Q uesto articolo è parte della campagna Unite contro la violenza di genere a cui hanno aderito più di cento scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza e nominarla.
In Asking For It – un podcast fiction del servizio pubblico audiovisivo canadese – c’è una sequenza lunga una manciata di minuti che descrive l’escalation di abuso all’interno di una relazione di coppia: le voci si sovrappongono, il sound design crea disturbo, le parole si fanno minacciose; evocano la prigione di controllo in cui è confinata Goldie, la giovane musicista protagonista della storia. La persona con cui ha questa relazione, la persona che le rivolge parole minacciose, le impone di rispondere al telefono e di inviare foto per dimostrare di essere dove dice di essere è una donna, si chiama Coach.
Quando ho ascoltato questo podcast avevo da poco finito di leggere Ragazza, Donna, Altro, di Bernardine Evaristo. Nella sua matrioska di storie e personaggi mi aveva impressionato quella di Dominique, la migliore amica di Amma, che è la figura centrale del libro. Amma e Dominique, in una Londra radicale e post punk, fondano una compagnia teatrale, trovano il loro spazio nel mondo fino a quando Dominique incontra una donna afroamericana, Nzinga, si innamora e abbandona tutto per seguirla negli Stati Uniti. Nzinga, come Coach nel podcast canadese, è una persona estremamente carismatica. Entrambe emanano fascino e soggezione ed esercitano sulle protagoniste un’attrazione sessuale dirompente. Entrambe si trasformano nel giro di poco tempo in carnefici, infliggono controllo e possesso, isolano le loro donne dal mondo esterno, annientano e schiacciano, costruiscono per loro una gabbia in cui niente è più vero.
In Asking For It, a un certo punto, Goldie, la protagonista, spiega l’origine della parola gaslighting. Per farlo, oltre alla famosa storia dell’uomo che cerca di far impazzire la moglie per poi ucciderla, facendole credere che luci di casa si spengono senza motivo, cita una frase di Hannah Arendt presa da Le origini del totalitarismo: “il risultato di una continua sostituzione della verità con la menzogna non è che la menzogna viene accettata come verità e la verità viene considerata menzogna, bensì che il nostro orientarci nel mondo viene distrutto”.
Quando ho intercettato le storie di Asking for it e Ragazza, donna, altro dapprima sono stata contenta. È una specie di riflesso condizionato – me lo porto dietro dalla mia adolescenza senza rappresentazione, suppongo. Quando avevo quindici o sedici anni, all’inizio degli anni Novanta non c’era praticamente nulla al cinema o in tv o nei libri che potesse dirmi chi ero (una ragazza che si innamorava di ragazze). Esisteva sicuramente una letteratura sotterranea, ma per un’adolescente di provincia, l’accessibilità era limitata. L’unica cosa che aveva esplicitamente al centro la storia di una donna che si innamorava di altre donne era un libro uscito negli anni Venti del Novecento. Si chiamava Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall e metteva in scena un discutibile lesbo-dramma vittoriano. Avrei scoperto più avanti negli anni che l’assenza di storie dichiaratamente lesbiche nella letteratura “mainstream” era così clamorosa che Il pozzo della solitudine era l’unica lettura che avevo in comune con donne nate venti, trenta, quarant’anni prima di me. Oggi le cose sono cambiate, ma quel brivido di scoperta è rimasto ogni volta che mi capita per caso di realizzare che in qualcosa che guardo, ascolto o leggo sono presenti relazioni d’amore fra donne.
Quella violenza che isola e mina l’identità della vittima, può presentarsi anche dentro la comunità di cui orgogliosamente faccio parte: può essere perpetrata da una donna su un’altra donna.
Ma nel momento in cui ho capito che le storie contenute in Asking for it e Ragazza, donna, altro non avevano a che fare con l’amore bensì con l’abuso, ho provato un senso profondo di disagio. Era una forma di disagio diversa da quella che sento quando leggo di femminicidi o di violenza di genere perpetrata da uomini. In quella forma, che definirei più tradizionale, ho sempre saputo riconoscere una dose di rabbia molto precisa e facile da indirizzare. Rabbia nei confronti del brodo culturale in cui siamo immersi, dove le dinamiche dei soprusi degli uomini nei confronti delle donne sono chiare, dimostrate dai fatti, dai numeri, dalla rappresentazione e dalla narrazione di quegli stessi fatti.
