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el suo I rom. Una storia, Sergio Bontempelli, riassumendo la parabola di decenni di politiche italiane, scrive: I campi nomadi, concepiti nei primi anni come “camping etnic”, divenuti poi a tutti gli effetti delle favelas all’italiana o dei “campi profughi” fatti di container e baracche prefabbricate, si trasformavano (…) in una sorta di istituzioni correzionali. Il modello “sorvegliare e punire” diventava il tratto distintivo, l’elemento fondante della loro organizzazione interna.
Negli ultimi anni invece, in più città, si discute finalmente di piani per chiudere definitivamente i campi rom, ovvero quegli spazi dell’abitare voluti dalle amministrazioni pubbliche ed esclusivamente rivolti ad alcuni gruppi appartenenti alla galassia delle comunità romanès. L’ultimo di questi piani è quello proposto dalla giunta Gualtieri a Roma che prevede il completo superamento di questi luoghi entro il 2030.
Baraccopoli spontanee sono sorte ovunque in Europa, ma l’Italia è rimasta uno dei pochi paesi a prevedere, per legge, la presenza stabile di campi rom sul territorio. Se è vero, come alcuni sostengono, che ci troviamo di fronte alla fase crepuscolare di una politica durata decenni nei confronti delle comunità romanes di recente migrazione, è anche vero che più di una generazione è nata e cresciuta all’interno dei campi italiani, affrontandone, tutt’oggi, le conseguenze.
In Italia la politica dei campi nei confronti di alcune comunità rom nacque, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, come politica locale che si estenderà sempre più velocemente da Nord a Sud, concentrandosi maggiormente nelle città medio-grandi. L’inizio di questa politica coincide con l’arrivo in Italia di gruppi di rom provenienti dalla ex-Jugoslavia, a cui era consentito l’ingresso con visto turistico. Grazie a studiosi come Leonardo Piasere sappiamo che tali gruppi erano, per lo più, sedentari da diversi secoli nelle proprie città d’origine.
Tra il 1970 e il 1992 i rom jugoslavi che arrivarono in Italia furono circa 30.000, mentre altri 10.000 sarebbero arrivati negli anni immediatamente successivi alla guerra in Bosnia. “La maggioranza di questi Rom non ha mai vissuto in abitazioni mobili né in un campo di cui non hanno nemmeno il termine equivalente nella loro lingua madre. Sperano che ‘o kampo’ sia un momento transitorio della loro vita di profughi”, scrive Piasere.
L’Italia è rimasta uno dei pochi paesi a prevedere, per legge, la presenza stabile di campi rom sul territorio.
Diverse ricerche hanno appurato come la “tutela della cultura nomade” quale spiegazione – istituzionale ed etica – della costruzione dei primi campi in Italia non trovi riscontro nella verità storica di quei gruppi che si accingevano a varcare la frontiera. Per lungo tempo il legislatore nazionale non diede indicazioni circa l’accoglienza di queste persone, facendo sì che fossero le regioni e poi i comuni a occuparsene, creando delle aree-sosta più o meno attrezzate.
Facendo riferimento a una delle prime aree di sosta regolamentate a Torino negli anni Settanta, Nando Sigona in Figli del ghetto, descrive la sua organizzazione: ogni spazio era diviso per famiglia e il “guardiano del campo” aveva il compito di controllare se queste divisioni fossero rispettate. Per entrare nel campo bisognava rispettare alcuni obblighi, fra cui quello di mandare i bambini a scuola. Se le famiglie non lo avessero fatto, avrebbero perso il diritto di sostare.
Sin dalle prime circolari comunali si intravede la separazione della “questione rom” da quella – più generale e che riguardava ampi settori della società – dell’esclusione abitativa. Secondo Sigona, già all’epoca, e ancor di più con le leggi regionali degli anni Ottanta, esisteva una contraddizione evidente tra gli stili di vita dei diversi gruppi rom, sedentari e non più nomadi, e la legislazione italiana che si dava l’obiettivo di tutelare, quasi esclusivamente, “il diritto al nomadismo”.
