N el 1588, l’ingegnere italiano Agostino Ramelli inventò, nella sua opera letteraria dedicata a una vasta serie di “artificiose machine”, una “ruota dei libri”, ovvero un prototipo della consultazione intertestuale. Con questo leggio che ruotava, Ramelli aveva favoleggiato l’idea di una sapienza capace di combinare, nello stesso meccanismo di consultazione, una moltitudine di risorse immediatamente accessibili allo studio e al confronto. Un’ubriacatura di testi che oggi non ci sconcerta, ma che anzi, nell’epoca di Google e Wikipedia, manifesta soltanto una delle tante materializzazioni del sogno di una conoscenza universale, dove il mondo si offre interamente disponibile allo studio e alla decifrazione.
Tuttavia, la quantità di risorse di cui disponiamo senza poterle esaurire s’infrange contro ogni idea di decifrazione totale, e sembra fare di ogni internauta un possibile “talmudista” nell’interpretazione del filosofo Giorgio Agamben: “come il talmudista (talmud significa ‘studio’) chiosa e rovista le prescrizioni della Torah fino a renderle inapplicabili, così lo studioso rimugina e sbriciola le sue possibilità di ricerca una dopo l’altra, infinitamente. Lo studio ha già esaurito ogni possibile realizzazione, perché è in se stesso interminabile e inesauribile.” (Posture). Per l’internauta la ricerca non può trovare conclusione, poiché la quantità di materiale accumulabile oltrepassa la possibilità di rimuginarlo interamente. La conoscenza si mantiene oscura nonostante la facilità d’accesso; e insieme, proprio per via di questa facilità, siamo spinti a non abbandonare la ricerca ossessiva, di pagina in pagina, di link in link. Ci troviamo in balia di quella che James Hillman chiama intossicazione ermetica. Se Erik Davis in TechGnosis scrive che “tra tutte le forme divine che infestano la mente greca, Ermes è quello che più si sentirebbe a casa nel nostro mondo cablato”, Hillman in Figure del mito sostiene direttamente che Ermes è diventato servitore di Internet:
Google, Internet Archive, Wikipedia fanno risorgere il fantasma dell’antico ermetismo, l’immensa raccolta di testi della sapienza occulta, di immagini mnemoniche, di simboli e di pratiche magiche miranti a padroneggiare tutto lo scibile. I suoi seguaci, dall’Italia rinascimentale all’Inghilterra elisabettiana, attribuivano quegli insegnamenti a Ermes stesso o a un altro dio del sapere universale, l’egizio Thot. Mediante traduzioni allegoriche, simboliche e matematiche, l’ermetismo aspirava a trasporre il mondo fisico nello spazio mentale. […] Non vediamo forse questo motivo affacciarsi anche oggi nella nostra ubriacatura informatica? E tuttavia Ermes, mentre dona questa miracolosa facilità di accesso, che cosa si porta via in cambio? Non dimentichiamo che è il dio sia della scoperta sia della perdita, sia del dono sia del furto.
Cosa smarriamo in questa intossicazione, si chiede il filosofo? Cosa ci viene tolto? I movimenti, le carni, i sapori, gli odori, cancellati dal monoteismo di un solo mondo comunicativo lontano dai “sensi”: questa una parziale risposta formulata da Hillman nel 1996, in occasione della conferenza che stava tenendo presso la Banca Popolare di Milano. Più di vent’anni dopo, se da una parte dobbiamo confermare che l’intossicazione ermetica si è diffusa con una straordinaria accelerazione (così come l’illusione di un sapere “facilmente” accessibile), dall’altra possiamo ribaltare il presunto monoteismo comunicativo di Internet con le sue esperienze soltanto disincarnate, provando a farlo proprio attraverso i giocattoli di Ermes e il loro carattere difforme. Seguendo l’indicazione di Kenneth Goldsmith in un libro seminale sull’arte di “perdere tempo” sul Web: “Internet non è monolitico; è invece multiplo, diversificato, frammentato, contraddittorio, tutto nello stesso tempo”.
