C on il concetto di “mutazione antropologica”, Pasolini si riferiva a un cambiamento irreversibile avvenuto nella psiche, nella coscienza e nella cultura degli Italiani. Un cambiamento, manco a dirlo, negativo. Dal dopoguerra in poi, il capitalismo maturo aveva prodotto un benessere diffuso il cui figlio indesiderato si chiamava consumismo. In questo panorama, nel giro di pochissimi anni, sono scomparsi gli uomini così come si conoscevano al tempo, i caratteri tipici dei proletari e dei sottoproletari, i loro usi e costumi, le tradizioni locali e l’intero sistema di valori di un mondo che collassava sull’idealtipo di un piccolo borghese generico, uguale al nord e al sud, senza passato né futuro.
Tutto questo però, non sarebbe stato possibile senza un vettore specifico, un medium: la televisione. Attraverso la televisione si sono imposti desideri alieni, stili di vita e modi di pensare che hanno divorato ogni Weltanschauung singolare e situata. Una vera e propria lingua, strictu sensu e sensu lato, perché solo con la televisione quella lingua intellettuale chiamata italiano standard è diventata cosa viva e ha portato tutti a comunicare con tutti, dicendo le stesse cose, volendo le stesse cose.
Così pensava Pasolini a circa vent’anni dall’inizio di quel processo storico. Oggi, a 20 anni precisi dall’apertura di Facebook, voglio affrontare con la stessa categoria concettuale l’impatto che ha avuto sulla nostra vita: una mutazione antropologica. Non siamo più quelli di 20 anni fa, i desideri, i problemi e le aspirazioni – piccole e grandi – con cui facciamo i conti quotidianamente sarebbero incomprensibili e praticamente incomunicabili a un uomo che vive all’alba del nostro secolo. Spiegare che esisteranno coppie che litigano e si lasciano per un like all’umanità del 2003 presenterebbe le stesse difficoltà di illustrare l’automobile a un antico romano o la televisione a un signore di metà Ottocento. Forse maggiori.
E la responsabilità di questa mutazione antropologica, repentina e radicale, ricade su un singolo sito che ha ricodificato il nostro essere sociale. Non su internet, non sui computer e neppure sugli smartphone. Certo, ciascuna di queste innovazioni tecnologiche ha consentito a Facebook di manifestarsi e ha rivoluzionato tanti aspetti del nostro mondo. Ma il responsabile di questa mutazione antropologica è il Social Network come lo conosciamo, cioè un modo preciso di organizzare la comunità umana nell’era digitale.
Il responsabile di questa mutazione antropologica è il Social Network come lo conosciamo.
Per quanto preciso e implacabile nelle sue conseguenze psicosociali, il mix di elementi che hanno reso Facebook tale è nato quasi per caso, frutto di un contesto molto particolare. La storia è nota, raccontata già a pochi anni dal boom nell’onesto The Social Network di David Fincher. Mark Zuckerberg è uno studente un po’ sfigato dell’Università di Harvard che, cercando di rimorchiare, partorisce un’idea che cambierà per sempre il corso della storia umana. Ai fini del discorso, poco ci importa dei suoi tratti antisociali, dei tradimenti incrociati con i collaboratori dell’epoca. Ci interessa l’idea.
A ispirare cotanta rivoluzione digitale è stato un modesto oggetto analogico, il face book delle università statunitensi. Parzialmente noto al resto del mondo grazie a Hollywood, il face book è una roba tutta americana e consiste di un album fotografico che contiene le facce e i nomi di tutti gli studenti, corredate da qualche riga di presentazione, per permettere loro di socializzare meglio. Zuckerberg pensa bene di trasferire questo album su internet, animandolo. Se il fine è socializzare, gli studenti gestiranno il loro profilo, la loro porzione del face book, interagendo gli uni con gli altri. Thefacebook (così si chiamava inizialmente) va online nel febbraio del 2004. Nei mesi seguenti il servizio si apre alle altre università e nel giro di due anni al pubblico generalista: chiunque può iscriversi a Facebook. E ci si iscrive. Tra il 2007 e il 2008 Facebook fa il boom, milioni di iscritti in tutto il mondo lo rendono una realtà, anzi LA realtà.
