P ubblicato per la prima volta nel 1953, Il nodo di Gordio è uno scritto nel quale Ernst Jünger affronta la relazione archetipica tra Oriente e Occidente. Al momento dell’uscita del libro sono passati meno di dieci anni dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale e, intorno alle rovine d’Europa, già si va delineando lo scontro che definirà gli equilibri globali per i successivi quarant’anni: la Guerra Fredda. Nell’architettura intellettuale proposta da Jünger, l’incontro tra Oriente e Occidente ha come sfondo il fragore della battaglia, il suono cupo degli eserciti in marcia. Scrive così il filosofo tedesco nelle prime righe del testo:
Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena. Eserciti, falangi, argiraspidi, elefanti, mischie tra crociati e saraceni, battaglie navali nel Levante, colonne di carri armati e squadriglie di aeroplani, disfatte nei ghiacci e nei deserti distruzioni di città dai tempi di Demetrio Pliocrate, Tito e Tamerlano fino ai nostri giorni: tutto ciò si imprime nella memoria. Seguono però sempre secoli di pace, periodi di tranquillità dall’estremo Nord ai confini dell’Africa.
Lo scontro tra Oriente e Occidente ha per Jünger una valenza importante, poiché concorre a definire il secondo nei termini positivi della libertà contrapposta al dispotismo del primo, dell’individuo che si afferma al di sopra della massa. Sbaglierebbe però chi, leggendo questa sbrigativa sintesi del pensiero di Jünger, pensasse che il filosofo tedesco voglia attribuire tale valenza all’Occidente e all’Oriente geopolitici che cominciavano ad affrontarsi all’epoca in cui Il nodo di Gordio venne scritto e pubblicato. “Occorre ricordare ancora una volta”, spiega Jünger, “che Oriente e Occidente non devono essere concepiti come luoghi assoluti, ma come metafore di due atteggiamenti umani fondamentali”.
Occorre ricordare ancora una volta, spiega Jünger, che Oriente e Occidente non devono essere concepiti come luoghi assoluti.
Le dicotomie che definiscono questo incontro – libertà e dispotismo, massa e individuo, mythos ed ethos – appartengono piuttosto alle strutture ancestrali dell’animo umano, nelle cui profondità esse si agitano alla ricerca incessante di un equilibrio in grado di garantirne l’unità. Tuttavia, facendo forse un piccolo torto alla complessità del pensiero di Jünger, se ci venisse chiesto di indicare un luogo geografico dove l’incontro-scontro tra Oriente e Occidente si determina e si è determinato con maggiore evidenza nel corso della Storia, quel luogo sarebbe senza dubbio il corso del Danubio.
Coi suoi 2.860 chilometri di lunghezza, questo fiume, che sgorga nel cuore della Foresta Nera dalla confluenza di due piccoli corsi d’acqua, il Brigach e il Berg, scorre da Ovest verso Est – unico fiume del continente ad avere un simile corso – attraversando l’Europa centro-orientale per sfociare in un ampio delta che si getta nel Mar Nero. Lungo il suo tragitto, il fiume bagna dieci diverse nazioni – Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia, Romania, Bulgaria, Moldavia e Ucraina – e ben quattro capitali: Vienna, Budapest, Bratislava e Belgrado. In virtù di queste sue caratteristiche fisiche, il Danubio è dunque, al tempo stesso, il confine che separa l’Europa da una parte e l’Asia dall’altra, e la soglia che ne regola gli scambi e le rispettive traduzioni – il limite tra la semiosfera europea e quella asiatica, per usare il concetto elaborato da Jurij Lotman nell’omonimo saggio del 1984.
È proprio questa natura porosa e permeabile del confine tracciato dal Danubio laddove l’Europa si confonde all’Asia e viceversa che si ritrova tra le pagine di Il Danubio. Un viaggio controcorrente dal Mar Nero alla Foresta Nera, colto e stratificato reportage di viaggio firmato dal reporter Nick Thorpe e pubblicato in Italia da Keller. Nato nel 1960 a Upnor, in Inghilterra, Thorpe vive dal 1986 a Budapest dove lavora come filmaker e giornalista, ricoprendo dal 1996 il ruolo di corrispondente dall’Europa centrale per la BBC. Nel 2011, Thorpe decide di risalire il corso del Danubio dal delta alla sorgente, viaggiando a piedi, in bici e in automobile per raccontare e raccogliere tutte le storie che intorno al fiume s’intrecciano.
