Vivi e morti
La reciprocità della relazione con il corpo morto nelle arti e nelle società.
La reciprocità della relazione con il corpo morto nelle arti e nelle società.
C ome ci ricorda la filosofa della scienza Vinciane Despret, nel suo magistrale Au bonheur des morts. Récits de ceux qui restent, tutto ciò che riguarda il lutto oggi nelle società alle nostre latitudini è “una vera prescrizione (…) fondata sull’idea che i morti non hanno altra esistenza che nella memoria dei viventi. Essa spinge questi ultimi a tagliare i legami con gli scomparsi. E la morte non ha altro ruolo da svolgere che farsi dimenticare”. Despret afferma che, da un lato, il concetto di memoria (il culto occidentale del ricordo) e, dall’altro, il destino dei morti a diventare inesistenti (un’idea molto limitata delle possibilità di questi ultimi) siano entrambe concezioni che si sono imposte culturalmente a partire dal positivismo di Auguste Comte, che ha gettato le basi per una successiva concezione laica e materialista della morte.
Il pensiero magico può essere una maniera per fronteggiare l’impensabile, un modo per cercare di avere un certo grado di controllo o senso in situazioni in cui la realtà sembra inafferrabile o insensata.
Corre alla mente la toccante scrittura di Joan Didion in L’anno del pensiero magico. Didion usa “pensiero magico” per descrivere il modo in cui ha cercato di dare un senso e affrontare le morti improvvise del marito e della figlia. Per Didion, questo tipo di pensiero rappresenta la tendenza umana a cercare connessioni causali irrazionali o modi per influenzare eventi al di là delle normali leggi di causa ed effetto: questa forma di pensiero può essere una maniera per fronteggiare l’impensabile, un modo per cercare di avere un certo grado di controllo o senso in situazioni in cui la realtà sembra inafferrabile o insensata.
Parte fondamentale del pensiero magico, sembra spiegarci Didion, risiede nelle azioni da fare e non fare per lasciare aperti sentieri tra noi e chi non è più con noi. Didion racconta, ad esempio, come la prima notte dopo la morte del marito sentisse fortemente il desiderio di stare sola: era l’unico modo per fare in modo che lui tornasse. Un altro episodio importante riguarda le scarpe di lui. Didion non riesce a sbarazzarsene perché se il marito dovesse tornare ne avrebbe bisogno. L’autrice allora commenta: “Riconoscere questo pensiero non servì assolutamente a sradicarlo. Non ho ancora provato a decidere (dando via le scarpe, per esempio) se il pensiero ha perduto il suo potere”. Per Didion è questa ritualità fatta di piccoli gesti che ci consente di mantenere aperti i canali di comunicazione con i defunti.
Tuttavia questa pratica diffusa nelle nostre società trova dimora esclusivamente nell’intimità più recondita, tra gli amici, in famiglia; tali rituali segreti raramente si svelano in pubblico, rimanendo celati agli sguardi esterni. Il nostro vivere in società non ha più uno spazio delegato a questa condivisione e quelle che potremmo in un certo modo definire pratiche spiritiche, con il loro potere consolatorio, sono malviste invece che interpretate come un’educazione al lutto. La confessione di tali gesti e pensieri si verifica perciò di rado e proprio nello spazio protetto della letteratura o delle arti.
La stessa Didion colloca inoltre il “pensiero magico” all’interno di un arco temporale ben definito, un anno, e sembra così suggerire che tali pratiche siano confinate allo specifico periodo di lutto. Ma siamo sicuri che sia così? Siamo sicuri che il dialogo si interrompa?
Se ci fermiamo a riflettere, questa relazione con chi non c’è più, come tutte le relazioni, si fonda su una reciprocità. I gesti del pensiero magico sono un modo di onorare una presenza che, sebbene non più tangibile, continua a influenzare il nostro mondo emotivo. Allo stesso tempo, ciò che si intraprende a causa di questa relazione può essere percepito come un atto di ricezione da parte dei defunti – sebbene abbiamo tutti imparato da giovanissimi che ciò avviene in un contesto metaforico o simbolico.