Come è potuto succedere? Per capirlo occorre individuare i tre elementi che hanno permesso a facebook di codificare il Social Network, una forma di socialità completamente diversa dalle precedenti, comprese quelle virtuali. I tre elementi sono: rete, profilo e identità.
Bisogna quindi fare un passo indietro e vedere cosa c’era nell’Internet dei 2000, che tipo di socialità virtuale si viveva prima che Zuckerberg facesse saltare il banco. Fin dai suoi albori, il World Wide Web è stato uno spazio di socialità. Chat, newsgroup e forum costituivano le principali arene di discussione di internet. Erano tanti, spesso divisi per tematiche e avevano delle caratteristiche comuni che, oggi, risaltano per contrasto con i social network moderni. Per prima cosa non erano profili ma appunto arene. Sì, ogni utente accedeva tramite un account personale che poteva corredare con una biografia, delle foto e così via ma lo spazio di discussione era un luogo comune. Secondariamente, la quasi totalità degli utenti usava dei soprannomi, dei nickname, che garantivano l’anonimato. Su questo torneremo tra poco. L’ultimo fattore da considerare è che erano appunto tanti. C’erano community più grandi di altre, ma nessuna poteva ambire ad avere una centralità significativa, figuriamoci un monopolio. Internet era ancora un luogo molteplice, plurale, caotico, la cui esperienza era diversa per ogni utente.
Che tipo di socialità virtuale si viveva prima che Zuckerberg facesse saltare il banco?
Che Internet fosse un posto troppo grande era già chiaro a chi si occupava dell’altro aspetto del World Wide Web, la condivisione e la diffusione delle informazioni. I motori di ricerca nascono proprio a questo scopo: centralizzare Internet, ridurre la sua vastità impraticabile. Nella socialità sorgeva lo stesso problema. Si chiama “rete” ma dov’è la rete? Dov’è il network se ognuno di noi si rifugia in comunità scollegate le une dalle altre?
Il Social Network riesce a imporsi come rete principale di socialità virtuale attraverso un paradosso: non fornisce un’arena ma crea un individuo. Il profilo è il colpo di genio dei Social Network che Zuckerberg si ritrova per le mani “naturalmente”, ispirandosi all’album di foto del suo college. Ma qualcuno ci era già arrivato. Questo è il punto in cui gli storici del web alzano il ditino e affermano che Myspace, nato quasi un anno prima, offriva praticamente lo stesso servizio. Ed è vero. L’intuizione fondamentale della creatura di Thomas Anderson e Chris DeWolfe era loro tanto chiara da farne il brand: MySpace, il mio spazio. A differenza di forum e chat, nel Social Network si interagisce a partire dai propri profili, l’arena comune non esiste ma solo spazi di socialità – pubblici o privati – che si aprono a “casa di qualcuno”, come dicono oggi quelli pronti a bloccarti quando commenti qualcosa che non gli piace sulla loro bacheca. Questi individui, ognuno con la propria personalità, la propria storia, la propria estetica, gusti, interessi e passioni, fanno socialità semplicemente ritrovandosi immersi in quella rete che gli ha permesso di soggettivarsi.
Ma allora perché MySpace, nonostante sia venuto prima, è morto proprio a seguito dell’espansione di Facebook? Col senno di poi si possono accampare molte ragioni: Myspace riusciva a attrarre solo un pubblico giovane, era diventato troppo focalizzato sulla musica e così via. Ma sono spiegazioni che non spiegano: perché Myspace non è riuscito a raggiungere il pubblico generalista e invece Facebook sì? D’altronde nel brand non c’era scritto “Giovani Musicisti” ma “MySpace”, il tuo spazio, chiunque tu sia. E durante il testa a testa della seconda metà degli anni zero potete giurare che avrebbe sacrificato volentieri centinaia di rockband della domenica per prendersi i milioni di utenti senza chitarra in mano. Come ha fatto Facebook a rompere il vetro di cristallo anagrafico, attirando persone di tutte le età dentro una socialità virtuale che non avevano neanche immaginato esistesse?