Con il passare del tempo, le aree-sosta, da politica locale momentanea, iniziano a strutturarsi e a diventare modello di riferimento interregionale. I servizi essenziali dei quali il campo avrebbe dovuto esser provvisto, però, quali la predisposizione dei servizi igienici, l’allacciamento all’acqua potabile e all’energia elettrica, all’illuminazione pubblica, la presenza di contenitori per la raccolta dei rifiuti e di aree gioco per bambini, furono da subito quasi del tutto assenti.
Esisteva una contraddizione evidente tra i diversi gruppi rom, sedentari e non più nomadi, e la legislazione italiana che si dava l’obiettivo di tutelare “il diritto al nomadismo”.
Se fino alla fine degli anni Ottanta le regioni erano intervenute normando le aree-sosta dove le comunità rom potevano abitare, nel 1990 le leggi regionali regolamenteranno ufficialmente quello che è stato considerato un caso unico in Europa, ovvero gli insediamenti formali monoetnici. Insediamenti che hanno avuto, a seconda del periodo, denominazioni diverse, tra cui campo nomadi, villaggio della solidarietà, campo attrezzato e campo tollerato.
A partire dagli anni Novanta i comuni emanano i loro “piani rom” con l’intento di chiudere i piccoli insediamenti e concentrare, fuori dai centri abitati, il maggior numero di uomini, donne e bambini, determinando quelli che saranno i mega insediamenti.
Di fatto, si era ormai sedimentato un trattamento diverso nei confronti delle persone rom, ovvero “un trattamento amministrativo che presumeva l’esistenza di un gruppo sociale, degli esseri umani, per cui non valevano gli standard fissati per gli altri cittadini” esplicitato nelle politiche locali. Queste, ricorda Tommaso Vitale nel saggio I Rom e l’azione pubblica, avevano dei punti in comune: erano orientate a una generica categoria, individuata sotto il termine nomadi; la diversità che contraddistingue questi gruppi veniva percepita come una diversità anche morale; difficilmente veniva individuato un organo di autorappresentanza con cui interloquire; la ghettizzazione spaziale era il principale strumento d’azione.
La legge 390/1992 garantiva un permesso umanitario ai profughi balcanici, ma i rom rimanevano generalmente estromessi da questa possibilità: il problema principale era che molti di loro non possedevano i documenti necessari a provare che fossero giunti in Italia dopo il 1° giugno del 1991. Tutti coloro che rimanevano esclusi dalle politiche di accoglienza, finivano per trovare rifugio in vere e proprie baraccopoli informali, costruite vicino ad aree autorizzate.
Gli insediamenti formali monoetnici hanno avuto denominazioni diverse, tra cui campo nomadi, villaggio della solidarietà, campo attrezzato e campo tollerato.
Il malumore di alcuni strati della popolazione nei confronti dei campi ebbe in quegli anni un’accelerazione improvvisa, fino a diventare oggetto di numerose campagne elettorali. Accelerazione che avvenne senza che le statistiche ufficiali avessero confermato un aumento effettivo di criminalità connessa alla persistenza dei campi dentro alle città. Ma la percezione comune, come dirà nel 1997 l’allora sindaco di Milano Gabriele Albertini (come ricorda nel suo volume Sergio Bontempelli), finiva per essere ben più importante:
Anche io mi sento poco sicuro. Non so se guardando il dato statistico si possa dire che la situazione a Milano è peggiorata negli ultimi anni. Ma in fondo i dati non sono poi così importanti (…) ciò che conta è la percezione dei milanesi. Magari la microcriminalità è stazionaria, ma vedere lo spacciatore nel giardino dove porto il bambino mi dà la sensazione di non essere protetto (…) Le operazioni che stiamo tentando per ridurre il disagio di certe zone a mio giudizio migliorano la percezione di sicurezza. Anche gli sgomberi dei campi nomadi fanno sentire ai milanesi che le istituzioni esistono.
Le parole di Albertini sono significative anche per comprendere il doppio binario su cui già viaggiavano allora le politiche locali rivolte ai rom. Se da un lato, infatti, gli anni Novanta registrano una crescita esponenziale della presenza dei campi, sia formali che informali, dall’altro le massicce migrazioni provenienti dall’ex Jugoslavia determinavano campagne di stampa e proteste cittadine sempre più allarmanti, che imponevano agli amministratori una, almeno apparente, inversione di marcia.