Anche tra di noi, nelle nostre società, ci sono prove di come i morti interferiscano con i vivi.
Al contrario, Despret descrive nel suo libro i molti modi per sperimentare la presenza dei morti nella nostra vita, senza per questo fare riferimento a fantasmi, credenze o allucinazioni. Anche tra di noi, nelle nostre società, ci sono prove di come i morti interferiscano con i vivi. È più facile però rendercene conto indirizzando lo sguardo ad altre latitudini, specialmente per quanto riguarda la relazione con il corpo morto.
Uno dei più chiari esempi di questa relazione ininterrotta che avviene attraverso il corpo del defunto è il racconto dell’antropologo britannico Sir Alfred Cort Haddon che, nel tardo XIX secolo, durante un lungo viaggio tra le popolazioni delle isole dello stretto di Torres, osserva un singolare rituale. Di fronte alle avversità, gli indigeni prendono il cranio di un parente defunto, lo rivestono di vernice fresca, lo adornano con foglie profumate e intrattengono con esso un articolato dialogo, cercando consiglio e guida. Successivamente, prima di coricarsi, collocano il cranio vicino alla propria testa. Se sognano, è lo spirito del defunto a rivolgersi a loro, offrendo consigli su come procedere o cosa fare. Tutto considerato, concludeva Haddon nelle sue riflessioni, “non c’è da meravigliarsi che queste popolazioni conservino i crani dei loro parenti deceduti”.
Tornando alla contemporaneità, è esemplare il caso di un interessante studio condotto dal professor Ato Kwamena Onoma sui riti funerari della confraternita dei Muridi del Senegal. Per i Muridi, essere sepolti nel cimitero dove riposa il fondatore del proprio ordine, Cheikh Ahmadou Bamba Mbacké, garantisce il passaggio al paradiso. Perché mai quindi, si chiede Onoma, qualcuno dovrebbe desiderare di essere sepolto altrove? C’è un altro aspetto di questa questione che si rivela essere in qualche modo più rilevante del paradiso ed è proprio l’ipotesi di poter essere vicini, in prossimità fisica, ai membri della propria famiglia ancora in vita. In un contesto culturale che non ha dimenticato il ruolo dei morti, la vicinanza incoraggerà l’antenato a intervenire nelle questioni familiari. Al contrario, la lontananza potrebbe far sì che questo si dimentichi di chi, invece, potrebbe beneficiare, di tanto in tanto, di un suo intervento.
Cambiando ancora latitudine, nell’estate del 2023, a Buenos Aires, ho avuto occasione di intervistare l’antropologo Fernando Miguel Pepe, portavoce del collettivo GUIAS (Grupo Universitario de Investigación en Antropología Social). Nato nel 2006, per iniziativa di un gruppo di laureati dell’Università della Plata, GUIAS si dedica con impegno e perseveranza a una causa di profonda importanza storica e umana. La missione principale è quella di affrontare il difficile compito di restituire alle popolazioni originarie i resti umani trafugati durante sanguinose operazioni militari, come la conquista del deserto, che se ben andiamo a vedere non sono state altro che un vero e proprio genocidio per mano dello stesso stato argentino. Questi resti, custoditi ancora oggi nei musei nazionali, e non solo, sono la testimonianza di un passato doloroso e spesso ignorato (purtroppo, la riforma costituzionale argentina, del 1994, che riconosce esplicitamente i diritti dei popoli indigeni, sembra essere stata per lo più un atto formale). L’obiettivo principale del collettivo è rispondere concretamente alle richieste delle comunità, sforzandosi di identificare i resti umani e successivamente restituirli. Questo non è solo una questione di recupero fisico, ma anche di restituzione di dignità e identità a coloro che sono stati oggetto di deumanizzazione.
