale, e questo ovviamente ha fatto la differenza”. Dopo la nakba, infatti, buona parte delle persone in fuga dalla Palestina si concentrò attorno ai campi profughi gestiti dall’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi), in attesa di poter tornare alle loro case. “Ho conosciuto i campi profughi da bambino, mia madre mi portava con sé quando, insieme ad altre donne palestinesi e siriane, andava a distribuire vestiti, cibo, medicine; ricordo che ci arrivavamo con una carrozza a cavalli, che al tempo si usava come taxi, io venivo lasciato a giocare in uno stanzone pieno di altri bambini e mi divertivo molto”.
A scuola, poi, l’incontro con un professore, che “ci spiegava cos’era il Rinascimento e la poesia rinascimentale, cose che in genere non si trattavano a scuola, per noi molto lontane ma anche affascinanti…”. Fu così che, al momento di scegliere dove proseguire gli studi, la scelta ricadde sull’Italia, dove arrivò nel 1966 dopo un lungo viaggio in treno passando per Istanbul, Salonicco, Sofia, Belgrado, con in tasca un documento siriano per profughi palestinesi “che non si sapeva bene cosa fosse, ma a quel tempo anche in Europa i confini erano diversi da oggi”.
Come per tutti gli studenti internazionali che venivano a studiare in Italia in quegli anni, la prima tappa obbligata fu Perugia, sede dell’Università per Stranieri, dove bisognava passare un esame di lingua italiana per potersi iscrivere alle altre facoltà.
“Perugia era una città molto diversa da come è oggi; al tempo si sentiva che l’Italia era ancora un paese povero, la cosa che mi colpì era la miseria, io pensavo di venire in un paese un pochino più ricco della Siria, invece le strade erano sporche, soprattutto di escrementi di cane, le donne vestite tutte di nero, anche le ragazzine… poi molte donne avevano i baffi. Un mondo per me molto diverso”. A Perugia conobbe altri palestinesi della diaspora: studenti come lui, che in quegli anni erano una presenza ancora esigua, perlopiù figli della borghesia agiata che, non a caso, nota Wasim, studiavano Belle Arti o altre materie “non produttive” e che formavano dei piccoli nuclei tra Roma, Venezia, Firenze e ovviamente Perugia.
“Mentre ero lì ho conosciuto un palestinese che mi disse: Tu sei il venticinquesimo palestinese che arriva, possiamo fondare il Gups”, Wasim accettò e versò le duemila lire per l’iscrizione. Gups è la sigla di General Union of Palestinian Students, un’organizzazione sindacale, studentesca e politica, che intendeva difendere i diritti e migliorare le condizioni di vita degli studenti palestinesi nella diaspora, rafforzare i legami tra questi e gli altri studenti internazionali, in particolare quelli provenienti dai Sud del mondo, e allo stesso tempo far conoscere la questione palestinese, esserne il megafono, organizzando dibattiti, incontri, mostre e diffondendo materiale informativo.
“Se ero politicizzato prima di entrare nel Gups? Un po’. Allora nelle scuole si militava in qualcosa. Io non in un partito specifico, ma già alle scuole medie, a Damasco, fui cooptato dai militanti del Movimento dei Nazionalisti Arabi (Mna) con cui nel ‘61 andavo a tirare i sassi all’ambasciata statunitense in solidarietà a Cuba e a prendere le botte dai poliziotti”.
Attraverso il Gups gli studenti palestinesi parteciparono attivamente al “lungo Sessantotto” italiano, diventando un tramite tra la Resistenza palestinese in corso e le contro-culture politiche europee in fermento. “Il 1969 per i palestinesi in Italia fu un’occasione per organizzare conferenze, mostre… In quegli anni abbiamo fatto assemblee anche con cinquecento persone, come all’università di Torino; a Milano sono pure stato picchiato dai fascisti per la strada…”. L’Italia offriva un contesto curioso e aperto alla questione palestinese, che cominciava ad imporsi nel dibattito pubblico internazionale, in particolare dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967. A quel tempo, partiti e sindacati della sinistra istituzionale, così come i movimenti politici extraparlamentari, riempivano le piazze in nome della solidarietà con la Palestina, offrivano aiuti ai profughi e collaboravano con le forze politiche palestinesi. La lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese si inseriva a pieno titolo tra le rivoluzioni anti-imperialiste accanto a quelle di Cina, Cuba, Algeria e Vietnam, che animavano la causa internazionalista, contro il razzismo e l’imperialismo dell’Occidente.