A Roma, il sindaco Francesco Rutelli, a partire dal 1996, fissò un numero chiuso per limitare la presenza dei rom nel territorio romano. Rutelli fu il promotore di un nuovo “Piano nomadi” che aveva l’obiettivo di concentrare, ancora di più, le famiglie rom in luoghi periferici. Vennero individuate 35 aree attrezzate e il conseguente sgombero di aree informali.
Il malumore di parte della popolazione nei confronti dei campi crebbe senza un aumento effettivo di criminalità connessa alla persistenza dei campi dentro alle città.
Lo stesso anno in cui i sindaci di alcune principali città d’Italia si affrettavano nell’individuare aree periferiche verso cui dirigere i cittadini rom, l’European Roma Rights Center (ERRC) pubblicò il primo studio approfondito sui campi in Italia. Fu proprio in questo documento che l’Italia fu definita, per la prima volta, “il paese dei campi”.
Gli sgomberi forzati e “l’emergenza nomadi”
Secondo Amnesty International in Europa sono stati perpetrati contro le comunità romanès numerosi sgomberi, senza considerare alcuna alternativa né tantomeno attivando le salvaguardie previste in questi casi. Il monitoraggio della situazione italiana che ha condotto Amnesty ha evidenziato come la pratica, aumentata dalla fine degli anni Novanta in poi, sia stata portata avanti senza le garanzie previste dalle convenzioni internazionali: Gli sgomberi forzati sono spesso condotti con breve preavviso e senza previa consultazione con gli interessati. Le autorità non informano i residenti sulle alternative allo sgombero e non offrono loro alloggi alternativi adeguati. Molti rom vengono sgomberati prima di avere la possibilità o il tempo di contestare lo sgombero. La maggior parte è costretta a trovare rifugio in aree non autorizzate, dalle quali potrebbe essere di nuovo allontanata.
Nell’anno del Giubileo, il 2000, l’operazione portata avanti dall’amministrazione di Rutelli sfociò in uno degli episodi più critici di quello che verrà definito il lungo ciclo degli sgomberi. E determinò per la prima volta, come evidenzia Bontempelli, l’intervento di un Tribunale Internazionale. All’alba poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa entrarono in due campi di Roma, Casilino 700 e Tor de’ Cenci: gli abitanti furono svegliati e identificati genericamente. A quel punto entrarono nei campi le vetture delle forze dell’ordine prelevando 67 persone – tra cui donne incinte, bambini, anziani e persone fragili – portandoli direttamente all’aeroporto, direzione Sarajevo, Bosnia.
Venne presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani da parte della Comunità di Sant’Egidio e, come ricorda Bontempelli, per raccogliere la procura delle famiglie rimpatriate organizzò un viaggio in Bosnia con una propria delegazione. La Corte, nel 2002, affermò l’ammissibilità del ricorso e il Governo italiano, per evitare una condanna grave a seguito di discriminazione razziale e trattamenti inumanti e degradanti, decise di offrire a quelle famiglie, in cambio del ritiro dell’azione giudiziaria, un risarcimento e la possibilità di tornare. Il ricorso fu ritirato, alcuni di quei cittadini riuscirono a tornare e l’Italia, questa volta, non fu condannata.
Secondo Amnesty sono stati perpetrati sgomberi senza considerare alcuna alternativa né attivando le salvaguardie previste in questi casi.
Negli anni in cui l’ERCC ha portato avanti la sua ricerca (tra la fine del 1990 e l’inizio del 2000) le operazioni di sgombero forzato sono state documentate in tutta Italia, con particolare riferimento alle irruzioni violente delle forze dell’ordine a Roma, Firenze e Milano. Una caratteristica comune delle irruzioni della polizia e delle autorità municipali nei ghetti rom è la distruzione abusiva della proprietà e delle abitazioni. Nei campi, né le roulotte né le baracche sono considerate delle costruzioni legali dalle autorità italiane, al di là del fatto se il campo stesso sia autorizzato o abusivo. Per minacciare o punire qualcuno di un campo autorizzato, le autorità minacciano di demolire la sua abitazione.