Medicarsi con le immagini
In Barlaam e Iosafat, popolare romanzo agiografico (attribuito a Giovanni Damasceno) che cristianizza la vita del Buddha, troviamo un personaggio, “un povero invalido”, che si definisce Guaritore dei Discorsi o Medico di parole. Questa singolare definizione colpì molto Gregory Markopoulos, uno dei più importanti cineasti sperimentali americani, che la prese in prestito per definire il filmmaker non commerciale come un “medico di immagini”(Caos Phaos):
Immagini che, diversamente da quelle del cinema commerciale, non cagionano inibizioni alla vita, ma trasportano piuttosto lo spettatore creativo da esse toccato a una più alta forma di esistenza.
[…] Uno spettatore simile viene colpito dalle nuove immagini e suoni come se fosse improvvisamente folgorato: ma da quel tipo di folgore che, nelle società primitive, era considerato gravido di maestose conseguenze.
Anche se il cinema sperimentale degli anni Sessanta e Settanta sembra molto lontano dalla cultura delle immagini diffuse su Internet, in realtà un gran numero di tecniche che caratterizzavano questi film (schermi paralleli, schermi dentro altri schermi, effetti stroboscopici, manipolazioni sensoriali, montaggio di immagini tra loro diversissime) sono oggi state adottate degli utenti di piattaforme come TikTok o YouTube (spesso senza una vera consapevolezza di queste migrazioni).
Il concetto stesso di medicamento attraverso le immagini sopravvive non solo nel cinema di ricerca contemporaneo, ma in numerosi trend della rete, per esempio quelli nati nel contesto video-ambience, ovvero in quei video (chiamati anche “soundscapes” o “paesaggi sonori”) capaci di ricreare atmosfere che vanno da una classica notte piovosa d’estate fino ai suoni di una nave rompighiaccio nell’Oceano Glaciale Artico: una stimolazione sensoriale, impiegata da milioni di utenti per modulare l’umore e proiettarsi verso “piani di realtà alternativi”. Valentina Tanni, studiosa che ha recentemente dedicato a questi temi un saggio straordinario chiamato Exit reality, parlando di strategie di “automedicazione” sottolinea proprio il legame che sembra unire video-ambience e cinema di ricerca: “la capacità che le produzioni audiovideo hanno di influenzare – talvolta anche radicalmente – umori e stati d’animo è stata sottolineata ed esplorata più volte in passato. Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento ne parlavano numerosi autori impegnati nella ricerca attorno a quel genere di sperimentazione mediale che il critico Gene Youngblood avrebbe ribattezzato Expanded Cinema.”
L’iperstimolazione serve a catturare lo sguardo affinché l’utente non passi subito al video successivo, ‘scrollando’ per la noia; allo stesso tempo, tenendo occupate tutte le aree del cervello è possibile raggiungere una trance da concentrazione.
Mentre i video-ambience nascono generalmente per favorire la meditazione e l’immersione in stati di quiete, gli sludge content (contenuti melma) inducono invece un’iperstimolazione: si tratta di video in cui lo schermo si moltiplica, spesso in due parti; uno schermo posizionato generalmente in alto trasmette un video che richiede più attenzione, come ad esempio la sequenza di un film, mentre “gli altri sono di contorno e possono essere gestiti con un livello di concentrazione più basso, in una specie di spazio mentale in background. Questi contenuti low-attention sono tipicamente dei video di genere ‘satisfying’, ossia ASMR visivo (oggetti tagliati o schiacciati, sostanze manipolate, persone che dipingono o costruiscono), spezzoni di serie animate oppure video gameplay di giochi endless run come Subway Surfers” (Exit reality). L’iperstimolazione, il toccarsi improvviso di regni immaginativi e sensoriali molti lontani tra loro serve certamente a catturare lo sguardo affinché l’utente non passi subito al video successivo, “scrollando” per la noia; allo stesso tempo, però, “è impossibile non leggere in questa tendenza il tentativo di provocare uno stato di flusso. Tenendo occupate tutte le aree del cervello, infatti, è possibile raggiungere una specie di trance da concentrazione”.
