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ono accovacciato nei pressi di una torre alla fine di Porto Selvaggio, in un’area naturalistica protetta del Salento. La roccia qui è morbida e calda, l’acqua della sorgente marina d’inverno a volte è fredda come quella di un fiume. Quando le barche e i turisti riescono a spingersi fin quaggiù, sento che qualcosa della loro presenza trasformerà questo luogo per sempre. I visitatori si avvicinano per scattarsi delle foto, qualcuno azzarda un tuffo, qualcun’altro grida ma non è un urlo liberatorio, c’è chi dimentica indumenti e contenitori sugli scogli. Perché le persone vengono qui esattamente? Alla ricerca di cosa? La natura, mi sembra, non ci rende necessariamente migliori: umani e natura si perseguitano a vicenda esasperando le proprie traiettorie esistenziali, i propri eccessi e le proprie defezioni. In Wild Spectacle (Meltemi, 2023), Janisse Ray esplora questo istinto inesauribile per la natura da una prospettiva esistenziale: gli esseri umani hanno bisogno del mondo vasto e selvaggio, e la crisi che lo minaccia è al contempo un trauma collettivo e personale.
Wild Spectacle è in parte diario di viaggio, in parte reportage, in parte testo di ispirazione poetica: ci si sposta dai paesaggi del grande Ovest nordamericano, agli atolli del Centro America, dal Messico al territorio natale dell’autrice, il Sud degli Stati Uniti. Escursionista, poetessa, attivista ambientalista e saggista, Ray sa come “attraversare un mondo per entrare in un altro e riportarlo indietro tramite descrizioni e metafore”, espressione che usa lei stessa in uno dei suoi racconti. Le osservazioni naturalistiche che costellano il libro sono ricche di dettagli vividi, il linguaggio è pittorico, lirico, musicale. In “Esaltazione dell’alce”, ad esempio, gli animali come “guizzi simili a fantasmi marroni scivolarono dietro una sottile cortina di giovani alberi”. Ray utilizza la lingua come bussola per la navigazione di luoghi inesplorati e talvolta spietati e mortali, le sue relazioni hanno l’odore acre della materia in decadimento – “l’aria cominciava a puzzare come un vecchio nido di uccelli” – e un tono scuro accompagna la sua prosa nel racconto delle vite di uomini e donne che scorrono in bilico sulla soglia di questo mondo e l’altro.
Nell’attenzione che Ray pone al lessico si avverte quella fiducia tipica di noi “parlesseri”, gli animali metafisici che riconoscono le cose dicendole e che usano la parola come redini del mondo: “quando conosciamo i nomi delle cose”, scrive, “non siamo perduti”. Nominare le creature vuol dire possedere un poco della loro maestosità e assegnarla alla memoria. Come per gli uccelli del Belize, “erano infinitamente belli: il tucano carenato, l’amazzone fronte rossa, il saltatore testanera. Diventavano sempre più sfarzosi: il dendrocolaptide d’avorio, l’aracari dal collare, un uccello del genere Oncostoma settentrionale. Erano arte, brillanti e vivi, dai nomi radiosi e tumultuosi: ciacialaca, trogone violaceo, motmot capo blu, attila polimorfo”. Petto ocra, tiranno caposcuro, il crestabruna: nomi di nazioni e casate fiabesche.
La natura non ci rende necessariamente migliori: umani e natura si perseguitano a vicenda.
Questo attaccamento agli altri esseri ha però una ragione che va oltre l’eufonia dei nomi e dei canti: Ray ha paura che tutto ciò possa andare perduto. Wild Spectacle viene assemblato una quindicina di anni dopo che la scrittrice decide di smettere di volare, perché prendere i voli per parlare davanti a una platea di una ventina di persone non è una pratica ecologicamente sostenibile. Pertanto, le narrazioni dei luoghi remoti visitati riguardano necessariamente il passato. C’è un peso emotivo in questo, non solo perché Ray probabilmente non rivedrà mai più quei luoghi, ma perché questi potrebbero cessare di esistere così come li ha descritti.