Qui entra in gioco l’ultimo fattore della rivoluzione operata da Facebook, quello decisivo: l’Identità. Il nuovo assoluto che Facebook introduce nella cultura internet della metà degli anni zero è la richiesta – più o meno mandatoria – di registrarsi con la propria identità reale: il tuo nome, il tuo cognome, la tua faccia.
Perché MySpace, nonostante sia venuto prima, è morto proprio a seguito dell’espansione di Facebook?
Era forse vietato da qualche legge? No, peggio, era un tabù. Nessuna legge vietava di frequentare Internet con i propri dati reali, le community si limitavano a suggerire un nickname e un “avatar” come foto eppure quasi nessuno disobbediva. Le motivazioni dietro questa ritrosia generalizzata erano piuttosto nebulose. Ai più piccoli – che, ricordiamo, costituivano il cuore demografico di Internet – si paventavano pedofili e predatori sessuali in grado di rintracciarli se davano troppa confidenza. Ai più grandi si diceva praticamente la stessa cosa ma a farne le spese sarebbero state le loro carte di credito. Si era tutti vittime di una sorta di dark forest theory secondo cui il primo tanto ingenuo da rivelare i suoi dati sensibili sarebbe stato assalito dai peggiori malintenzionati della galassia. Minacce francamente assurde che saltavano due o tre passaggi logici importanti.
Si chiama tabù proprio per questo: il terrore sacro di compiere un gesto per paura di una punizione senza un vero e proprio impianto razionale che giustifichi il divieto. Nel suo seminale saggio del 1913, Freud nota una cosa interessante dei tabù in vigore presso le società primitive. L’infrazione del tabù minacciava la base dell’ordine sociale perché, lungi dal colpire solo il singolo colpevole, era foriera di contagio. Il colpevole diveniva esso stesso veicolo di tabù, un infetto carico di mana negativo in grado di trascinare uno a uno tutti i suoi pari nell’infrazione del tabù. Poiché il mana non esiste, Freud deduce che ciò di cui hanno davvero paura “i selvaggi” è l’imitazione del gesto proibito: “Se l’ha fatto lui e non gli è successo nulla, perché non posso farlo anche io?”. Questo ha un’altra agghiacciante implicazione: tutte quelle cose che i selvaggi si vietano, mostrando sommo orrore solo a pensarci, in realtà le desiderano. Adoperando i saperi della psicoanalisi, Freud ipotizza che, come nei nevrotici ossessivi, ogni gesto, persona, cosa proibita era in principio desiderata e che il tabù acquista la sua forza di interdizione, assoluta e inspiegabile, dalla forza di questo desiderio rimosso.
Nient’altro può spiegare le scene incredibili che si sono parate davanti ai nostri occhi alla fine dell’estate del 2008. Dal nerd scafato che mai e poi mai avrebbe rivelato chi fosse al Sistema, a tua zia che usava internet solo per controllare il meteo, tutti si sono riversati in massa su Facebook ben felici di dargli finalmente nome, cognome e faccia. La diga che tratteneva il desiderio era crollata di botto, non c’erano punizioni divine, nessun mitologico pedofilo, nessun espertissimo ladro di bancomat. Si poteva fare. E lo facemmo, tutti. (Scoprimmo in seguito che il ladro di bancomat altri non era che Zuckerberg stesso, ma questa è un’altra storia).
Rete, profilo e identità, dicevamo. Dall’interazione di questi tre elementi emerge il paradigma del Social Network moderno e la conseguente mutazione antropologica che ha prodotto nelle nostre vite. In cosa consiste questa mutazione? Dovessi dirlo con una sola, lapidaria affermazione: siamo diventati tutti famosi.
Rete, profilo e identità. Dall’interazione di questi tre elementi emerge il paradigma del Social Network moderno.
Se vi suona perentorio o direttamente ridicolo è perché la maggior parte delle critiche ai social network lo hanno affermato dalla prospettiva opposta. Quello che si sente dire così spesso da essere venuto a noia, tanto a livello di chiacchiere da bar quanto accademico, è che il Social Network incentivi alcuni tratti caratteriali quali il narcisismo, l’istrionismo, la mitomania, un’eccessiva sensibilità verso le opinioni che gli altri hanno di noi che può sfociare in veri e propri casi di paranoia. Per quanto si rischi di fare un uso disinvolto di categorie psichiatriche, queste osservazioni sono tutto sommato corrette e descrivono bene quelle brutte tendenze che vediamo in noi stessi e negli altri. E però sono, ancora una volta, spiegazioni che non spiegano. L’analisi è tutta spostata sugli effetti che il Social Network ha sugli individui ma non ci dice perché li ha.