Con l’aumento degli sgomberi e delle costruzioni di mega-insediamenti le amministrazioni locali iniziano a esprimere la loro contrarietà: i campi vengono considerati economicamente costosi, innescano conflitti sociali evidenti e, in fondo, finiscono per rendere inutile tutto il lavoro dell’amministrazione.
Ci furono quindi dei deboli tentativi di avviare progetti più piccoli, che coinvolgessero piccoli gruppi rom, ipotizzando la possibilità di farli accedere all’edilizia popolare. Ma tali laboratori locali ebbero una breve vita, poiché – scrive Bontempelli – quelli erano gli anni in cui si stava per affacciare “l’emergenza rom” e il conseguente fatalismo degli amministratori nei confronti dei continui interventi delle Forze dell’Ordine e il proliferare di insediamenti abusivi a seguito di sgomberi forzati.
Nei campi, né le roulotte né le baracche sono considerate delle costruzioni legali dalle autorità italiane, al di là del fatto se il campo stesso sia autorizzato o abusivo.
Nel 2007 la Romania entrò nell’Unione Europea e i 500.000 cittadini rumeni già presenti in Italia diventavano cittadini europei a tutti gli effetti. Il Governo italiano approvò, subito dopo, il D.Lgs. n.30 che regolava lo status dei cittadini comunitari e fu stabilito l’obbligo di chiedere la residenza all’anagrafe comunale. Ma se già negli ultimi anni i comuni avevano smesso di concedere la residenza a chi viveva nei campi, dopo la nuova regolamentazione dello status dei cittadini comunitari, tale prassi fu presto recepita anche dal Legislatore.
Il Governo di Giuliano Amato intensificò il controllo sul territorio e stipulò un patto di sicurezza e decoro per Milano e Roma. All’interno di questi accordi vi erano specifici provvedimenti nei confronti dei “nomadi” a Milano e delle “popolazioni senza territorio” a Roma.
Secondo Ulderico Daniele e Greta Persico, le regole previste dal Patto si fondavano su un rapporto tra colpa e pena che non ha nulla a che fare con i principi del diritto e che appare invece molto più punitivo. In primo luogo, un reato individuale già punito secondo le ordinarie leggi vigenti verrebbe ulteriormente sanzionato con l’allontanamento dell’interessato\a dalla propria abitazione. In secondo luogo, ad una responsabilità individuale seguirebbe un “pena collettiva” che investe l’intero nucleo familiare, poiché non viene fatta alcuna distinzione tra colpevole e non colpevole, adulti, minori. Infine, la colpevolezza rispetto ad un reato contro il patrimonio o la persona viene equiparato al disturbo alla quiete pubblica o all’inadempienza rispetto al pagamento dei canoni di residenza.
Gli amministratori locali, che fino a quel momento avevano gestito autonomamente la questione “rom”, si adeguarono alle nuove linee guida del Governo che, condizionato da un clima mediatico sempre più incandescente a causa di alcuni fatti di cronaca (come, a esempio, l’uccisione di Giovanna Reggiani a Roma), inasprì le politiche di espulsione, anche nei confronti di cittadini comunitari.
Gli amministratori locali si adeguarono alle nuove linee guida del Governo Amato, condizionato da un clima mediatico sempre più incandescente.
In Rom, antiziganismo e cultura giuridica, Alessandro Simoni, docente di sistemi giuridici comparati, ha analizzato quali sono stati gli strumenti normativi che hanno costituito l’impianto dello stato di “emergenza nomadi”, dichiarato dal Governo Berlusconi a partire dal decreto del 21 maggio del 2008. Il decreto dichiara “lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi” in Campani, Lombardia e Lazio poiché sussistono circostanze di “estrema criticità” che hanno determinato “una situazione di allarme sociale, con possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e di sicurezza per le popolazioni locali”.
Vengono nominati Commissari per superare lo stato di emergenza e l’applicazione di una serie di misure: l’individuazione di siti adatti ad accogliere le persone che vivevano nei campi abusivi, la realizzazione di una serie di interventi finalizzati a garantire le prestazioni sociali e sanitarie minime e l’integrazione sociale.