Nel 2011 Thorpe decide di risalire il corso del Danubio dal delta alla sorgente, per raccontare le storie che intorno al fiume s’intrecciano.
Un progetto simile non può non evocare, per chi vi si è già confrontato, un’altra grande opera di viaggio che mette il Danubio al centro dell’attenzione: Danubio di Claudio Magris (1986), di cui il libro di Thorpe sembra essere il doppio speculare. E questo non solo perché il viaggio del reporter britannico si svolge nella direzione opposta, dalla foce alla sorgente, rispetto a quello dello scrittore italiano, dalla sorgente alla foce, ma anche perché se l’opera di Magris era dedicata a ricostruire una galleria di ritratti di personaggi più o meno noti della storia, della cultura e della letteratura mitteleuropea, quella di Thorpe mette invece al centro della sua attenzione le persone più che i personaggi, i paesaggi più che gli immaginari, la natura più che la cultura.
Il reportage di viaggio che nasce da questo progetto è un testo solido che, mentre procede poderoso controcorrente, aggiorna la tradizione di Patrick Leigh Fermor e Neal Ascherson con innesti di nature writing, sapere geografico, miti, storia naturale e una postura sempre attenta e rivolta all’ascolto delle voci che Thorpe incontra lungo il cammino e di cui raccoglie le impressioni con sguardo mai giudicante, severo o naif di chi ha scelto di radicarsi in un luogo e ne ha costruito, col tempo, un senso di appartenenza tale da poterlo investire del ruolo di casa.
Dalla scrittura di Thorpe affiorano così una serie di temi che, nel corso del libro e del viaggio, si ripresentano al lettore variando di situazione in situazione, di luogo in luogo, eppure sempre riconoscibili come piccole, deliziose ossessioni. Vi è, tra questi temi, la natura del fiume come ponte o soglia tra civiltà simili, un tratto che ne caratterizza soprattutto la storia più antica. Quella di collegare più che dividere i popoli è una funzione che il Danubio ha svolto per secoli, come testimoniano le tracce del passato in cui Thorpe s’imbatte e che rimandano all’origine dell’Europa stessa. È infatti risalendo il corso del Danubio che, intorno al 6200 a.C. le popolazioni dell’Anatolia si insediarono nell’area sudorientale del nostro continente.
Thorpe mette al centro della sua attenzione le persone più che i personaggi, i paesaggi più che gli immaginari, la natura più che la cultura.
Il fiume e le sue rive sono state, a lungo, il cuore d’Europa: un’Europa antica senza la quale il continente che oggi abitiamo e la cultura che da esso irradia non sarebbero potuti esistere nella forma che hanno assunto. Una forma che, per riprendere ancora una volta il filo del pensiero di Jünger, deve tanto alla funzione di soglia esercitata dal fiume quanto a quella di confine naturale e politico che il Danubio ha ricoperto e ricopre tuttora. Si sussegue così, nelle pagine di Thorpe, una lunga teoria di rocche e fortezze che punteggiano il corso del fiume e ne sorvegliano gli snodi strategici. Ricordano un tempo di battaglie, scontri e stragi di cui il Danubio è stato testimone, e con esse il continuo formarsi e sfaldarsi di frontiere che, a volte, corrono lungo il letto del fiume mentre altre lo inglobano all’interno del grande spazio di una potenza politica anziché di un’altra.
Fu solo nel 1856, dopo interminabili conflitti, che gli Stati attraversati dal Danubio siglarono uno storico accordo per internazionalizzare il fiume della Mitteleuropa e concedere a chiunque la navigazione. Oggi, lungo le rive del fiume, corre la frontiera tra lo spazio politico dell’Europa e lo spazio post-sovietico di cui l’invasione dell’Ucraina ha tragicamente messo in evidenza tutte le contraddizioni e le difficoltà. Tuttavia, solo fino a pochi anni fa, di quello spazio politico sovietico il fiume faceva parte integrante, agendo più come raccordo che come limite, a testimonianza del fatto che ogni frontiera non è altro che una proiezione umana e, per questo, suscettibile sempre di essere rivista, ricostruita, ritracciata.
