I l luogo dove si sono sviluppate le ricerche più importanti di Gail Ashley, la geologa americana alla quale dobbiamo l’idea scientifica di “zona critica”, è la gola di Olduvai, in Tanzania. L’idea maturò mentre la scienziata studiava la cornice climatica all’interno della quale ha avuto luogo l’evoluzione umana. Quale sito migliore per questi studi di quell’arido avvallamento nel Serengeti che custodisce tracce di Homo sapiens e dei suoi antenati, indietro per milioni di anni, fino agli australopitechi. Questa circostanza rende particolarmente suggestiva l’idea di zona critica, come se si trattasse di una sorta di macchina del tempo che ci mostra insieme le origini e una possibile fine, considerando che quell’espressione è oggi associata per lo più alla crisi climatico-ambientale che minaccia la sopravvivenza della nostra e di altre specie nella biosfera, l’unica zona che possiamo abitare.
Geologi e climatologi che studiano la Earth critical zone potrebbero storcere il naso di fronte a questa suggestione “giornalistica”. Che tuttavia, a parziale discolpa, può essere nobilitata dalla citazione di un capolavoro: è a Olduvai, infatti, che l’immaginazione di Arthur C. Clarke fa trovare il primo monolito, innescando quel cortocircuito spazio-temporale che è 2001: Odissea nello spazio. Una delle più efficaci e sintetiche definizioni di Zona critica è stata formulata nel 2001 dal National Research Council statunitense: “l’ambiente eterogeneo, vicino alla superficie, in cui complesse interazioni che coinvolgono roccia, suolo, acqua, aria e organismi viventi regolano l’habitat naturale e determinano la disponibilità di risorse a sostegno della vita”. Si tratta insomma del teatro dell’interscambio, della complessità, della simbiosi, delle catastrofi e dell’equilibrio, delle metamorfosi. Il teatro degli “olobionti”, avrebbe detto Lynn Margulis, biologa geniale e controversa, riferimento scientifico di molti antispecisti e degli studi sull’Antropocene. In una parola teatro del vivente e del non vivente dalla cui solidarietà dipendono anche le nostre sorti, di quest’ultima propaggine di ciò che ebbe inizio in luoghi come la gola di Olduvai.
La zona critica è il teatro dell’interscambio, della complessità, della simbiosi, delle catastrofi e dell’equilibrio, delle metamorfosi.
Il concetto di Zona critica consente di mettere a fuoco le interdipendenze non solo tra tutti i soggetti naturali, ma anche tra fenomeni e processi sociali, economici, politici… Interdipendenze che dovrebbero risultare ovvie, se solo si aprissero gli occhi sull’agentività del non umano, dopo la sbornia moderna che ha offuscato le menti dei “civili” facendo loro credere di essere gli unici soggetti in scena di fronte a un oggetto muto e infinitamente disponibile, manipolabile. Di conseguenza l’impatto di ogni politica, di ogni teoria o prassi, deve essere analizzato non più soltanto in riferimento alle dinamiche sociali, umane, ma anche tenendo conto delle azioni-reazioni di tutti gli altri coinquilini nella zona critica. L’estensione e l’utilizzo di questo concetto oltre il perimetro delle scienze della terra e del clima, l’uso della sua carica metaforica per descrivere l’Antropocene, si devono principalmente a Bruno Latour (a sua volta debitore di uno scienziato), che scrive:
Per designare questo strato, questo biofilm, questa pellicola superficiale, Jérôme Gaillardet, mi ha insegnato a usare l’espressione ‘zona critica’. Termine piuttosto azzeccato, giacché comprenderne la tensione, la fragilità, il bordo, l’interfaccia è, in effetti, una questione critica. […] Vivere in una zona critica […] significa imparare a durare un po’ più a lungo, senza mettere in pericolo l’abitabilità delle forme di vita che verranno dopo. Il termine ‘critico’ non rimanda più soltanto a una qualità soggettiva e intellettuale, ma a una situazione pericolosa e profondamente oggettiva, dando prova di prossimità critica.