Gli studenti palestinesi parteciparono attivamente al “lungo Sessantotto” italiano, diventando un tramite tra la Resistenza palestinese e le contro-culture europee.
Nel 1969 usciva il primo numero della rivista Rivoluzione palestinese, organo di informazione del Comitato Italiano di Solidarietà con il Popolo della Palestina, fondato l’anno precedente grazie all’iniziativa di un trentenne palestinese che viveva a Roma, Wael Zuaiter. Grande appassionato di musica lirica, comunista, cronicamente squattrinato, Wael era arrivato in Italia nel ‘62 dove si manteneva facendo l’interprete, entrando progressivamente in contatto con gli ambienti artistici e letterari italiani, diventando amico anche di Alberto Moravia, che conobbe come vicino di poltrona al Teatro dell’Opera. In seguito alla guerra dei Sei giorni del 1967, Wael aveva intrapreso una frenetica attività politica in cui fungeva da tramite tra i palestinesi, l’Olp e gli ambienti della sinistra italiana, istituzionale e non, senza mai tralasciare il ruolo della cultura nella lotta di liberazione: nel 1972, quando fu assassinato sotto casa sua dal Mossad israeliano, stava lavorando a una nuova traduzione italiana de Le mille e una notte. Fu lui che coinvolse Wasim, come traduttore, nell’esperienza di Rivoluzione palestinese, in cui traduceva “quello che mi passava Wael, informazioni diverse, anche poesie…”.
Questa prima fase della presenza palestinese in Italia venne all’improvviso scombussolata dal Settembre Nero del 1970, quando re Hussein represse con violenza le comunità palestinesi in Giordania, generando nuove ondate di sfollati che ebbero profonde ripercussioni anche tra i palestinesi della diaspora. “L’anno dopo il Gups era completamente cambiato, perché c’erano stati gli scontri in Giordania, Settembre Nero, e molti ragazzi furono mandati ovunque, le famiglie dicevano loro: andate e arrangiatevi. Molti allora vennero in Italia. All’inizio eravamo in tutto una cinquantina di persone, forse meno, improvvisamente siamo diventati due-tremila”. Rispetto alla generazione precedente, i nuovi arrivati spesso provenivano da contesti più poveri, la cui istruzione rappresentava un investimento da parte della famiglia, per cui la maggior parte di loro si iscriveva a facoltà come medicina, farmacia o ingegneria, che garantivano mestieri sicuri e prestigiosi. Nel 1971 venne fondata ufficialmente l’Unione Generale degli Studenti Palestinesi in Italia, che si strutturava in sezioni locali in quasi tutte le città universitarie e che per tutti gli anni Settanta e Ottanta portò avanti un’intensissima attività politica. Wasim militò nei Gups fino ai primi anni Settanta e intanto si spostava per studio e lavoro tra Perugia, Roma, Venezia e la Sardegna; di quest’ultima campeggia un’enorme mappa seicentesca in un angolo del salotto.
In quel periodo, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, iniziò a emergere in Italia un certo interesse, a partire dall’accademia, per la traduzione della letteratura araba e palestinese, a cui Wasim contribuiva spesso come revisore o traduttore; per le sue mani, racconta, sono passate le traduzioni di Ghassan Kanafani, Emil Habibi, Mahmud Darwish, Sahar Khalifa e molti altri autori e autrici i cui scritti hanno avuto una certa importanza nel far conoscere un pezzo di realtà palestinese e araba alle lettrici e ai lettori italiani. Wasim viveva già da qualche anno a Roma, dove faceva il lettore all’università e l’addetto culturale alla missione dell’Olp, quando, con alcune persone conosciute alla Sapienza, iniziò il progetto delle Edizioni Q.