L’identificazione di questi morti è un processo che mira a riaffermare la loro esistenza come soggetti sociali. Significa rompere con l’oggettivazione a cui queste donne e questi uomini sono stati sottoposti, ricostruire le loro storie e, soprattutto, restituire loro un nome. In questo modo, il collettivo si propone di porre fine a una lunga vicenda di negazione dell’identità e di riconoscere la profonda umanità di coloro che, in nome del razzismo e della scienza, sono stati privati della loro storia.
L’obiettivo è identificare i resti umani e successivamente restituirli. Un processo che mira a riaffermare la loro esistenza come soggetti sociali e che si affianca alla lotta per la terra in quanto gli antenati, nelle cosmologie indigene, vengono identificati con il territorio che è stato rubato.
Le richieste di restituzione da parte dei popoli indigeni fanno però parte di una dimensione più ampia, si affianca alla lotta per la terra. Gli antenati, nelle cosmologie indigene, vengono identificati con il territorio che è stato rubato. Con il loro ritorno, torneranno anche quelle energie che saneranno la terra maltrattata e trasformata dalle multinazionali che la sfruttano con fini estrazionistici. Come spiega Pepe, non è importante con quale dei 39 popoli originari che vivono oggi in Argentina si stia dialogando per la restituzione, l’agency – cioè la capacità degli antenati di agire nelle nostre vite: nelle cosmologie indigene è sempre presente. Parallelamente, il resto umano è il primo tassello per portare il governo nazionale a riconoscere il luogo di sepoltura come sito sacro e successivamente avviare la procedura legale per restituire le terre alle comunità. Se continuiamo a ribaltare il punto di vista, in questo gioco di specchi sono proprio gli antenati che, tornati nei territori da cui non avrebbero mai dovuto essere separati, aprono il cammino verso l’attribuzione delle terre alle proprie comunità.
Viene però da chiedersi: nelle nostre società che hanno perso il rapporto con i morti e gli antenati, resta qualche traccia di questa interazione con chi non c’è più? Io credo di sì. Credo sopravviva un’altra grande tradizione: quella che fa dei morti dei “fabbricanti di racconti”, come scrive Despret. La studiosa di folklore Gillian Bennet, a questo riguardo, ci suggerisce che l’aspetto più interessante di questa pratica è che le storie narrate da chi è rimasto “presentano tutte una peculiarità: sono costruite in modo da non concedere alcun privilegio a una versione rispetto a un’altra.”
In alcune cosmologie amerindiane il coyote, o a volte il corvo, è l’eroe truffaldino e scaltro che si traveste, si intrufola, seduce e scappa. È un essere che incarna la ribellione, l’inganno, la creatività e che agisce spesso in modi imprevedibili e talvolta disorientanti ma che, nonostante il comportamento ambiguo, viene regolarmente onorato come creatore di cultura. Lewis Hyde nel suo Trickster Makes This World. How Disruptive Imagination Creates Culture ce ne regala una splendida definizione:
Il trickster è colui che può muoversi tra cielo e terra, tra i vivi e i morti. In quanto tale, a volte è il messaggero degli dei e a volte la guida delle anime, trasportando i morti negli inferi o aprendo una tomba per liberarli quando devono interagire con noi.
Secondo Hyde, il trickster è quindi un attraversatore e un creatore di confini o, forse, è colui che, con il suo agire, semplicemente li sposta e cancella le certezze, rimescola le carte, cambia le regole. Hyde continua la sua analisi chiedendosi in che ambito esista l’energia del trickster nella nostra cultura e si risponde che è viva nell’arte. L’artista non è il nostro eroe truffaldino, ma in alcuni momenti pratica artistica e mito coincidono. Sono quei momenti che ci fanno tornare a considerare, percepire e vedere le cose della vita sotto un’altra angolazione.