Questa contaminazione patogena a cui il ‘soggetto’ (o lo schermo) ‘principale’ viene esposto s’avvicina per certi tratti alle avventure delle avanguardie artistiche o dei panorami di ricerca che oggi vengono ampiamente celebrati.
Siamo come invischiati in una rete di stimoli, in una travolgente conflagrazione di contenuti che infrangono i loro confini, infettandosi vicendevolmente e facendoci piombare in un territorio dove l’attenzione viene spalmata ovunque. La sostanza dello sludge content è per l’appunto melmosa, e rispecchia una definizione che ritroviamo in Vischioso, la “storia natura dello slime” tracciata da Susanne Wedlich: “lo slime è pervaso da ogni incontro con la materia vivente ed è spesso contaminato da agenti patogeni – dunque la nostra avversione è ben fondata, come dimostrano del resto gli studi sul senso del disgusto”. Ciononostante, proprio come il disgusto non ci consente di comprendere davvero l’importanza che lo slime riveste per la nostra salute e per l’ambiente in cui siamo immersi, così una assoluta avversione per lo sludge content non ci permette di capire le potenzialità che esso veicola o che talvolta lascia risorgere. Questo sorpassamento dei confini, questo mischiamento dei mondi, questa contaminazione patogena a cui il “soggetto” (o lo schermo) “principale” viene esposto s’avvicina per certi tratti alle avventure delle avanguardie artistiche o dei panorami di ricerca che oggi vengono ampiamente celebrati.
Pensiamo, ancora prima delle già citate sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta, a quelle del cinema surrealista, le cui associazioni imprevedibili o sogni ad occhi aperti ricordano proprio i meccanismi dello sludge content, esattamente come, secondo Kenneth Goldismith, l’espressionismo astratto ci suggerisse oggi una metafora per i network, “onnipervasivi come la pittura e ingarbugliati come matasse” (Perdere tempo su internet). O ancora: se un secolo fa Abel Gance inventava l’epica dello schermo-triplo per il suo film Napoléon, “trittico” che si anima o poesia cinematografica entro la quale l’azione si trovava simultaneamente concentrata e ingrandita tutt’assieme in un dramma psicologico, oggi l’utente YouTube Peter Paige ci offre, con pretese molto più ridotte, una versione sludge de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, intitolata The Seventh Seal (Zoomer Edition). Anche qui abbiamo tre schermi: uno al centro con il leggendario film, uno a sinistra con video “soddisfacenti” e uno a destra con il gioco Subway Surfers.
La ‘polvere di immagini’ di cui parlava con disprezzo Guy Debord è diventata una polvere di schermi: il film da solo non basta; lo stato in cui l’esperimento ci getta ricorda un sogno ad occhi aperti, in cui giochiamo e siamo giocati.