“Era il 1999. All’inizio eravamo in quattro e avevamo grandi sogni: volevamo fondare una casa editrice che diffondesse la letteratura dal Sud globale, non a caso la Q sta per “Qasba”, il quartiere di Algeri da cui iniziò la rivoluzione anti-coloniale”. I primi libri che pubblicarono furono il testo di un autore siriano e una raccolta di autrici tradotte dall’urdu. Poi il gruppo si sciolse e rimasero prima in due e poi, di fatto, Wasim da solo che, per prossimità e conoscenza degli autori e delle autrici, ha iniziato a pubblicare soprattutto opere tradotte dall’arabo, in particolare dalla Siria e dalla Palestina. Quello delle Edizioni, racconta Wasim, è un progetto che nasce dall’urgenza di far conoscere la cultura palestinese in Italia attraverso la sua letteratura, ma anche da una rabbia mandata giù dopo una lunga serie di rifiuti da parte di editori italiani ad alcune sue proposte (nonostante avesse collaborato per loro a molte pubblicazioni come revisore o traduttore): non episodi isolati, ma espressioni del razzismo che si annida nelle università e nel comparto culturale. “Se un non-italiano del Sud del mondo si presenta a un editore, quello, guardando il suo nome, gli dice: vai a lavare i vetri! Mi son capitati casi in cui i miei scritti venivano cestinati, sicuramente a causa del mio nome. Questa forma di razzismo mi ha sempre disturbato e non sono riuscito a pubblicare quello che avrei voluto. Per le cose politiche è diverso perché, in quanto palestinese, puoi prendere parola solo su alcune questioni”.
Al cuore delle Edizioni Q, dice Wasim, c’è “un’idea politica che passa attraverso la cultura”, dove la letteratura si fa spazio di ricostruzione di una memoria che la storiografia ufficiale tenta di spazzare via (come quando per esempio la nakba viene narrata non come espulsione forzata degli abitanti palestinesi, ma come spostamento volontario di questi dalle proprie terre), ma anche come possibilità di auto-rappresentazione, dal momento che il sionismo si è sempre assunto il compito di parlare a nome della Palestina e dei palestinesi.
D’altronde, scriveva Edward Said riprendendo Homi K. Bhabha, “le nazioni stesse sono narrazioni” e il potere di narrare, o di impedire ad altre narrazioni di formarsi e di emergere, è cruciale per la cultura e per l’imperialismo e costituisce uno dei principali legami tra l’una e l’altro. Guardando alle scelte editoriali di Q, in particolare a quelle raccolte nella collana Zenith, è possibile rintracciare una sorta di genealogia, anche non lineare, di una certa letteratura palestinese del Novecento prima e dopo la nakba, che inizia con Palestinese! e altri racconti di Samira Azzam o I pozzi di Betlemme di Giabra Ibrahim Giabra, entrambi ambientati prima del ‘48, in cui già si accennava alla progressiva sostituzione della popolazione locale con quella israeliana, fino ad autori contemporanei come Ibrahim Nasrallah, passando per Mahmud Shukair, Salman Natur, Sirin Husseini Shahid, Murid al-Barghuthi e molti altri.
“Un percorso l’ho immaginato anche con l’idea di tracciare una linea temporale. Quello che mi interessa è fare emergere lo sfondo sociale, l’ambiente in cui questi testi sono stati scritti. Alcune cose non sono riuscito a realizzarle, per esempio, mi sarebbe piaciuto pubblicare un libro, Memorie di una gallina di Ishaq Musa al-Husayni, un testo che, anche se scritto negli anni Quaranta, è molto moderno nella trama e nello stile.”
La ricerca della modernità, nella lingua come nei temi, è alla base di tutto il suo lavoro editoriale: nella scelta, nella traduzione e nella revisione finale, a cui Wasim si dedica con un certo zelo, “non sono mai soddisfatto delle traduzioni altrui”, ammette. “Proporre a un lettore italiano contemporaneo dei testi scritti con uno stile antico, poetico, anche se raccontano dei problemi del loro tempo, è difficile. Come renderlo nella traduzione? Ecco allora che la scelta dei testi deve rintracciare una sorta di continuità, anche se non immediata, tra chi scrive e chi legge: come autori e autrici palestinesi di quegli anni possono parlare a un lettore italiano oggi? Come rendere questa continuità nella traduzione?”.
“Le nazioni stesse sono narrazioni”: il potere di narrare, o di impedire ad altre narrazioni di formarsi e di emergere, è cruciale per la cultura e per l’imperialismo.
Un titolo, in particolare, colpisce tra le sue pubblicazioni: Memoria di Salman Natur, una sorta di archivio di storie orali, che hanno come sfondo lo sradicamento della popolazione palestinese e la creazione di uno stato coloniale; storie che non seguono un ordine cronologico preciso, ma piuttosto l’arbitrarietà del ricordo di chi scrive.