Questa prima parte di misure è stata considerata condivisibile da molti autori, ma è sulla seconda parte del provvedimento che Simoni e altri pongono l’attenzione: il monitoraggio dei campi autorizzati in cui sono presenti comunità nomadi ed individuazione degli insediamenti abusivi, l’identificazione e il censimento delle persone, anche minori di età e delle famiglie presenti nei campi, attraverso rilievi segnaletici, l’adozione delle necessarie misure, avvalendosi delle forze di Polizia, nei confronti delle persone che risultino o possano essere destinatarie di provvedimenti amministrativi o giudiziari di allontanamento o espulsione, nonché di misure finalizzate allo sgombero ed al ripristino delle aree occupato dagli insediamenti abusivi e le azioni volte a contrastare i fenomeni del commercio abusivo, dell’accattonaggio e della prostituzione.
Anche alla luce della bocciatura da parte del Parlamento Europeo delle misure emergenziali, il 10 luglio dello stesso anno, venne messa in discussione la legittimità dell’azione governativa, sia per ciò che concerne l’effettiva sussistenza di elementi che giustificassero la dichiarazione dello stato di emergenza, sia per via del ricorso al censimento di persone etnicamente identificate.
Nel 2008 il Governo Berlusconi dichiara lo “stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi”.
Il Ministero dell’Interno tentò di mitigare il possibile carattere discriminatorio con l’emanazione di linee guida per l’attuazione delle ordinanze: tali norme erano, secondo il Ministero, dirette a “chiunque vivesse negli insediamenti” ma, come fanno notare autori come Simoni, l’istituzione dei campi stessa era stata espressamente rivolta alle comunità romanès.
Il decreto-legge approvato nel 2008 conteneva misure che, sia nel linguaggio (“nomadi”), sia nel contenuto (“azioni volte a contrastare i fenomeni del commercio abusivo, accattonaggio e prostituzione”), sottolineavano la supposta tendenza criminale di un gruppo identificato etnicamente. Questi e altri rilievi furono esposti nella Risoluzione di condanna del Parlamento europeo che, di fatto, anticiperà la decisione del Consiglio di Stato di tre anni dopo.
Il Parlamento esprimeva “preoccupazione riguardo all’affermazione -contenuta nei decreti amministrativi e nelle ordinanze del governo italiano -secondo cui la presenza di campi rom attorno alle grandi città costituisce di per sé una grave emergenza sociale, con ripercussioni sull’ordine pubblico e la sicurezza, che giustificano la dichiarazione di uno stato d’emergenza per un anno”. Inoltre, veniva criticato il potere concesso ai Prefetti, a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, di procedere con la raccolta delle impronte digitali, e di adottare “misure straordinarie in deroga alle leggi, sulla base di una legge riguardante la protezione civile in caso di ‘calamità naturali, catastrofi o altri eventi’, che non è adeguata o proporzionata a questo caso specifico”.
Tra i vari provvedimenti assunti a seguito del decreto governativo, va menzionato il cosiddetto “Piano Alemanno”, che rappresentò un caso particolare di “segregazione spaziale” dei rom. Secondo Bontempelli questo progetto di ridislocazione urbana dei Rom rappresentava la “conseguenza più rilevante dei decreti emergenziali” e prevedeva lo sgombero di tutti i campi considerati abusivi e il ricollocamento di 6.000 Rom in 13 “villaggi attrezzati”, per lo più fuori dal Grande Raccordo Anulare.
Il decreto conteneva misure che sottolineavano la supposta tendenza criminale di un gruppo identificato etnicamente.
Sotto alcuni punti di vista la Giunta Alemanno si limitò a riprendere le misure già adottate dal suo predecessore Walter Veltroni (che, per primo, parlò di “Villaggi della solidarietà”) ma aggiunse una serie di provvedimenti finalizzati a un maggiore controllo e sorveglianza: fu confermato il presidio fisso delle Forze di Polizia all’ingresso dei campi, dichiarato ammissibile l’utilizzo di videocamere e fu prevista l’identificazione di tutte le persone in entrata e in uscita. Inoltre, per poter vivere nei villaggi, i rom avrebbero dovuto presentare un documento, rilasciato dal Comune, che dava il diritto a sostare per due anni nella città. Gli obblighi in capo ai cittadini rom erano: frequenza scolastica dei minori, il pagamento dei servizi (utenze e canone mensile), pulizia dell’ambiente circostante, divieto di ospitare amici, parenti e animali.