In questo caso, invece, ho capito subito che il mio senso di malessere era più articolato e che lì dentro si nascondeva una qualche forma di vergogna. Perché quegli squarci letterari rendevano evidente che quelle stesse forme di violenza che reggono sul controllo e sul sopruso, quella violenza che isola e mina l’identità della vittima, può presentarsi anche dentro la comunità di cui orgogliosamente faccio parte. Può essere perpetrata da una donna su un’altra donna.
Per liberarmi dalla fastidiosa vergogna generata da questa realizzazione ho provato a cercare nei dati una qualche forma di conferma prestabilita. Sono partita da un’ipotesi: volevo capire se nelle donne che esercitano violenza sulle proprie compagne si annidi una forma di patriarcato interiorizzato. Ero sicura di trovarne traccia – ma ho trovato altre cose, più lampanti.
Le fotografie più precise riguardano gli Stati Uniti, dove un’organizzazione chiamata NCAVP raccoglie costantemente dati sul fenomeno della violenza domestica all’interno della comunità LGBTQ+. Lo stesso avviene in Inghilterra, grazie soprattutto a Galop, che un tempo si chiamava Broken Rainbows. In Italia, esiste pochissimo su questo tema. Il report più recente – il precedente risaliva al 2011 ed era stato pubblicato in occasione di un convegno da Arcilesbica insieme a D.I.RE – è stato realizzato nel 2023 da Rete Lenford, collettivo legale che fra le molte attività svolge un ruolo cruciale nel supporto delle coppie omogenitoriali italiane. Il report si chiama curiosamente Broken Rainbow, stesso nome dell’associazione inglese omologa. È interessante pensare che l’immagine di un arcobaleno che si spezza venga reiterata per spiegare che la violenza si annida anche dove non ci si aspetterebbe, dentro una comunità che in fondo da sempre lotta solo per rivendicare il diritto di esistere e vedere riconosciuti i diritti civili fondamentali. Quello che il report italiano fotografa, avendo intervistato un campione di circa 200 persone, la cui metà sono donne, è coerente con quanto emerge nel contesto americano e inglese.
“Nel campione che ha risposto emerge una forte predominanza di esperienze di violenza psicologica”, mi ha spiegato Silvia Di Battista, ricercatrice in Human Sciences dell’Università Marconi di Roma, la quale, insieme a Giacomo Viggiani, ricercatore in Filosofia della Legge all’Università di Brescia, ha condotto le interviste che sono confluite nel report. Di Battista ha aggiunto una precisazione purtroppo tutt’altro che sorprendente: “L’abuso è diffuso in tutti i gruppi LGBTQ+, con una maggiore vulnerabilità sottolineata per le persone transgender, soprattutto se non italiane e/o se minori”. “Sulla base delle risposte ad una scala validata a livello internazionale che misura la violenza nelle coppie intime”, continua, “emerge che il 56% delle persone dichiara di aver subito negli ultimi 12 mesi almeno un episodio di violenza psicologica e/o fisica in coppia. Di queste persone che hanno subito violenza, le persone che dichiarano violenza psicologica sono il 42,4% e coloro che dichiarano violenza sia psicologica sia fisica sono il 13,6%”.
Per le donne lesbiche denunciare è doppiamente difficile perché subentrano ulteriori complessità rispetto a quelle che già normalmente vivono tutte le vittime.
Un tratto che risulta comune a tutte le persone che hanno partecipato alla survey e hanno dichiarato di aver subito forme di violenza è che è spesso molto difficile riconoscere i segnali di abuso, stabilirne la gravità e quindi chiedere aiuto. Quando si decide di farlo la barriera all’ingresso è molto alta per la mancanza di centri antiviolenza specializzati. Nella maggior parte dei casi le vittime si rivolgono ad associazioni LGBTQ+. Il report di Rete Lenford riporta anche le testimonianze di persone che lavorano nel campo dell’attivismo LGBTQ+, le quali sostengono che “le donne della comunità sperimentano sistematicamente forme di violenza [..] i numeri di accessi che riceviamo sono paragonabili agli accessi dei centri antiviolenza”.