“È un libro scritto con una lingua molto semplice (si vede che l’autore è un giornalista) infarcito di passaggi in dialetto. Un libro accessibile a qualsiasi lettore”, aggiunge Wasim. Natur appartiene a quella generazione che ha vissuto i postumi dell’esperienza del trauma e che è destinata a farsi carico del suo significato materiale e simbolico, come scrive già nell’incipit del libro: “Siamo nati dopo il 1948 e la guerra ha accollato alla nostra generazione tutte le sue colpe”. Quella di Natur, che poi è anche la sua, riflette Wasim, è sicuramente una generazione investita da questo ruolo, perché non ha ricordo vivo della nakba, “quelli che erano bambini durante la nakba, invece, non scrissero nulla, il trauma era così forte che volevano solo dimenticare. Pensa ai bambini di Gaza tra dieci, vent’anni. Io ho conosciuto persone diventate mute per il trauma. Non penso sia un fattore generazionale, ma più legato alla scrittura come mezzo”.
Quelli che hanno trovato le parole per scrivere, continua Wasim, erano autori che vivevano in Galilea e che subirono la catastrofe in maniera diversa. Fino agli anni Sessanta chi scriveva viveva in Palestina e usava perlopiù l’arabo, poi si fece strada una letteratura dei figli della diaspora, che scrivevano e scrivono nelle lingue del paese di adozione. “Susan Abulhawa, per esempio, scrive in inglese e vive negli Usa, prima che i suoi libri vengono tradotti in arabo passa un bel po’ di tempo! La versione araba di Ogni mattina a Jenin, comunque, non mi piace. Anche la traduzione araba dell’autobiografia di Said (Out of place) non mi sembra fatta bene, i libri sono belli nella lingua in cui sono stati scritti”.
Anche in alcune pubblicazioni di Q, la Palestina si racconta in altre lingue oltre all’arabo: “Quello che mi interessa è tradurre dall’originale. Memorie di Gerusalemme di Sirin Husseini Shahid, per esempio, è stato scritto in inglese, dal momento che l’autrice fin da bambina studiò in scuole americane in Palestina e a Beirut e la sua lingua di cultura è l’inglese, quindi il suo pubblico è il suo ambiente beirutino o palestinese anglofono”. La maggior parte delle pubblicazioni della casa editrice, tuttavia, è tradotta dall’arabo; si tratta perlopiù di opere di autori e autrici che si rivolgono a lettori arabi, come Nashrallah, tra gli scrittori più letti in Palestina, di cui Q pubblicherà prossimamente un altro suo lavoro “ma è un vero peccato che il libro si bruci così, con la nostra distribuzione limitata”.
Per fumare una sigaretta bisogna spostarsi in un’altra stanza perché Wasim, come molti ex fumatori, odia il fumo; lui ne approfitta per preparare un tè. Poi il discorso ritorna sulla diaspora, sull’esilio come possibilità di affinare lo sguardo sul mondo, su cosa significa appartenere ai due versanti dello spartiacque imperiale, come diceva Said. “Said, che ha studiato nelle scuole britanniche e poi negli Usa, sapeva bene che quel che è intorno al sistema linguistico, l’ambiente culturale, può impossessarsi di te e sei tu che devi prendere possesso di questo ambiente, prima che lo faccia lui. Ora che posso viaggiare nei paesi arabi mi rendo conto di come il mondo visto da quella parte è molto diverso, anche se l’occhio è lo stesso”.
È la sensibilità che cambia, aggiunge: “Pensiamo, per esempio, alla giornata della memoria, qui intesa come memoria dell’Olocausto. Questa sensibilità fuori dall’Europa non può esserci, perché il genocidio c’è stato prima degli ebrei e continua dopo, come in Namibia, colonia tedesca, dove tra il 1904 e 1908 si consumò uno dei primi genocidi del XX secolo, di cui la Germania ha di recente riconosciuto le sue responsabilità. Perché questa sensibilità si e quella no? Perché non c’è una giornata della memoria per ricordare il genocidio commesso in Namibia?”.
“L’occupazione – scriveva Murid al-Barghuthi – ci ha costretto a rimanere nel passato. Ecco la sua grave colpa: non ci ha privato dei forni di argilla di ieri, ma ci ha privato della curiosità di sapere cosa avremmo potuto inventare un domani.” La questione della memoria si lega a doppio filo con quella del futuro, della possibilità di inventare un domani. Raramente la letteratura palestinese ha esplorato il tempo futuro, considerato un lusso in cui la scrittura, per dovere testimoniale, non poteva rifugiarsi. Eppure il futuro, dice Wasim, entra nel lavoro di alcuni autori, da Nashrallah, che nel libro La seconda guerra del cane (non tradotto in italiano) scrive di un futuro immaginario, a Il libro della scomparsa di Ibtisam Azem, dove in un futuro distopico tutti i palestinesi improvvisamente scompaiono, fino alla raccolta Palestina 2048, in cui a dodici scrittori e scrittrici palestinesi è stato chiesto di immaginare il proprio paese a cento anni dalla nakba.