Per quanto eretico possa sembrare il confronto, montare insieme l’esperienza di Napoléon di Gance e quella di The Seventh Seal (Zoomer Edition) non serve ad appiattirli l’uno sull’altro, o a livellare le differenze in un’ottica banalmente postmoderna. Il confronto ci rivela semmai il ritratto (sempre parziale) di due epoche dello sguardo: da una parte lo sforzo epico di Napoléon manifesta una fede nel cinema come invenzione ancora a venire, capace di sconfinarsi e di far sconfinare lo sguardo attraverso nuove tecnologie – una visione, questa, che oggi sappiamo in gran parte tradita, come dimostra la sorte infausta di Abel Gance. Dall’altra, con The Seventh Seal (Zoomer Edition), ci viene restituito il ritratto di un’epoca in balia dei propri fantasmi, nella quale la “polvere di immagini” di cui parlava con disprezzo Guy Debord è diventata una polvere di schermi: il film da solo non basta (forse non è mai bastato); ciononostante, lo stato in cui l’esperimento ci getta ricorda un sogno ad occhi aperti, in cui giochiamo e siamo giocati. Tanto Napoléon quanto The Seventh Seal (Zoomer Edition) sono per questo esperienze sintomatiche, entrambe meritevoli di attenzione, entrambe intrecciate con l’atmosfera tecnologica della propria epoca, entrambe capaci di catturare lo spettatore attraverso un eccesso di stimolazione, con effetti talvolta psichedelici. Effetti che possano terrorizzare, ma anche avere un potere curativo – trasportando lo spettatore in un’altra forma di esistenza.
In quest’ottica, conviene citare un ultimo esempio di “triplice” stimolazione, ovvero un aneddoto riportato da Dale Pendell in Pharmako/Gnosis. Questa storia ha come protagonista lo psicologo statunitense Richard Alpert, costretto a letto da un brutto raffreddore. Due amici, intenzionati a curarlo, gli fanno un’iniezione di DMT nel sedere:
Alpert scattò su e prima che si esaurisse l’effetto della DMT gli diedero 800 microgrammi di LSD in cucchiaino. Tre impianti stereo pompavano simultaneamente Coltrane, Stockhausen e Beethoven a tutto volume. Un mare di suoni contrastanti avvolgeva Alpert mentre lui era perso nel vortice del flusso neurologico. Quanto ritornò dal suo trip, si accorse che i sintomi del raffreddore erano completamente spariti.
Questa terapia d’urto, che mette insieme infezione, droga e bombardamento musicale, sembra avere il potere di medicare proprio attraverso il flusso di stimolazioni che genera. L’esperienza di ascoltare simultaneamente con tre impianti Coltrane, Stockhausen e Beethoven oggi viene riproposta in migliaia di contenuti online dove nuovi “medici di immagini e suoni” improvvisano ed editano i loro mix, tentando di manipolare in maniera intenzionale i sensi con gli scopi più diversi.
Dai paesaggi sonori agli sludge content, dagli ASMR alle backrooms o all’esoterismo “memetico”, diversi trend che oggi attraversano furiosamente lo spazio del web mirano a toccarci, a impressionare i nostri sensi, ad avere effetti che contraddicono quel monoteismo disincarnato di cui parlavamo sopra. In un simile approccio a Internet, sostiene infatti Valentina Tanni,
è implicitamente contenuta anche un’importante rivendicazione: la possibilità di vivere esperienze estetiche anche in un contesto tecnologicamente mediato come quello della rete. Mentre ancora oggi si discute sulla supposta superiorità dell’esperienza fisica diretta rispetto a quella cosiddetta “virtuale”, è dall’inizio degli anni Dieci che le nuove generazioni stanno affinando le proprie capacità di editing a fini suggestivi e ipnotici. Le estetiche di internet, quando non si riducono a un catalogo di mode passeggere e superficiali rappresentano un tentativo di trasmettere stimoli vitali attraverso i cavi della rete, usando l’arte come modem.
Ma anche senza essere manipolatori professionisti o mixatori incalliti di immagini e suoni, il mondo “virtuale” offre a tutti un peculiare contatto con la materia. Tocchiamo, sfreghiamo, clicchiamo, pigiamo, muoviamo occhi e bocca davanti allo schermo: una fisicità diversa, certo, ma comunque tatuata nella materia della carne digitale. Come i manoscritti medievali lasciavano trapelare un resto di vita animale per via della loro origine, e segnare una pagina voleva dire anche percuoterla o inciderla nella sua pelle, così il legame tra coltello e stilo si ripercuote anche sul web. Ci ricorda Goldsmith che
con ogni clic penetriamo, con ogni porzione di testo che “tagliamo” pratichiamo un’incisione sul suo corpo. Le visualizzazioni delle pagine, del resto, vengono talvolta chiamate “impressioni” o “colpi” che segnano quel corpo. Le tracce di dati che lasciamo su di esso vengono incise, segnate, tracciate, scolpite nelle cronologie dei browser, nei cloud, nelle banche dati, come tatuaggi su quel corpo. I tentativi di ripulirlo possono variare dalla chirurgia plastica per i difetti di superficie alla chirurgia invasiva per eradicare cancri che si diffondono viralmente.