Per le donne lesbiche denunciare è doppiamente difficile perché subentrano ulteriori complessità rispetto a quelle che già normalmente vivono tutte le vittime. La parola che ricorre più spesso è “paura”. Paura di non essere credute dal momento che chi perpetra la violenza è un’altra donna e, per alcune che non hanno fatto coming out in famiglia o al lavoro, paura di essere vittime di outing. Infine, nel campione intervistato è comune una scarsa fiducia nei confronti delle istituzioni e del contesto sociale italiano. E questo senso di disillusione, combinato al fatto che queste persone sono spesso vittime di violenza psicologica in diversi contesti – nella famiglia, a scuola o sul lavoro – rende ancora più difficile riconoscere la violenza e l’abuso nella relazione di coppia.
Questo senso di confusione e incapacità di capire se l’abuso che si sta vivendo sia vero o sia immaginato mi ha fatto pensare a un altro libro importante che ho letto su questo tema. Si chiama Nella casa dei tuoi sogni ed è un memoir scritto dall’autrice americana Carmen Maria Machado. Machado ricostruisce la sua storia di vittima poco più che ventenne, e per farlo mischia vari generi letterari in maniera sorprendente. Il tema dell’incredulità e del gaslighting continuo sono centrali nella dinamica della sua relazione abusante. Ma a un certo punto del libro c’è un passaggio politico che mi ha colpito, perché in qualche modo smonta la tesi da cui ero partita, cioè che la violenza fra donne derivi principalmente da una forma di patriarcato introiettato:
Quando all’inizio degli anni Ottanta il dibattito sull’abuso domestico queer ha preso piede, in occasione di festival e conferenze le attiviste hanno fatto circolare fogli informativi per sfatare i miti sulla violenza queer. Le studiose hanno distribuito questionari per dare il senso della portata del problema. Sulle pagine delle riviste queer si sono scatenate accese discussioni. Tra i miti da sfatare secondo la Cooperativa delle Donne per l’Insegnamento dell’Autodifesa di Santa Cruz: «Mito: è solo un fatto emotivo/psicologico, quindi non conta»; «Mito: io posso gestirlo, a differenza delle sue tre ultime ex amanti»; «Mito: la cosa più importante è restare insieme e risolverlo»; «Mito: siamo in terapia, quindi adesso si risolverà». […] Ma alcune lesbiche hanno cercato di limitare la definizione di abuso alle azioni degli uomini. Le butch avranno anche maltrattato le loro femme, ma solo a causa della mascolinità che avevano adottato. Le lesbiche violente stavano usando il “privilegio maschile”. (Prendendo in prestito l’espressione della critica lesbica Andrea Long Chu, erano colpevoli di «[contrabbandare il patriarcato] nell’utopia lesbica».) […] Le donne che erano donne non si comportavano in maniera violenta con le loro fidanzate: le lesbiche vere non avrebbero mai fatto una cosa del genere. C’era anche la scusante che, semplicemente, era una questione complicata. Il peso della pressione della società eterosessuale! Le lesbiche si maltrattano tra di loro! Molte persone hanno sostenuto che il problema andava gestito all’interno delle loro comunità. Si sono versati fiumi d’inchiostro allo scopo di decentrare le vittime, e le donne violente spesso hanno agito impunite. […] Si è continuato ad andare in tondo, girando intorno a verità fondamentali che nessuno voleva guardare dritto in faccia, come se fossero il sole: le donne possono abusare di altre donne. Le donne hanno abusato di altre donne. E le persone queer dovevano prendere seriamente questo problema, perché non lo avrebbe fatto nessun altro.
Mi domando quante volte io stessa sia stata condizionata dai miti che menziona Machado. Quante volte di fronte a un’amica che mi raccontava di una fidanzata gelosa e possessiva sono stata più indulgente che se si fosse trattato di un fidanzato.
Questo non significa dubitare dell’esistenza del macigno sistemico, culturale e maschilista che è alla base della violenza di genere. Ma capire, con fatica e dolore, che la violenza esiste anche dentro la comunità LGBT+ – che dalla violenza ogni giorno, da sempre, in molte parti del mondo, cerca di proteggersi – è solo un primo passo per capire come provare ad arginarla. Servono sempre più persone che si interrogano anche su questa forma di violenza. Servono dati, servono professionisti che possano aiutare chi si trova a vivere queste esperienze di abuso. Serve approfondimento e tempo, anche se i pochi dati a disposizione indicano che non ce n’è moltissimo. Serve rappresentazione e c’è bisogno di parlarne ogni volta che si può. A costo di guardare dentro un buco nero e alimentare domande sempre nuove prima di trovare le risposte necessarie. Solo così le vittime potranno forse sentirsi meno sole.