Invece di focalizzarci sulla psicologia individuale dovremmo guardare che tipo di condizioni materiali fanno emergere queste tendenze. Scopriremmo allora che se tutti gli individui mostrano di più certi tratti caratteriali, questi non sono devianti rispetto al contesto sociale, al contrario: sono l’adattamento più funzionale, la risposta migliore.
Per via dell’architettura sopra descritta, il Social Network ha generalizzato una condizione sociale che prima era appannaggio di un ristrettissimo gruppo di individui – gruppo che mostra sproporzionatamente i tratti caratteriali che abbiamo isolato: la condizione della celebrità.
Nell’architettura del Social Network interagiamo come un uno che si rivolge a molti, a un numero imprecisato di ascoltatori, diversi dei quali neppure conosciamo. È la struttura del palcoscenico. Pensateci, quante volte fuori dai social network vi siete trovati a vivere un’interazione simile dalla parte del palcoscenico? Per la stragrande maggioranza dei viventi, dall’età della pietra al 2004, era una situazione che poteva non verificarsi mai oppure solo occasionalmente: la recita scolastica, la presentazione ai colleghi d’ufficio, la poesia di Natale. Oggi ci troviamo a vivere questa interazione ogni giorno, più volte al giorno, ogni volta che “postiamo qualcosa”. Solo una ristrettissima cerchia di individui viveva con costanza questo tipo di interazione alienata e alienante, le chiamavamo figure pubbliche o V.I.P.
Invece di focalizzarci sulla psicologia individuale dovremmo guardare che tipo di condizioni materiali fanno emergere queste tendenze.
A questo punto potreste pensare io stia straparlando e che l’attenzione che ricevono le figure pubbliche non è neanche paragonabile a quella che ricevete voi e i vostri amici. E da un certo punto di vista, avete ragione: sono situazioni quantitativamente imparagonabili. Ma lo sono qualitativamente? Se dovessimo dare una definizione della fama, una di quelle definizioni filosofiche eleganti che non lasciano scampo a eccezioni, diremmo: la fama è essere conosciuti da qualcuno che non conosci. Fosse anche una sola persona. La fama si distingue, per esempio, dalla reputazione (che tutte le persone inserite in una società hanno avuto) perché la reputazione è l’opinione che hanno di te tutti coloro che ti conoscono. La fama è l’opinione che di te hanno precisamente coloro che non ti hanno mai conosciuto direttamente. La fama, come si suol dire, ci precede.
“Io non ti conosco, ma tu conosci me” sintetizza il Dr. Ketama, flexando il potere simbolico che gli viene da essere dal lato fortunato di questa relazione alienata. Più di ogni altra espressione artistica, il rap è stato un continuo discorso sulla fama, sulla brama di inseguirla e l’incubo di viverla, sulle figure che accerchiano il famoso, i fan… e gli hater. Questa parolina onnipresente nei discorsi di internet e su internet nacque proprio in ambito rap. I fan e gli hater – che spesso sono la stessa persona presa in due momenti diversi (o nello stesso momento, l’amore ambivalente ancora di Freud…) – sono il contraltare necessario del famoso: da un lato c’è il conosciuto, dall’altro i conoscenti.
Oltre al rap, questo tipo di relazione alienata, che la sociologia contemporanea ha definito parasociale, è stata oggetto di tante narrazioni nella letteratura e nel cinema, pensiamo a Martin Eden o all’Arturo Bandini di Fante, alla ufficiosa trilogia formata da Taxi Driver, Re per una notte e Il Joker, e a lungo si potrebbe continuare. Sono storie che raccontano la degradazione psicologica da entrambi i capi del rapporto. Il famoso e il conoscente sono stretti in una relazione impossibile, legati da un incontro che non può mai darsi davvero, persino quando si dà, poiché si è già dato fantasmaticamente e unilateralmente in precedenza.