In queste pagine proverò a forzare ulteriormente il lessico scientifico di provenienza, utilizzando l’espressione zona critica per designare l’insieme delle “prossimità critiche” che costituiscono l’habitat di Homo sapiens e di molte altre specie nella tarda modernità. Avendo in mente, in via prioritaria, l’ambito ecologico e quello tecnologico, anche nei loro intrecci che in modo sempre più evidente costituiscono la trama del mondo. La zona critica di Olduvai, dove diverse specie del genere homo e i loro antenati hanno messo in atto in milioni di anni quella che oggi chiameremmo “resilienza”, è diventata la condizione spazio-epocale di un mondo che non si può lasciare, ma solo diversamente abitare. […] A chi importa dell’uomo, in fondo, se non ai suoi “detrattori”? A tutti quelli che hanno in antipatia il suo autocompiacimento di specie? A chi si concentra sul dark side del suo straordinario progresso e dominio? Non sono forse le sparute ma agguerrite pattuglie di antiumanisti, antispecisti, ecologisti più o meno “profondi”, critici severi dell’homo deus tecnologico, nemici giurati del principio antropico, le sole a prendere sul serio la salvezza?
Un compito non facile, beninteso, nel deserto culturale, immaginativo, cognitivo, di una tarda modernità impregnata di una “normalità” scaduta in cui sudditi e sovrani, alla fine connessi, si attardano a celebrare i riti dello sviluppo. Senza curarsi dei rifiuti alla fine della festa, né delle trappole disseminate lungo i percorsi del determinismo tecnologico. E men che meno di tutti i conspecifici che non possono nemmeno definirsi sudditi, essendo esclusi anche dal raschiamento del fondo del barile e dalle promesse salvifiche del neuro-tecno-capitalismo. Non sono forse gli esemplari più “normali” della specie Homo Sapiens gli autentici “umanisti”? I soli a perseguire-proseguire un progetto umano che sembra via via rivelarsi come un paradossale rovesciamento dello scientismo-illuminismo in un desiderio inconfessato di collasso? “Chi cerca esseri umani troverà acrobati”, per dirla con Sloterdijk. E ci vorrà un’acrobazia anche per obbedire all’imperativo di reinventarsi “diversamente umanisti”.
Il concetto di zona critica consente di mettere a fuoco interdipendenze che dovrebbero risultare ovvie.
Salvezza. Ma la salvezza di chi? O di che cosa? Ecco un primo ostacolo nel nostro incespicare lungo i reticoli della zona critica: le parole. Così come accade a transizione, sostenibilità, intelligenza artificiale…, anche la parola salvezza non sfugge alle regole di un marketing semantico che ne oscura il senso, la pertinenza, per assicurare a noi Moderni l’illusione di una permanenza. Non c’è un “pianeta da salvare” dalla nostra ingordigia, né un’anima dal castigo divino. L’oggetto della salvezza è in primo luogo una specie, la nostra. Anche, e soprattutto, per chi sembra avere più a cuore le altre. Anche, e soprattutto, per chi invocherebbe un castigo almeno mondano da infliggere ai Moderni, alla loro hybris, all’“umanismo” che ha scambiato la “civiltà” per l’umanità (c’è un prodotto più genuinamente occidentale dell’umanismo?).
Ma per quanto lo si detronizzi, lo si decentri, o lo si metamorfizzi con il resto del vivente, accogliendo quei saperi “altri” che l’etnologia indaga da oltre un secolo, per l’uomo (occidentale, ma non solo) la domanda delle domande riguarda sé stesso, la propria natura, il proprio posto nel mondo che ha scoperto non essere più suo; il proprio destino. Un destino su cui ci si può interrogare in termini di civiltà o di specie, a seconda che ci si collochi all’interno delle vecchie dinamiche e classi sociali, o di una nuova “classe ecologica” auspicata da Bruno Latour nel suo ultimo manifesto-testamento; a seconda che si professi la fede tecno-soluzionista o che si osservino in controluce i progressi e i benefici delle tecnologie per coglierne anche i rischi che un numero crescente dei loro designer chiama da tempo “esistenziali”.