Due anni dopo, il 16 novembre del 2011 il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso presentato da ERRC e da una famiglia bosniaca di Roma contro una sentenza del TAR del Lazio, dichiara illegittimo l’intero decreto della Presidenza del Consiglio e, di conseguenza, tutti i provvedimenti assunti dalle diverse amministrazioni locali. I giudici scriveranno nella sentenza che “non si evincono precisi dati che autorizzino ad affermare l’esistenza di un ‘rapporto eziologico’ fra l’insistenza sul territorio di insediamenti nomadi e una straordinaria ed eccezionale turbativa dell’ordine e della sicurezza pubblica nelle aree interessate”.
Il decreto della Presidenza del Consiglio avrebbe dovuto avere una validità di un anno, ma fu prorogato per più di tre anni. In questo lasso di tempo enti del terzo settore, docenti, istituzioni europee e internazionali si mobilitarono ed espressero la loro ferma contrarietà e persino il Prefetto di Roma dell’epoca, Carlo Mosca, si oppose alla previsione della schedatura dei rom tramite impronte digitali. Nonostante ciò, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, il 15 febbraio 2012 il Governo Monti decise di presentare ricorso al TAR, affermando che i presupposti dell’“emergenza nomadi” erano ancora presenti in molte città italiane.
Dopo cinque anni dal primo decreto governativo sugli sgomberi degli insediamenti “nomadi”, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dal governo italiano e dichiara la fine dell’emergenza.
La Strategia Nazionale, tra diritti umani e riconoscimento
Nel 2012 l’Italia ha recepito la Comunicazione n.173 del 2011 della Commissione dell’Unione Europea per un “Quadro dell’UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom fino al 2020” e si è dotata della Strategia nazionale d’inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti (RSC). La Strategia rappresentava un cambio di passo notevole rispetto alle politiche emergenziali degli anni precedenti e aveva come finalità principale quella di promuovere l’inclusione sociale ed economica delle comunità romanès. Il documento, per la prima volta, confutava chiaramente la coincidenza semantica fra Rom e nomadi e, soprattutto, chiedeva di contrastare la politica dei campi.
La giunta Alemanno conferma il presidio fisso delle Forze di Polizia all’ingresso dei campi e prevede l’identificazione di tutte le persone in entrata e in uscita.
Così come per le altre tre aree di intervento (salute, scuola e lavoro) gli strumenti ipotizzati dalla Strategia erano programmatici, tracciavano una linea d’intervento sicuramente innovativa, ma non erano vincolanti né indicavano quali fossero le risorse previste per attuare il piano. Nonostante questo, fu la prima volta che un Governo mise in dubbio il dispositivo “campo” e la pratica dello sgombero.
Al di là della portata simbolica della Strategia, a dieci anni dalla sua approvazione, i rapporti pubblicati dall’Unione Europea e da enti non governativi, italiani e internazionali, circa l’applicazione dei principi generali, hanno fatto emergere una serie di criticità.
Nel febbraio del 2019, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite ha pubblicato il Report della missione esterna in Italia su discriminazione razziale e incitamento all’odio. Riassumendo, l’Alto Commissario evidenziava che il Governo italiano avrebbe dovuto raddoppiare gli sforzi per mettere fine all’apolidia, con specifico riguardo alle comunità Romanès, revisionare completamente i testi scolastici affinché non vi fossero stereotipi discriminatori, includere libri che affrontassero in maniera critica il passato coloniale e l’antiziganismo e, soprattutto, “sviluppare e proteggere lo status e l’accesso ai diritti delle minoranze rom”.
Nonostante i molti rilievi mossi allo Strumento della Strategia (che nel frattempo è stata rinnovata con un nuovo decreto del 23 maggio 2022, fino al 2030) negli ultimi anni sono stati riscontrati lenti ma positivi cambiamenti, soprattutto a livello locale, in riferimento alla possibilità di superare la segregazione abitativa.