Il Social Network ci getta in un contesto tale per cui viviamo entrambi i lati di questa relazione di continuo. Quando siamo noi a postare, siamo sul palcoscenico. Ci esponiamo al mondo con una foto, una polemica, una presa di posizione e sotto la performance vengono contati gli applausi (dette reazioni); a seguire troviamo le reazioni verbali, commenti di vario genere che possono vertere sul contenuto o – molto spesso – sulla nostra persona in sé. Approvazione, disapprovazione, odio, fino ai casi in cui si degenera in vere e proprie crisi reputazionali, chiamate shitstorm.
Nell’architettura del Social Network interagiamo come un uno che si rivolge a molti, diversi dei quali neppure conosciamo. È la struttura del palcoscenico.
Quando ci troviamo dall’altro lato, il feed ci nutre con una carrellata infinita di vite che non sono la nostra, vite che si mettono in mostra e ricevono attenzione. Curiosità, ammirazione, invidia, desiderio di imitazione o nausea della loro stessa esistenza (di cui parlavo qui): ci suscitano la medesima tavolozza emotiva dei VIP novecenteschi quando si intromettono nel nostro quotidiano da ogni mass media. Da questa tavolozza mancano proprio quelle emozioni orizzontali e reciproche che riserviamo agli amici, come Facebook si ostina a chiamare i contatti. Il rapporto è verticale, da qualunque punto lo si guardi.
Si noti che non è genericamente “colpa di internet” o della virtualità. Le community precedenti, spazi di discussione orizzontali come chat e forum, non producevano questo tipo di antropologia. La rete sociale strutturata come un insieme di profili che interagiscono a partire dai rispettivi palcoscenici e relative platee è un preciso modo di organizzare la socialità virtuale che oggi ci sembra naturale, scontato, l’unico possibile.
In tutto questo si potrebbe pensare che il terzo elemento introdotto da Facebook, l’identità tra Io anagrafico e Io digitale, non sia poi così essenziale all’architettura del Social Network. In fondo né Instagram né Twitter/X prescrivono il nome e cognome, lì la maggior parte delle persone usa un nickname ma presentano senza dubbio le stesse caratteristiche “famogene”.
Sebbene la coincidenza tra io anagrafico e io digitale non sia necessaria alla formazione di un contesto famogeno, solo per via di questa coincidenza ci troviamo tra le mani un problema sociale, una mutazione antropologica e non una bizzarria della nostra “Second Life” virtuale. Infatti, anche Instagram e Twitter/X soggiaciono al paradigma dell’identità di Facebook, anche se indirettamente. La norma implicita vuole che i nostri account Instagram e Twitter “reali” (che parola strana, no?) siano collegati all’account Facebook o comunque riconducibili alla nostra identità anagrafica. Altrimenti si parla di “finstagram” o più semplicemente di “fake”.
La rete sociale strutturata come un insieme di profili che interagiscono a partire dai rispettivi palcoscenici oggi ci sembra l’unico possibile.
Torniamo ancora una volta all’epoca dei forum, dove la parola fake è nata. In quel contesto, in cui tutti usavano dei nomi fittizi, il “fake” era il secondo account di un utente noto della community, usato allo scopo di creare scompiglio, alzare polemiche, condurre attacchi personali, cioè tutta una serie di comportamenti potenzialmente antisociali che avrebbero intaccato la reputazione del primo account. Oggi non è importante se siamo su Instagram o X con uno o più profili. Un account è fake se non rimanda a un preciso individuo in carne e ossa; se volete un esempio pratico: sono chiamati “fake” tutti quegli account che insultano Mentana e Parenzo senza che questi riescano a rintracciare le loro generalità per denunciarli. Infine pensiamo a quelle aziende che richiedono i vostri profili social o li consultano dietro le quinte (servendosi proprio del nome e cognome…). Una prassi spregevole che ci dice almeno due cose: primo che, a 20 anni dalla nascita di Facebook, è sospetto un giovane adulto privo di una proiezione digitale della sua identità. Secondo, che questa proiezione, lungi dall’essere un passatempo senza importanza, è considerata una fonte di informazioni preziose sulla affidabilità di un lavoratore.