Ray tocca allora una questione centrale del suo lavoro, e cioè: perché scrivere di natura è importante? La scrittura naturalistica collega le persone tra loro e le collega ai paesaggi. Gli scritti di Wild Spectacle, infatti, sono pieni di riferimenti ad altri scrittori, altri ambientalisti, conferenze, incontri, lezioni, i viaggi di lavoro, una tribù di testimoni accomunata da un interesse e uno sforzo collettivo, non una ricerca artistica solitaria o isolata. “Il nature writing è sempre stato visto come un tipo di letteratura marginale. Se la cultura è un insieme di storie che raccontiamo sulla vita in un luogo e sul modo in cui conduciamo quella vita, allora il nature writing è una letteratura nella sua forma più essenziale”. Ci viene mostrato come persone che si trovano in diversi angoli del mondo affrontino le stesse minacce e lottino con la stessa passione per salvarli: “credevo che se più persone avessero visto la natura, l’avrebbero amata e protetta”. Forse chiunque scriva di natura lo fa un po’ ingenuamente con questa convinzione.
In “Donne Ragno” e “Ho visto la guerriera che è in me”, i due brani che concludono Wild Spectacle, siamo coinvolti in un’esplorazione più domestica, ma non meno intensa e intimista. La wilderness non ha a che fare con l’idea di uno spazio incontaminato, vergine oppure distante e inospitale. Henry David Thoreau, patrono e maestro del conservazionismo e della scrittura naturalistica nordamericana, esaltava le virtù della natura selvaggia vivendo a pochi passi dalla città. Per Thoreau nella natura selvaggia c’è la salvezza del mondo anche quando questa si trovi subito al di là dei binari di una ferrovia. Non esiste luogo in questo pianeta che non sia già contaminato o contagiato costitutivamente in ogni suo processo, da noi o dal resto degli agenti naturali. Uno spazio gratuito e autonomo che resta fuori–controllo. Il selvaggio non è quel luogo in cui i processi della natura non sono gravemente compromessi dall’attività umana. Le nostre idee di intatto e puro sono ideali: il selvaggio si afferma semplicemente nell’essere senza restrizioni. Un luogo di cose e accadimenti potenziali, che avvengono, che sono già avvenuti o che avverranno: “adesso il giovane maschio ruminava a tre metri da noi, immerso nell’acqua. Avrebbe potuto raggiungerci con un balzo”. Una lince che appare, un orso che decide di attaccare, cose che abbiamo sognato per via della stanchezza o che sono accadute per davvero, cicatrici che non ricordiamo di esserci procurati, incontri con le altre nazioni animali che ci trasformano per sempre.
Per Thoreau nella natura selvaggia c’è la salvezza del mondo anche quando questa si trovi subito al di là dei binari di una ferrovia.
Stare dentro a un territorio selvaggio vuol dire sentire che in quel “mare botanico” ci sono i puma, i grizzly, le linci, il gallo cedrone, il cervo, proprio come ci siamo dentro anche noi. Siamo solo uno degli innumerevoli prodotti dell’evoluzione, talvolta raccolti insieme solo per uno scopo, riconoscere ed essere riconosciuti, ovvero per significare: “sapevo che la mia presenza – all’alba, con appena una striscia di sole che sfiorava le montagne scure e verdi – significava qualcosa per i coyote. Sapevo che le loro conversazioni vertevano tanto sulla mia esistenza quanto sulla loro”. Per E. O. Wilson – che la stessa Ray menziona – esiste nell’inesplorato dell’Altro qualcosa che ci esalta, una “concordia” né innocente né crudele ma viva, perché la possibilità di esplorazione e conoscenza dell’Altro è uno strumento specializzato di ricognizione in grado di allineare l’istinto alla ragione, che potenzia il concetto stesso di vita e il suo mistero. Come scrive John Murray in The Great Bear: Contemporary Writings on the Grizzly (1992): “coloro che hanno avuto la possibilità di stare in un territorio con gli orsi sanno che la loro presenza eleva le montagne, rende i canyons più profondi, acuisce il soffio dei venti, illumina le stelle, oscura le foreste, accelera il battito delle cose”.