In definitiva: dobbiamo sbarazzarci dell’umanismo per muoverci nella zona critica? Forse sì, se ne interpretiamo gli esiti sotto il segno del dominio, dello sfruttamento, di quell’“oblio dell’essere” heideggeriano che oggi potremmo attualizzare come “dimenticanza della Terra”. Tuttavia, anche dopo aver decretato che non siamo i “padroni dell’ente” – come ha fatto Martin Heidegger in quello che probabilmente è il più importante manifesto antiumanista del Novecento – non ci ritroviamo forse nei panni di “pastori dell’essere”, secondo una delle espressioni più note del filosofo della Foresta Nera?
Non c’è un ‘pianeta da salvare’ dalla nostra ingordigia, né un’anima dal castigo divino: l’oggetto della salvezza è in primo luogo una specie, la nostra.
[…] La contrapposizione umanismo-antiumanismo può essere equivoca, fuorviante, deresponsabilizzante, per cercare nuovi e inauditi modi di abitare la zona critica che costituisce lo spazio e il tempo della tarda modernità per la nostra e molte altre specie. L’antiumanismo di Heidegger, per dire, non si rivela in realtà un “iper-umanismo” figlio di una concezione che colloca l’uomo in un rapporto di differenza ontologica, e non di specie o di genere, rispetto agli altri animali? In un dialogo a distanza con Clive Hamilton, Bruno Latour si pone il problema dell’abbandono di ogni forma di umanismo, ammettendo che la tentazione è forte, ora che tutte le forme di vita sembrano aver imboccato la stessa direzione, la stessa china, al seguito di quell’unica forma di vita che si è autoproclamata sapiens e che una volta raggiunta la terra promessa della modernità sembra in preda a una freudiana pulsione di morte.
Ma sarebbe una vigliaccata – osserva l’antropologo-filosofo francese scomparso nel 2022 – abbandonare l’antropocentrismo proprio nel momento in cui gli umani modernizzati, per numero, per le loro ingiustizie, per la loro espansione universale cominciano a gravare sulle altre forme di vita al punto da valere, secondo certi calcoli, come agenti di una sesta estinzione. Come osserva sdegnato Clive Hamilton, non è certo questo il momento per gli umani di rifiutare il fardello che la loro presenza multiforme fa pesare su tutti gli altri viventi. Forse ha ragione chi critica il termine di “antropocene”, fatto sta che segna esattamente l’obiettivo da raggiungere nel momento in cui si comprende che abbracciare l’antiumanismo sarebbe una fuga in avanti, un altro modo, per Atlante, di abbandonare la missione di cui si è fatto carico per incoscienza. Non può disfarsi di questo schiacciante fardello con una semplice scrollata di spalle – Atlas shrugged all over again? Se il mito di Atlante ha ancora un senso è piuttosto quello di togliere il peso che alcuni popoli fanno gravare su altri.
Nel percorso, non sempre agevole, attraverso il pensiero di Latour, queste semplici parole fanno piazza pulita di molte altre più “sofisticate” radicalizzazioni antiumaniste e antispeciste. Si tratta di una filosofia morale basata sul “principio responsabilità”, su “un’etica per la civiltà tecnologica”. E dovrebbe essere del tutto ovvio che questa nuova centralità attribuita ad anthropos non mette affatto in discussione la filosofia col martello che ha abbattuto quella “vecchia”. Non ricolloca l’uomo sul sedile del cocchiere. Si tratta al contrario di un “umanismo di servizio”, utilitarista se si vuole, in nome di un “vita tua, vita mea” che è il solo modo per abitare nella zona critica: in con-dominio.
Siamo immersi in nuvole tecno-sociali, nuotiamo liberi nei saperi orizzontali e condivisi, ma inciampiamo in detriti culturali e cognitivi che pensavamo di aver seppellito per sempre grazie al “progresso”. Ci immaginiamo protesi verso spazi di vita green e smart, ma viviamo ancora nel tempo e nello spazio della grande accelerazione estrattiva, della crescente complessità, dell’accumulo e dello spreco, del neocolonialismo-discarica grazie al quale ci approvvigioniamo di materia prima per le nostre futuribili economie “immateriali”. Ma noi Moderni siamo fatti, anzi siamo nati così: protesi verso un altrove immaginato come un’infinita dispensa. Un altrove che siamo anche capaci di amare in modo disinteressato, tuttavia; finché non bussa o preme.