La demarcazione tra carnale e digitale è una finzione del disincanto; le frontiere si squagliano di fronte a noi, si sfaldano con ogni nostro affondo (o clic), e spesso le cose non sono quelle che sembravano essere.
La torta del mondo
Quando, nel suo precoce entusiasmo per la potenza “sciamanica” e “liberatrice” delle nuove tecnologie, Elémire Zolla sosteneva che gli occhiali magici avrebbero mostrato la natura illusoria d’ogni realtà, si rifaceva a un concetto di liberazione indù che richiamava alla lontana “lo scorrimento, il guizzo sopra un piano umidiccio, stillante, sdrucciolevole dove a nulla ci si afferra, ma dove ci si può gettare come pattinatori, slittando. Liberata è una vita che così, lieve e imprendibile, trascorra” (Uscite dal mondo). Questa descrizione “scivolosa” ci appare tanto come un’invocazione quanto come una parodia dei meccanismi di piattaforme come TikTok, dove il pattinare tra contenuti è un’operazione solo apparentemente senza conseguenze. Il flusso delle immagini, infatti, può essere insieme sortilegio temibile e fonte di importanti interrogazioni.
Prendiamo, ad esempio, il trend “cake or fake”: in questi video svariati oggetti quotidiani (un sandalo, una lattina di coca-cola, una palla da basket, etc.) si rivelano, una volta tagliati con un coltello, elaboratissime torte che ci lasciano stupefatti. L’assonanza tra “cake” e “fake”, spiega ancora Valentina Tanni, nasconde un quesito metafisico, e ci spinge a dubitare di quella natura illusoria d’ogni realtà di cui parlava Zolla. Il mondo stesso è forse una torta? E cosa dire di noi? Dove si conficca il coltello della certezza? App come MoshUp complicano ulteriormente la nostra percezione, poiché permettono il datamoshing, ossia l’inserimento di glitch all’interno delle immagini: “grazie a questo effetto, gli oggetti inquadrati sembrano squagliarsi e possono essere facilmente trasformati in qualcos’altro. L’oggetto di partenza diventa prima un ammasso indefinito di pixel, per poi acquistare una forma diversa – in questo caso quella di un soffice pezzo di dolce”.
Squagliando la realtà di fronte ai nostri occhi, gli schermi e gli occhiali magici delle nuove tecnologie possono condurre al dubbio permanente, a una sorta di disfiducia senza soluzione in ciò che vediamo.
Squagliando la realtà di fronte ai nostri occhi, gli schermi e gli occhiali magici delle nuove tecnologie possono condurre al dubbio permanente, a una sorta di disfiducia senza soluzione in ciò che vediamo: tutto è “soltanto” una torta! Oppure, un poco come succede nella famosa storia del Mago di Oz, gli occhiali verdi, che in teoria dovrebbero riparare dalla luce accecante della Città di Smeraldo, sono in verità il trucco attraverso il quale il Mago manipola tutta la gente, tingendo la realtà di quel colore seducente. Avviene così anche in alcune declinazioni di fenomeni come le backrooms o l’estetica dreamcore. Ci ritroviamo improvvisamente in parchi acquatici, piscine abbandonate, vecchi centri commerciali, stanze da letto dai toni d’infanzia; le immagini sono colorate, nostalgiche e stranamente familiari, ma svuotate di qualsiasi vita: you can easily return to the past but no one is there anymore.