Leggendo alcune opere pubblicate da Q, come Memoria, a cui si è accennato sopra, o Mia cugina Condoleezza di Mahmud Shukair, così come altre opere di letteratura palestinese come il Pessottimista di Emil Habibi, non si può fare a meno di notare un’ironia che ricorre, spesso muovendosi tra il tragicomico, il sarcastico e, talvolta, il grottesco, di chi forse sa già che di fronte alla tragedia del presente si può rispondere solo con una altrettanto tragica ironia.
“Quelli che erano bambini durante la nakba non scrissero nulla, il trauma era così forte che volevano solo dimenticare. Penso ai bambini di Gaza tra dieci, vent’anni. Io ho conosciuto persone diventate mute per il trauma.”
“L’ironia riguarda tutto ciò che è il Levante, l’Oriente arabo, – dice Wasim – questo Levante era, allora, una grande mescolanza di tipo imperiale di lingue, religioni, genti, tutti sudditi di un sovrano molto lontano che, di fatto, non esiste. Così i locali si autogovernano senza governo e in cambio di questa tranquillità, pagano una tassa a un sovrano che non c’è. C’è, ma non c’è, e questo è un elemento cruciale per capire l’ironia. Pensiamo a Le mille e una notte: tutto il libro è una sorta di teatro dell’assurdo. La moglie, destinata all’uccisione, racconta storie prendendo in giro il re. Questa ironia sottile si trova anche nelle fiabe; l’incipit che i fratelli Grimm standardizzarono con la formula “C’era una volta” in arabo non esiste, la formula più usata è infatti “kan ya makan” che io ho tradotto con “c’era ma forse non c’era”, è una bugia, una presa in giro. Questa, insomma, è un tipo di ironia diffusa, popolare e storica a cui un autore moderno dell’area pansiriana non può sfuggire. La vita, come era intesa in quell’area del mondo, non era mai seria, ma piena di autoironia, una vita intelligente, perché in fondo chi si prende sul serio è proprio scemo”.
Fuori è già buio da qualche ora, dalla stanza accanto arrivano le voci di una tv accesa. Prima di lasciare Wasim, gli chiediamo cosa pensa della narrativa palestinese recente, come (quanto) si legge in Palestina. “Si legge poco, come in Italia, ma ci sono molte librerie belle e ben fornite. Ibrahim Nasrallah è sicuramente tra gli autori più diffusi e apprezzati, anche perché fa sempre dei suoi libri un’edizione palestinese senza diritti che regala agli editori, in modo che il prezzo al pubblico sia basso. Ci sono autori locali molto interessanti, quello che però mi colpisce negli ultimi tempi è il calo delle autrici, non ci sono molte voci di donne. Sicuramente mancano figure come Sahar Khalifa, che era una forza che incoraggiava la scrittura”.
L’editoria palestinese ha una distribuzione anche in Israele? “È piuttosto letta. Prima gran parte degli israeliani erano in origine arabofoni e non avevano bisogno della traduzione, anche perché l’ebraico ha poca diffusione nei testi scritti. Ora non saprei perché la nuova generazione parla solo ebraico”. Chi sono i lettori e le lettrici delle Edizioni Q? “Sicuramente una piccola cerchia di persone interessate alla letteratura, pochi studiosi. Diciamo che io faccio i libri per gli amici, se qualcosa si vende, bene! Le Edizioni, comunque, sono distribuite in tutta Italia, dopo il 7 ottobre c’è stato un boom di richieste, poi quando la televisione ha smesso di parlarne l’interesse si è esaurito”.
Ci anticipa che sta lavorando a due nuovi libri, uno sugli scritti di una prigioniera politica palestinese nelle carceri israeliane (uscito a inizio marzo) e una raccolta di autrici italo-palestinesi, di varie generazioni, su come stanno vivendo quel che succede a Gaza e in Palestina dal 7 ottobre scorso. Prima di salutarci, si rimette al collo la kefiah rossa che aveva poggiato sulla poltrona, quasi a volerci lasciare con un’immagine: come succede, a volte, quando si chiude un libro.