La passione di Ray nella descrizione di quanto ancora resiste di quei luoghi, così come il lamento per l’incuria e la crudeltà nei confronti della vita non-umana, vegetale e animale, è sincera e accorata: “mi misi a strillare. Questa lucertola morente, quasi morta, era quella che il ragazzo aveva lanciato. A volte la vita vola via in un soffio. Mi lasciai cadere in mezzo al sentiero, mi misi la testa tra le mani e scoppiai a piangere. Non so perché piango così tanto per la natura rovinata, e non solo per le grandi cose, come le sconfitte politiche o la scoperta che una meravigliosa foresta era scomparsa. Piango per la caduta di un solo albero”. Ma il pathos talvolta distrae dal racconto, e la prosa estatica sui boschi o gli inni agli alberi e la loro “bellezza intelligente” perdono di efficacia. A tratti, le immagini evocate esasperano il senso di meraviglia e soprannaturale ovunque, anche quando la natura è semplice fango.
La prosa di Ray appare più snella e toccante quando ritorna al mondo grezzo di uomini che non sono mossi dalla sola ragione e che in quella natura selvaggia fanno i conti con se stessi e la loro personalissima missione o traiettoria umana. Per quanto Wild Spectacle riguardi la scrittura sul selvaggio, è ancora di più un resoconto sugli esseri umani che osservano, registrano e comunicano le sue meraviglie. Uomini e donne che si confrontano con l’ampiezza della vita e non con la sua durata, che si lasciano commuovere, forse persino ammalare, da una folle e dolorosa coesistenza. Emergono personaggi in lotta e traumatizzati, eremitici ed entusiasti, lacerati e poetici.
Le nostre idee di intatto e puro sono ideali: il selvaggio si afferma semplicemente nell’essere senza restrizioni.
A cominciare dalla figura del padre di Ray: un tuttofare scaltro e depresso, che pesca pesci gatti con enormi mani nude, in quella casa metà campagna e metà rimessa e sfasciacarrozze, nel fanatismo evangelico della Georgia del sud, dove l’estate è insopportabilmente calda anche solo a guardarla dal finestrino mentre si guida verso la Florida. Un’esistenza di privazione e in deterioramento come le foreste di pino palustre tanto care alla scrittrice. Ma anche il collega e amico Rick Bass nella Yaak Valley in Montana che la deforestazione “colpì duramente, come una malattia”. Hank Harrington e la sfortunata vicenda sul lago Flathead e la Wild Horse Island. O Jackie Carter nella palude di Okefenokee, un rinnegato del Vietnam che “avrebbe bevuto fino a morirne, se la palude non l’avesse salvato”, e molti altri personaggi nel loro personale rapporto con la natura selvaggia.
Sulla copertina di Wild Spectacle si legge “alla scoperta di meraviglie”, ma forse il libro aiuta più che altro a capire come la natura possa insinuarci lo spirito, come ci elevi e ci mortifichi, come il suo degrado sia anche il nostro e il suo splendore una cosa alla quale apparteniamo. Il selvaggio è tutto al contempo, è preferenza e condanna. La natura può farci stare bene, superficialmente sappiamo come la gamma cromatica del verde e del marrone abbia su di noi un effetto riposante, così come la presenza di alcuni composti chimici che troviamo nella terra bagnata generi una risposta calmante nel nostro organismo. Ma questo non ci rende necessariamente persone migliori o risolute: la natura talvolta ci guarisce, altre volte lascia i nostri travagli esattamente lì dove sono. La natura non può sempre guarirci perché non è quello il suo mestiere.
Jung credeva che noi umani siamo perseguitati dal desiderio del ritorno al giardino e quindi dalla sua perdita, un luogo prima della Storia, dove essere animali o bambini inconsapevoli, in balia delle forze, al contempo dominatori e assoggettati. Ma i giardini sono anche i luoghi dello strano, della tentazione e dell’inganno, dell’ambigua reciprocità delle esistenze. Per i personaggi di Ray frequentare il selvaggio vuol dire vivere in un luogo di incontri senza doni, per i quali non esiste appropriazione senza rischio. Vivere lo spazio selvaggio esige da noi una particolare compenetrazione con un ritmo circadiano fatto di cose dentro e fuori di noi che lottano, resistono o si arrendono eternamente. Esiste una specie di perversione nel selvaggio, siamo cioè in una particolare identificazione con l’oggetto della natura, mentre questo non può corrisponderci in nessuna forma di benessere o godimento.