Se alcuni utenti impiegano in maniera altamente creativa il potenziale perturbante degli spazi liminali o delle associazioni oniriche, l’uso più frequente è comunque quello escapista: i sogni e i fossili del passato non vengono fatti danzare, ma formano solo una specie di culla protettiva dove rintanarsi: “il sogno non è la strada che porta alla rivoluzione: piuttosto è un rifugio, una fonte di confort e tenera nostalgia” (Exit reality). Tuttavia, rimane un’ulteriore modalità per approcciarci alla torta del mondo: guardare a questi contenuti non come inviti allo scetticismo integralista, ma come occasioni improvvise per esperire la vita metamorfica e continuamente trasfigurante della materia; come opportunità per smentire ulteriormente la supposta naturalezza del mondo, e dei suoi abiti sempre immutabili.
A prescindere dalla provenienza, ogni immagine è sempre un phantasma, un mito in grado di agire, di manipolare e di manipolarci con i suoi miraggi, come quello dell’immortalità.
Del resto nel mondo della favola (o del sogno) gli oggetti non sono mai semplicemente quello che sembrano: in loro dimorano moltitudini, altre vite da scoprire oltre la loro natura immediata. Se sapremo rivolgerci con accortezza al regno delle immagini “aberranti”, sapremo certamente beneficiarne, acquisendo un’immaginazione realmente androgina. Allo stesso tempo, saremo anche in grado di spezzare la loro pericolosa tirannia. Questo perché, a prescindere dalla provenienza, ogni immagine è sempre un phantasma, un mito in grado di agire, di manipolare e di manipolarci con i suoi miraggi, come quello dell’immortalità.
Il social network dei morti
Scrivendo Cinema Vivente, il poeta simbolista Saint-Pol-Roux pensava ad Abel Gance, l’unico regista ai suoi occhi capace di intuire le vere potenzialità della settima arte. Ma se l’autore di Napoléon aveva immaginato una biografia epica per schermo-triplo, Saint-Pol-Roux era invece convinto che il cinema del futuro sarebbe stato in grado di far risorgere materialmente il grande imperatore francese, e di ricostruire gli antichi eroi dalle loro mummie. A un tempo pittura e scultura, il cinema “vivente” con i suoi fantasmi alimentati dal Sole sarebbe diventato – al termine di una lunga evoluzione – la “trovata” più formidabile del mondo:
Questo cinema futuro moltiplicherà con le sue nature la Natura. Il cinema futuro non avrà schermo, perché i suoi regni saranno l’impero universale. Il cinema futuro sarà vivente perché deriverà le sue forme dalle forze straordinarie che si vanno scoprendo di giorno in giorno. Per mezzo di […] fantasmi doppi, tripli, centupli, l’uomo non morrà. Questi esseri saranno la nostra resurrezione. Il cinema futuro è l’immortalità.
Chissà cosa potrebbe scrivere oggi Saint-Pol-Roux vedendo trasmigrare il suo miraggio di vita eterna dal cinema vivente al regno dell’immortalità digitale. James Vlahos, che per mesi ha registrato i ricordi e la storia di suo padre in punto di morte per trasformarlo in un Dadbot (un “chatbot” con cui poter continuare a dialogare anche dopo la sua scomparsa terrena), è convinto che attraverso simili cloni digitali potremmo far rivivere personaggi come Leonardo da Vinci, Albert Einstein, o magari lo stesso Napoleone Bonaparte.