Ricompreso nel grande spazio sotto la Cortina di Ferro, il fiume veniva deviato, modificato, sfruttato per servire la visione dell’uomo.
È in questa tensione che emerge un altro dei temi forti su cui lo sguardo di Thorpe getta la sua luce. Ovunque si scorgono, lungo il Danubio, i segni e le storie della caduta del comunismo, e molti degli incontri che il reporter fa durante il suo viaggio vertono intorno a una domanda: come si (soprav)vive al tracollo di una grande potenza? Come si abita lo spazio del dopo, lo spazio del post? Una questione che non si esaurisce nel ricambio di ideologie, il comunismo contro il libero mercato, o di ordinamenti, quello sovietico prima e quello comunitario poi, ma si prolunga nella dimensione molecolare delle singole esistenze. Come si sopravvive quando intorno a te nulla sembra cambiare, eppure tutto sta cambiando?
’La vita era migliore ai tempi del comunismo’, dice. ‘C’erano animali e lavoro per tutti. C’erano tremila capi di pecore in paese allora… adesso non arrivano a una cinquantina. La gente faceva più figli allora… da cinque a dieci per famiglia’. Lui e la moglie fanno un rapido calcolo per contare quanti bambini vivono oggi nelle dieci case tra la loro abitazione e la chiesa. Sono solo tre.‘Qualcosa è migliorato oggi?’, chiedo. Lui scuote il capo per un attimo, poi si rallegra. ‘Solo una cosa’, risponde. ‘Sotto il comunismo ogni tanto arrivavano i poliziotti e ci picchiavano. Adesso non lo fanno più. Sono stati democratizzati!’. Sottolinea il termine con un tono profondamente ironico.
Così riflette Alexander, anziano contadino incontrato da Thorpe in Romania. Ma non serve allontanarsi di tanti chilometri per trovare pensieri diversi. Dice infatti Tudor, pescatore rumeno, un paio di pagine più avanti:
‘Adesso è tutto più facile di una volta. Allora si andava a remi. Non c’erano i motori, prima della rivoluzione del 1989. Erano tempi duri’. Si rammarica del divieto della pesca allo storione, ma dice che deve essere rispettato. Prova un gran disprezzo per quei colleghi che usano mezzi illegali per pescare, come ad esempio i cavi elettrici attaccati alla batteria della macchina.
Due brevi passaggi, colti l’uno a poca distanza dall’altro nel libro, che mostrano come il cambiamento non sia mai a senso unico, ma che il suo senso lo acquisti sempre a partire da uno sguardo e da un’esperienza situati, incarnati nel corpo di chi ne vive gli effetti. Lo stesso vale per la natura: come le persone, anche lei subisce e reagisce ai cambiamenti. Ricompreso nel grande spazio sotto la Cortina di Ferro, il fiume veniva deviato, modificato, sfruttato per servire la visione dell’uomo – il Danubio è tra i fiumi europei ad aver subito il maggior numero di interventi idraulici, e nel suo corso si contano oggi oltre 700 dighe. Alla sua dissoluzione, però, la natura mostrava una notevole capacità di resilienza, riprendendosi in modi imprevedibili gli spazi che le erano stati sottratti. La scrittura di Thorpe si sofferma a lungo, e in molti passi, a ricostruire il modo in cui, di strato in strato, la storia naturale ha disegnato il sottile equilibrio su cui si regge il grande fiume che chiamiamo Danubio.
Il tempo storico dell’uomo si fa, in questi passaggi, tempo cosmico dalla lunga, lunghissima durata e, come tale, getta uno sguardo verso un domani sempre più incerto. Incerto per i segni del riscaldamento globale, che Thorpe descrive nelle loro manifestazioni sempre più serrate, ma incerto anche perché, nel violento ritorno della storia che ha segnato gli anni appena trascorsi, le ombre dello scontro tra Oriente e Occidente sono tornate a proiettarsi sul destino del mondo. Cosa ne sarà allora degli archetipi jüngeriani e del grande fiume che li materializza, possiamo solo provare a immaginarlo.