Il libro aiuta più che altro a capire come la natura possa insinuarci lo spirito.
In Wild Spectacle ci troviamo spesso in una condizione di microsomia nei confronti della natura: “eravamo diventati così piccoli da essere quasi invisibili”, “proseguii ancora e ancora mi rifiutai di riposare perché la vastità della palude e la mia stessa piccolezza mi spaventavano”. Essere piccoli vuol dire che non c’è riposo, che devi continuare a muoverti, e forse questo è uno stato d’animo che abbiamo dimenticato allontanandoci dai boschi, la nostra inquietudine umana viene da un fare perpetuo che era la nostra stessa esistenza. In un altro passaggio Ray riporta l’incontro con tre bambine nel Parco Nazionale degli Arches, negli Stati Uniti:
girarono attorno al fianco sporgente della roccia su cui ero seduta. Erano uscite di corsa da un labirinto di canyon […] ‘Puoi dirci che ore sono?’, chiese senza fiato quella con i capelli scuri. ‘Le quattro e diciassette’, dissi loro. ‘Ma io vengo da un altro fuso orario e non sono certa che siano le tre e diciassette, le quattro e diciassette o le cinque e diciassette’. Non fui di grande aiuto. Le ragazzine si erano adagiate su una roccia sotto di me, riposando di nascosto. ‘Ci siamo perse’, disse la più paffuta, ‘siamo andate a giocare nei canyon e non riusciamo a trovare la strada del ritorno’. Le loro facce non sapevano ancora essere disperate come quelle dei bambini più grandi.
Gli umani in natura perdono connotati spaziali e temporali, come una specie di Pollicino, diveniamo personaggi non semplicemente smarriti, ma impegnati a perdersi o a rimpicciolirsi nelle ore e nei luoghi. “Il compito della natura non è quello di intrattenere, ma di fornire l’essenziale […] il compito della natura è di mantenerci sani di mente. […] Di offrire servizi che non possono essere quantificati attraverso il denaro: rifugio, pace, bellezza, conoscenza, saggezza”. Ma forse essere ‘sani’ vuol dire proprio essere piccoli, spaesati e perduti. La natura ci rende sani perché ci ridona quella junghiana inquietudine andata persa, e forse questo potrebbe persino servire a salvarci. Come scrive Gaia Giuliani in Monsters, Catastrophes and the Anthropocene: a Postcolonial critique (2020), “riconoscere che gli umani non si limitano a ‘forgiare connessioni’ con la Terra e la natura, ma che sono ‘completamente dipendenti’ da esse, è una dichiarazione politica che sottolinea la reciprocità, o la trans-corporeità. La sua conseguenza è la ripoliticizzazione dello strano incontro come foriero di nuova vita e speranza”.
Jannisse Ray scrive di una estenuante nuotata nel Pacifico, trascinata dalle correnti e dalle onde, è stremata e dolorante, è sconquassata dallo spavento: “mi aggrappai alla roccia con i piedi. Le mie membra erano gelatina. L’oceano mi lasciò andare a malincuore e io rimasi lì in piedi a piangere tra le onde, abbracciandomi il petto, tremando, con il cuore che batteva all’impazzata. […] ‘Sono… quasi. Morta’, ansimai. Rimasi a lungo in silenzio, cercando di riprendere fiato”. Essere la natura e non avere nient’altro che la natura vuol dire accettare di stare in bilico e di consumarsi, e forse in questa accettazione c’è quella consapevolezza che tanto ci affanniamo a cercare. “Accendemmo un fuoco in un cerchio e ci sedemmo a fissare il falò, ascoltando il Pacifico che ci sfidava a essere persone migliori, ad amarci di più, a dare di più a noi stessi, a non arrenderci”.