La sua vicenda è soltanto una delle numerose raccontate da Moritz Riesewieck e Hans Block nel reportage La fine della morte. Vita eterna nell’era dell’intelligenza artificiale. I fantasmi doppi, tripli, centupli movimentati dall’immaginazione di Saint-Pol-Roux ricorrono anche in Eter9, il “social network dei morti” progettato dal portoghese Henrique Jorge dove ogni utente nutre attraverso i suoi dati un profilo-avatar, una copia digitale capace di sopravvivergli e di agire autonomamente. Spiegano Riesewieck e Block: “invece di conservare le vestigia virtuali delle persone in Cloud privati, si possono trovare le loro anime digitali su una ‘nuvola 9’, un network di defunti che si insufflano vita a vicenda, si formano e si trasformano l’un l’altro”. Vita metamorfica, religione come inconscio della tecnologia, miraggio prolungato dell’immortalità: un “leitmotif” che ricorre per tutto il reportage, con declinazioni che vanno dall’utopia materializzata all’apocalisse informatica all’inferno artificiale, il cui disegno non si ferma davanti a nulla.
L’animismo elettrico nel XIX secolo permeò l’invenzione del telegrafo, e si tramutò ben presto in una grande utopia tecnologica, capace di conquistare anche il regno dei morti.
Questa mescolanza non è certamente inedita: pensiamo all’animismo elettrico che nel XIX secolo permeò l’invenzione del telegrafo, e che si tramutò ben presto in una grande utopia tecnologica, capace di conquistare anche il regno dei morti. Spiritismo e occultismo trasformavano il telegrafo in una tecnologia spirituale, in un mezzo di comunicazione con i defunti. Scienza, cialtroneria e religione si muovevano sulla stessa, intricatissima rete elettrica. Scrive a tal proposito Erik Davis che “la fusione tra medianità e telegrafo elettrico fu la prova tangibile che la scienza e l’ingegneria avrebbero penetrato le dimensioni dell’invisibile e dato concretezza e pragmatismo alla sfera del meraviglioso. Gli spiritisti erano uniti […] nella convinzione che l’aldilà fosse solo un’altra frontiera da conquistare con la marcia del progresso” (Techgnosis). Anche gli spettri comunicano per mezzo del loro personalissimo spiritual telegraph.
Un altro esempio: quando Chiara Valerio afferma, in La tecnologia è religione, che Alexa dopo all’incirca un minuto di ascolto di un campione audio può “salvare” e imitare le voci, incluse quelle dei morti (“la nuova funzionalità di Alexa è la reincarnazione”), sta evocando in qualche modo una nuova versione delle “Urna delle voci”. A Parigi, nel 1907, il presidente di Gramophone Alfred Clark donò all’Opéra ventiquattro dischi che contenevano le voci più significative della lirica del tempo. Come spiega Corrado Bologna collegandosi alle ricerche di Lucia Amara, le voci erano custodite “in contenitori di piombo che avrebbero dovuto costituire l’embrione di un futuro ‘museo della voce’” (Flatus vocis); la singolare volontà di Alfred Clark era quella che le urne fossero aperte soltanto dopo cento anni, con una cerimonia pubblica poi avvenuta davvero nel 2007. Se agli inizi del Novecento le “urna della voce” seppellite da Clark rappresentavano uno dei diversi progetti per “preservare la voce dalla morte del corpo umano che la ‘contiene’”, oggi sono diventate soltanto una delle tante funzioni di Alexa.
Il pulviscolo dei morti è diventato il pulviscolo dei dati, la disseminazione di tracce attraverso le quali far risorgere, come in Eter9, il morto.