L’adozione, nel 2012, della Strategia nazionale d’inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti è la prima messa in dubbio istituzionale del dispositivo “campo”.
Per avere un quadro di quante persone vivano all’interno degli insediamenti monoetnici è utile riprendere la stima (ufficiale ma, a parere di molti, incompleta poiché priva di fonti precise) di quanti rom siano presenti sul nostro territorio. A oggi si parla di 180.000 individui, di cui 13.400 residenti nei campi istituzionali. Perciò, come evidenziato dal più recente Rapporto sui campi in Italia a cura di 21 luglio, solo 1Rom/Sinto su 13 vivrebbe in insediamenti.
Posto, quindi, che il numero di persone ancora presenti all’interno dei campi è di gran lunga inferiore rispetto a quello di quanti vivono in abitazioni pubbliche e private in Italia, i campi istituzionalizzati e tollerati continuano a esistere nonostante siano stati oggetto di condanne nazionali e internazionali.
Il 30 maggio 2015, il Tribunale civile di Roma ha riconosciuto il “carattere discriminatorio di natura indiretta della complessiva condotta di Roma Capitale che si concretizza nell’assegnazione di alloggi del villaggi attrezzato di Via della Barbuta [ordinando] la cessazione della suddetta condotta nel suo complesso”.
Le criticità riscontrate dal Tribunale di Roma all’interno del campo della Barbuta sono le stesse, se non peggiori, che appartengono alla gran parte dei campi dislocati in tutte le regioni d’Italia. Scrive il Tribunale che l’insediamento
ostacola oltremodo la convivenza delle comunità Rom e Sinti in esso ospitate con la popolazione locale e l’accesso in condizioni di reale parità ai servizi scolastici e sociosanitari, perpetuando di fatto le già esistenti condizioni di emarginazione ed esclusione di tali comunità, ponendole dunque in uno stato di isolamento politico, economico e culturale.
Negli ultimi anni molti abitanti dei campi hanno iniziato quella che è stata definita una “migrazione silenziosa”, lasciando gli insediamenti monoetnici e provando a trovare percorsi autonomi di inserimento abitativo.
I campi istituzionalizzati e tollerati continuano a esistere nonostante siano stati oggetto di condanne nazionali e internazionali.
C’è chi riesce, grazie al supporto di associazioni e pochi Comuni che predispongono alternative concrete e chi, infine, è costretto ad andarsene. Le parole di Emma Ferulano, tra le fondatrici di Chi rom e chi no a Scampia, chiariscono quello che è avvenuto e sta avvenendo in molte città d’Italia.
Chi può, in assenza di alternative, rimane dov’è e
gli spostamenti che abbiamo registrato in questi anni della comunità rom di Scampia sono dovuti essenzialmente a cause esterne. Dal grande incendio del 2017 fino a quello di novembre scorso, è come se l’immobilismo istituzionale portasse in un modo o nell’altro a sgomberi indotti, che apparentemente sono meno violenti di quelli coatti ma in realtà ugualmente traumatici.E così, come tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta la questione dell’emergenza abitativa (e le eventuali politiche a essa connessa) finiva per escludere i gruppi rom di recente migrazione, tuttora in molte regioni d’Italia l’accesso all’edilizia pubblica o ad alternative alloggiative per chi vive nei campi è lastricato di ostacoli. Sono persone – ricorda Ferulano – che vivono in questi territori da oltre quarant’anni ma vengono sistematicamente esclusi dai piani di riqualificazione, come a esempio Restart Scampia. “Viene da chiedersi quale sia il criterio che si usa in questi casi, l’italianità? L’anzianità territoriale? Perché, a questo punto, si dimentica totalmente la storia di questi gruppi e il loro radicamento nel quartiere”.
C’è chi rimane e continua come può e chi – conclude Ferulano – “con la morte nel cuore, emigra nel resto d’Europa, in cerca di un’alternativa che qui non c’è. È una piccola diaspora di una popolazione di giovani e giovanissimi”.