Ghost-writing Paul Thek: Time Capsules and Reliquaries, progetto artistico di Alessandro Di Pietro, racconta di un confine spostato. In un’intervista recente rilasciata a Flash Art, Di Pietro afferma:
Noi artisti dobbiamo capire se abbiamo veramente bisogno di essere ricordati. Molti risponderanno di no, altri di sì, ma in entrambi i casi nessuno ci pensa davvero, perché significherebbe pensare da morti, e questo richiede una grande responsabilità.
“Come si pensa da morti?”, o forse anche “Come si agisce da morti”? Il lavoro di Alessandro Di Pietro si iscrive nella tradizione che trova spazio nella finzione, nella letteratura, nelle fiabe, ma anche tra le mure domestiche e nei racconti di famiglia. È una pratica per cui coloro che non ci sono più diventano, utilizzando le parole della scrittrice Siri Hustvedt, i “nostri collaboratori”.
In Ghost-writing Paul Thek: Time Capsules and Reliquaries Alessandro Di Pietro rianima e reinterpreta l’opera di Paul Thek. L’operazione non vuole essere un tributo celebrativo, bensì una riflessione su come l’arte possa fungere da tramite temporale e scatenare una contemplazione più profonda sulla connessione tra passato, presente e futuro. Paul Thek, come una sorta di moderno Orfeo la cui voce persiste nel canto anche dopo la morte, rivive attraverso tre nuovi lavori a lui attribuiti, ma eseguiti dopo la sua morte.
Thek, per tutta la vita, ha inscenato la propria dipartita e affrontato i temi della caducità e della rinascita esplorando angoli della condizione umana spesso evitati.
Thek, per tutta la vita, ha inscenato la propria dipartita e affrontato i temi della caducità e della rinascita esplorando angoli della condizione umana spesso evitati. L’opera The Tomb, soprannominata Death of a Hippy, ne è il più chiaro esempio e consisteva in un’effige dell’artista, a grandezza naturale, collocata in una tomba. È celebre come la scultura di cera, vestita con un abito rosa e circondata da oggetti legati al consumo di droga, fosse in grado di suscitare le reazioni degli astanti tanto che, quando fu esposta al Whitney nel 1968, alcuni manifestanti della guerra del Vietnam lasciarono dei fiori accanto alla tomba come se stessero onorando un compagno caduto. Altrettanto noto è come, ad un certo punto, questa pratica di inscenare la propria morte fosse diventata un peso emotivo per Thek. Fu allora che la scultura andò misteriosamente persa e scatenò riletture costanti dei critici del tempo e appropriazioni programmatiche della sua opera.
In Ghost-writing Paul Thek: Time Capsules and Reliquaries, Thek è l’espediente creativo scelto da Alessandro per porsi la domanda da cui siamo partiti: “Come si pensa da morti?”. L’operazione di Di Pietro ci ha fatto così attraversare un confine, ripensare il rapporto tra noi e chi non c’è più: ci ha fatto fare la mossa del trickster, per dirla con Hyde.
E nella logica della reciprocità, se la pratica di Di Pietro ci fa attraversare un limite – aprendo la tomba di Thek, rianimandone l’opera –, Thek è l’informatore dell’artista, il suo fido consigliere, il suo aiutante. È colui senza il quale l’opera non avrebbe potuto avere inizio, né svilupparsi. Chiaramente, in questo scenario dove, come abbiamo detto in precedenza, non esiste una versione ufficiale, “privilegiata”, della storia che si racconta, diventa assolutamente superfluo chiedersi se ciò che vediamo in mostra è un’opera originale di Thek oppure no. In futuro, se le opere fossero musealizzate, saremmo ancora in grado di distinguere un’opera di Alessandro da una di Thek? È evidente che porsi questa domanda ha perso significato: la categoria dell’“originale” in questo frangente non è più qualcosa a cui attribuire valore. E, come ci ricorderebbero gli antropologi, in molte altre culture funziona esattamente così.