Ancora più legata ai miraggi del presente è l’epopea del cosmismo, in particolare per quanto riguarda la filosofia del suo “fondatore”, Nikolaj Fëdorov, nato in Russia nel 1829. Personalità ascetica e visionaria, radicalmente avversa alla seduzione mondane ma venerata e temuta da figure come Lev Tolstoj, il filosofo Fëdorov era animato da un’unica gigantesca questione: la resurrezione totale di tutti gli antenati. Come leggiamo nella sua Filosofia dell’Opera Comune: „la resurrezione non sarà opera di Dio, ma dell’Uomo Nuovo Teurgico, attraverso progressi scientifici e psichici; l’evoluzione dell’Umanità è giunta al punto nel quale gli uomini devono iniziare al più presto la resurrezione degli antenati”. Fëdorov accoglieva nella sua visione tanto le dottrine della chiesa ortodossa quanto la scienza e l’impulso positivistico del suo tempo, sognando che tutte le forze si unissero in uno sforzo comune per sconfiggere la morte attraverso il progresso tecnologico. La vita avrebbe dovuto trionfare sui conflitti e sulle carestie, superando le avidità personali, le invidie e i piccoli atti di egoismo quotidiano. Per questo la direzione delle ricerche umane andava dirottata: se tutto in quel momento si concentrava sulla guerra, il futuro sarebbe stato dedicato all’immortalità. Spiega George M. Young, che a questa vicenda ha dedicato un approfondito studio dal titolo I cosmisti russi. Il futurismo esoterico di Nikolaj Fedorov e dei suoi seguaci:
In seguito si potrebbero sintetizzare i corpi, e infine, sostiene Fëdorov, si potrebbero ricreare persone intere da minime tracce di pulviscolo ancestrale, il recupero delle quali sarebbe affidato, sempre secondo Fëdorov, a squadre di ricerca inviate sulla luna, sui pianeti e nei luoghi più remoti dell’intero universo, che infine sarebbero colonizzati dagli antenati risorti, i cui corpi sarebbero modificati in modo tale da renderli capaci di sopravvivere in condizioni in cui attualmente la vita umana sarebbe impossibile. In tal modo i regni della spiritualità e della razionalità si estenderebbero a regioni cosmiche attualmente giudicate prive di vita e si risolverebbe il problema malthusiano della sovrappopolazione della Terra.
Ancora una metamorfosi: il pulviscolo dei morti è diventato il pulviscolo dei dati, la disseminazione di tracce attraverso le quali far risorgere, come in Eter9, il morto. Mentre il turismo spaziale avanza nella sua violenta invasione, accelerando la spinta di Konstantin Tsiolkovsky, il “padre” del volo spaziale che sosteneva che “la Terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere nella culla per sempre” (si veda a tal proposito il Catalogo delle religioni novissime di Graziano Graziani), il sogno della resurrezione digitale colonizza la galassia del web, i suoi enormi cloud, gli archivi interattivi e gli spazi pubblici che in “principio” si sognavano affrancati dal potere. Polvere di schermi, polvere di immagini, polvere di dati nella quale danzano i vivi e (futuri) morti. Goldsmith paragona la “nuvola informatica” in cui siamo immersi a Pig-Pen, il personaggio del fumetto i Peanuts avvolto nella polvere che è al contempo un archeologo, un geologo, un archivista-spigolatore e un social network vivente:
Come un essere totalmente quantificato, ogni mossa che Pig-Pen compie – ogni passo, ogni scrollata di capo – genera altra polvere visibile. Non traffica col terriccio, né si rotola nel fango; la sua è una polvere atmosferica e cristallina, che si fonde con l’aria. […] È una macchina; la sua nuvola è attiva ventiquattro su sette. La sua condizione resta invariata a prescindere dal tempo atmosferico: neppure gli acquazzoni riescono a ripulirlo. La sua nuvola è connessa in rete, e agisce su tutti quelli che vengono in contatto con lui; lui stesso è un social network vivente. […] La sua nuvola è una foschia, una caratteristica ambientale, una rete che non può essere delimitata da confini precisi, senza inizio e senza fine: una pulsazione, una stasi, una matassa, un califfato.
Siamo anche noi, alla maniera di Pig-Pen, mischiati nella polvere dei dati, avvolti dalla nuvola di immagini, suoni, protesi “artificiali”, catturati in un mondo di phantasmata e di spettri, di divinità e di giocattoli ermetici. Rispetto a ogni positivismo e a ogni igiene razionalista, non ci resta allora che prendere atto di questa evidenza: non siamo mai stati disincantati.