Non è certo questo il momento per gli umani di rifiutare il fardello che la loro presenza multiforme fa pesare su tutti gli altri viventi.
La zona critica è lo spazio-tempo delle vite altrui (umane e non umane) che assediano la dimora dei Moderni, ma anche della vita propria, a cui la tecnologia garantirà un upgrade in termini di qualità ed estensione, a patto che non si vada troppo per il sottile – alzando paletti bioetici – sul limite oltre il quale il beneficio sconfina nello “spaesamento”, in uno sfratto del senso in nome dell’inevitabilità del progresso. In un breve saggio di inizio secolo Peter Sloterdijk avvertiva che, dopo le tre umiliazioni freudiane al narcisismo antropologico,
già si annunciano due ospiti ancora più spaesanti, che promettono di gettare fuori definitivamente l’uomo dalla sua casa: da un lato la ferita ecologica dimostra che gli uomini delle culture calde da lungo tempo misconoscono e distruggono i sistemi-ambiente complessi, che non sono capaci né di comprendere né tanto meno di preservare Infine, va considerata una ferita neurobiologica, che proviene dall’alleanza tra genetica, bionica e robotica, che fa sì che le manifestazioni più intime dell’esistenza umana, come la creatività, l’amore e la libertà di scegliere, sprofondino in una palude satura di fuochi fatui, fatta cioè di tecnologie riflessive, terapie e giochi di potere.
In questo passo già si prefigurano l’alfa e l’omega di un’indagine sulla zona critica della modernità matura. In termini di “ferite”, ma anche di “trend impersonali” – come l’autore specifica poco più avanti – che si impongono come qualcosa di irresistibile, “al di là di ogni rifiuto o adesione”, come qualcosa che in tempi più antichi veniva descritto nei termini del destinale. E qui ci imbattiamo in una seconda domanda cruciale nel nostro procedere a tentoni: è inevitabile? O più precisamente: sono inevitabili come un destino il benessere eco-incompatibile e l’“ultima” tecnologia la cui essenza è l’imprevedibile? La domanda viene aggirata dai Moderni con la sostenibilità sul fronte ecologico e con il soluzionismo su quello tecnologico. Fino quando sarà possibile, posto che lo “sviluppo sostenibile” si rivela sempre di più una favola ambientalista e il soluzionismo una favola tecnologica confezionata da Big-tech?
[…] Questa dovrebbe essere un’introduzione. Ma a che cosa? Come posso mostrarvi la mia casa se all’interno delle sue mura mi sento smarrito? Se sono le stesse mura a incombere come possibile minaccia, piuttosto che a garantire protezione. È un difficile inizio. Non mi resta che procedere a tentoni nella zona critica, passo dopo passo, provando a “tracciare la rotta”, per dirla ancora con Latour, al di fuori di un’infosfera che contiene per lo più merce deteriorata, usurata dal Novecento, anche se il contenitore quasi di giorno in giorno si aggiorna, ci incanta con le meraviglie delle sue innovazioni, del suo design.
Non ci resta che provare ad attuare piccoli, quotidiani, sabotaggi culturali. Per dare un senso allo smarrimento e da quel senso ritrovare il bandolo della matassa, compito necessario e urgente, a patto che si sappia dove cercare. Lo sappiamo? No. O non ancora. Annaspiamo di crisi in crisi, di emergenza in emergenza, affidandoci ai rispettivi “specialisti”, confidando nei loro saperi cunicolari, nell’invisibilità dell’unica autentica crisi, quella del pensiero, che come scrive Edgar Morin “dipende [anche] dalla separazione e dalla frammentazione delle conoscenze, la cui riunificazione è considerata impossibile, rendendo quindi unilaterale, incompleta e di parte ogni considerazione relativa alla società, alla storia e alle crisi medesime”.
Un estratto da Zona critica. Esercizi di futuro tra ecologia e tecnologia di Marco Pacini (Meltemi, 2024).