La chiamo proiezione perché non si tratta di una seconda identità, un alter-ego come ancora potevano essere i nickname delle prime comunità digitali, ma una proiezione coerente del nostro sé, sebbene pirandellianamente deformata dagli sguardi di tutti gli altri che oggi sono davvero “centomila”. Secondo Hans-Georg Moeller, professore di filosofia all’università di Macao e autore del canale Carefree Wandering, è qualcosa di più: il nostro profilo è la nostra identità. Recentemente tradotto in italia da Mimesis, Moeller propone una genealogia originale di quelle che chiama tecnologie dell’identità. Nel corso della storia, sostiene, si sono avvicendate tre distinte tecnologie dell’identità: sincerità, autenticità, profilismo. La prima caratterizzava le società tradizionali che costruivano l’identità di ciascuno in relazione ai molteplici ruoli sociali che ricopriva: madre, figlia, moglie o marito, lavoratore, sacerdote e così via. La dignità e il senso di pienezza della vita di ciascuno derivava dalla sincerità con cui aderiva ai suoi ruoli sociali.
A incrinare questo paradigma millenario è stata la sensibilità individualista della seconda modernità, culminata nel sentire romantico del diciannovesimo secolo. L’identità non era più qualcosa che l’individuo doveva commerciare con l’esterno, aderendo al suo contesto sociale, al contrario: andava ricercata dentro di sé. I ruoli sociali altro non erano che maschere – più o meno necessarie – che celavano la nostra autentica identità, custodita dentro di noi. Ci suona molto familiare questo paradigma perché è stato egemone fino a pochissimo tempo fa ed ancora oggi è la mappa concettuale che molti seguirebbero se interrogati circa la propria identità. Il nuovo millennio ha inaugurato un terzo paradigma, che è quello che stiamo discutendo qui: il profilismo.
Riconoscere e affermare la propria identità consiste nella curatela di un profilo. Un profilo pubblico. Se da un lato sembra più vicino all’autenticità giacché è l’individuo a costruire il proprio profilo, dall’altro il profilo vive di pubblicità e deve essere riconosciuto e validato dall’esterno proprio come i ruoli sociali tradizionali della sincerità.
Ognuno sarà famoso per tutta la vita per almeno 15 persone.
Va notato che questi paradigmi non si sostituiscono integralmente, continuano a sussistere l’uno accanto all’altro e gli ultimi arrivati erano presenti anche prima che venisse la loro “epoca”. Pensiamo, per esempio, a come la lettura Socratica del “Conosci te stesso” anticipi il paradigma dell’autenticità. Ma pensiamo soprattutto a dove avremmo potuto scovare individui che si costruivano l’identità con il profilismo, prima che il Social Network fornisse un profilo a tutta l’umanità. Semplice, nelle figure pubbliche. Le celebrità novecentesche (le prime vere e proprie celebrità della storia ma argomentarlo ci porterebbe troppo lontano) già vivevano nel paradigma del profilismo o, come si dice in genere, della loro immagine. Costruire e mantenere la loro immagine pubblica era come esperivano le propria identità, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso.
Uno di loro – che tra gli svantaggi del caso annoverò un tentativo di omicidio – si lanciò in una famosa profezia circa il futuro universale di tale paradigma. “Nel futuro ognuno sarà famoso nel mondo per 15 minuti”, affermo Andy Warhol, sentenza che divenne essa stessa così famosa da nausearlo. Aveva ragione e torto insieme. Alle soglie del nuovo millennio, sembrava che la società dello spettacolo si stesse muovendo precisamente nella sua direzione. I reality show altro non sono che la concretizzazione di questa fantasia, la fama venduta a potenzialmente tutti i cittadini per un periodo limitato di tempo. Era il massimo che potevano concedere i mass-media tradizionali e Andy Warhol intravide questa possibilità.
Chi poteva prevedere che i media bottom-up, i Social Network, avrebbero invertito le categorie di spazio e tempo della profezia per realizzare un mondo in cui: “Ognuno sarà famoso per tutta la vita per almeno 15 persone”.